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Bienheureux ROBERT WATKINSON, prêtre et martyr

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Robert Watkinson


1579-1602

Né en 1579 à Hemingborough (Yorkshire), Robert reçut sa formation sacerdotale à Douai et Rome, avant d’être ordonné prêtre à Arras.

Aussitôt ordonné prêtre, en 1602, il traversa la Manche pour l’Angleterre. Peu de jours après son arrivée, il tomba malade et se soumit aux soins d’un pharmacien de Londres.

Tandis qu’il marchait dans la rue, il rencontra un inconnu, sous les traits d’un homme vénérable et âgé, qui le salua en ces termes : Que Jésus vous bénisse, Monsieur, vous me semblez malade et atteint de bien des infirmités ; mais ayez courage, car dans quatre jours, vous en serez guéri.

C’est ce qui arriva. En effet, un prêtre apostat le dénonça traîtreusement, et le samedi suivant, 17 avril, Robert fut arrêté, jugé, et condamné à mort pour le délit d’être prêtre.

Au matin du jour de l’exécution, il eut ce qu’il fallait pour célébrer la sainte Messe. Ceux qui purent assister, parmi lesquels Henry Owen, remarquèrent une lumineuse auréole sur sa tête, depuis la consécration jusqu’à la communion.

Robert n’avait que vingt-trois ans, et à peine un mois de sacerdoce.

Il fut exécuté à Tyburn le mardi 20 avril, avec Francis Page et Thomas Tichborne.

Robert et Francis furent béatifiés en 1929, Thomas en 1987.


Bienheureux Martyrs Anglais

Prêtres catholiques martyrs à Tyburn ( 1602)

Saint Francis, saint Thomas, saint Robert, tous prêtres catholiques qui furent mis à mort sur l'échafaud de la place Tyburn, à Londres, pour avoir défendu l'Église romaine au temps de la reine Élisabeth.

À Londres, en 1602, les bienheureux prêtres et martyrs François Page, de la Compagnie de Jésus, et Robert Watkinson, qui furent ensemble condamnés à mort, sous la reine Élisabeth Ière, à cause de leur sacerdoce, que le second avait reçu un mois seulement auparavant, et tous deux durent monter sur l'échafaud à Tyburn.
Martyrologe romain

Bienheureux martyrs anglais
On commémore ce jour d’autres victimes de la persécution anglaise : les bienheureux Richard Sargeant et Guillaume Thomson, prêtres décapités en 1584, Maurice MacKenraghty, prêtre pendu en 1585 après deux ans de prison, Antoine Page exécuté en 1593. Avec eux encore les bienheureux François (Francis) Page et Robert Watkinson, et le vénérable Thomas Tichborne, qui furent conduits à la potence de Tyburn, à Londres, le 20 avril 1602, le lendemain de la pendaison de Jacques Duckett.
Francis Page est issu d’une famille de Harrow (proche de Londres) émigrée à Anvers pour vivre sa foi catholique. Il suivit ses études à Douai où il fut ordonné prêtre en 1600, après quoi il fut envoyé en mission en Angleterre. Il fut arrêté alors qu’il célébrait la messe de la Présentation du Seigneur dans la maison d’Anne Line. S’étant évadé, il fut vendu un an plus tard par une femme qui, après s’être déclarée catholique, était revenue à l’anglicanisme pour s’adonner à la dénonciation lucrative des prêtres. C’est pendant son emprisonnement qu’il fut reçu parmi les Jésuites. Parce qu’il était prêtre, il fut donc pendu et écartelé au gibet de Tyburn.

Robert Watkinson fut aussi ordonné prêtre en France et, malgré un état de santé fragile, gagna l’Angleterre immédiatement après son ordination. Le lendemain de son arrivée, un inconnu s’adressa à lui avant de disparaître : « Jésus vous bénisse, vous semblez malade et souffrant, mais soyez dans la joie car d’ici quatre jours, vous serez délivré de toutes vos infirmités ! » Et il en fut ainsi : arrêté, il fut pendu moins d’un mois après avoir été ordonné prêtre.

Thomas Tichborne était né à Hartley Mauditt dans le Hampshire. Il était parent du vénérable Nicolas Tichborne qui souffrit le martyre le 24 août 1601. Prêtre et enflammé d’amour pour Dieu il consuma dans la joie le sacrifice qu’il avait fait de lui-même, ce 20 avril 1602.



Beato Roberto Watkinson Sacerdote, martire



Hemingborough,(York), 25 dicembre 1579 - Londra, 20 aprile 1602

Martirologio Romano: A Londra sempre in Inghilterra, beati Francesco Page, della Compagnia di Gesù, e Roberto Watkinson, sacerdoti e martiri, che per il loro sacerdozio, per uno dei quali iniziato da appena un mese, furono costretti, sotto la regina Elisabetta I, a salire insieme sul patibolo di Tyburn. 

La storia delle persecuzioni anticattoliche in Inghilterra, Scozia, Galles, parte dal 1535 e arriva al 1681; il primo a scatenarla fu come è noto il re Enrico VIII, che provocò lo scisma d’Inghilterra con il distacco della Chiesa Anglicana da Roma.

Artefici più o meno cruenti furono oltre Enrico VIII, i suoi successori Edoardo VI (1547-1553), la terribile Elisabetta I, la ‘regina vergine’ († 1603), Giacomo I Stuart, Carlo I, Oliviero Cromwell, Carlo II Stuart.

Morirono in 150 anni di persecuzioni, migliaia di cattolici inglesi appartenenti ad ogni ramo sociale, testimoniando il loro attaccamento alla fede cattolica e al papa e rifiutando i giuramenti di fedeltà al re, nuovo capo della religione di Stato.

Primi a morire come gloriosi martiri, il 4 maggio e il 15 giugno 1535, furono 19 monaci Certosini, impiccati nel tristemente famoso Tyburn di Londra, l’ultima vittima fu l’arcivescovo di Armagh e primate d’Irlanda Oliviero Plunkett, giustiziato a Londra l’11 luglio 1681.

L’odio dei vari nemici del cattolicesimo, dai re ai puritani, dagli avventurieri agli spregevoli ecclesiastici eretici e scismatici, ai calvinisti, portò ad inventare efferati sistemi di tortura e sofferenze per i cattolici arrestati.

In particolare per tutti quei sacerdoti e gesuiti, che dalla Francia e da Roma, arrivavano clandestinamente come missionari in Inghilterra per cercare di riconvertire gli scismatici, per lo più essi erano considerati traditori dello Stato, in quanto inglesi rifugiatosi all’estero e preparati in opportuni Seminari per il rientro.

Tranne rarissime eccezioni come i funzionari di alto rango (Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Margherita Pole) decapitati o uccisi velocemente, tutti gli altri subirono prima della morte, indicibili sofferenze, con interrogatori estenuanti, carcere duro, torture raffinate come “l’eculeo”, la “figlia della Scavinger”, i “guanti di ferro” e dove alla fine li attendeva una morte orribile; infatti essi venivano tutti impiccati, ma qualche attimo prima del soffocamento venivano liberati dal cappio e ancora semicoscienti venivano sventrati.

Dopo di ciò con una bestialità che superava ogni limite umano, i loro corpi venivano squartati ed i poveri tronconi cosparsi di pece, erano appesi alle porte e nelle zone principali della città.

Solo nel 1850 con la restaurazione della Gerarchia Cattolica in Inghilterra e Galles, si poté affrontare la possibilità di una beatificazione dei martiri, perlomeno di quelli il cui martirio era comprovato, nonostante i due-tre secoli trascorsi.

Nel 1874 l’arcivescovo di Westminster inviò a Roma un elenco di 360 nomi con le prove per ognuno di loro.

A partire dal 1886 i martiri a gruppi più o meno numerosi, furono beatificati dai Sommi Pontefici, una quarantina sono stati anche canonizzati nel 1970.

Roberto Watkinson nacque il 25 dicembre 1579 da genitori cattolici a Hemingborough nella contea di York; studiò a Castleford e poi a Londra e Richmond.

A seguito della persecuzione contro i cattolici, scatenata dalla sanguinaria regina Elisabetta I, lasciò l’Inghilterra nel 1598 e si recò a Douai in Francia, nel Collegio Inglese, dove si preparavano al sacerdozio i futuri sacerdoti inglesi.

Venne ammesso l’11 ottobre 1598 e da lì il 12 settembre 1599 fu inviato al Collegio Inglese di Roma, ma per recuperare il suo cagionevole stato di salute, ritornò a Douai il 15 ottobre 1601.

Venne ordinato sacerdote ad Arras il 25 marzo 1602 e il 3 aprile seguente inviato in Inghilterra come missionario; purtroppo non ebbe la possibilità di esercitare il suo ministero, perché il 15 dello stesso mese di aprile fu arrestato a seguito della vile denunzia di un ex studente di Douai, che aveva conosciuto in Francia.

Quale sacerdote ordinato all’estero e rientrato clandestinamente in Inghilterra, padre Roberto Watkinson fu immediatamente processato e condannato a morte, pena che fu eseguita mediante impiccagione nel famigerato Tyburn di Londra il 20 aprile 1602, insieme al gesuita Francesco Page.

Il ventiduenne sacerdote concluse con il martirio la sua giovane vita, che già da alcuni anni aveva conosciuto le sofferenze delle malattie nel suo corpo; si narra che il giorno precedente il suo arresto, mentre camminava per le strade di Londra con un amico cattolico, gli si avvicinò un vecchio, che dopo averlo salutato nel nome del Signore, gli disse: “Sembrate afflitto da molte infermità, ma fatevi coraggio, perché tra quattro giorni tutto sarà passato”. 

Fu beatificato insieme ad altri 106 martiri di quel periodo, il 15 dicembre 1929 da papa Pio XI.


Autore: Antonio Borrelli



BEATO ROBERTO WATKINSON

20 de abril

1602 d.C.


   Roberto Watkinson (1579 - 1602). Nació en Hemingborough en Yorkshire, en el seno de una familia católica. Estudió en Richmond, y aquí se decidió por la vida sacerdotal. En 1599 marchó a Douai, de donde le enviaron a Roma, pero no le fue bien el clima de Roma y regresó a Douai donde fue ordenado sacerdote en 1602, con 23 años.

   No llevaba más que unos días en Inglaterra cuando, mientras el médico lo visitaba, fue arrestado debido a la delación de un tránsfuga de Douai que lo había reconocido. En seguida fue procesado y condenado a muerte, fue ahorcado y descuartizado en Tyburn, Londres, junto a Francisco Page. 


   Se cuenta que nada más llegar a Londres se le acercó en la calle un personaje de venerable aspecto que le dijo que en unos días acabaría su enfermedad. E igualmente se cuenta que estando en la cárcel celebrando misa en la mañana de su martirio lo rodeó una luz celestial desde la consagración a la comunión. Fueron beatificados el 15 de diciembre de 1929 por Pío XI. 



Sainte MARIE-ÉLISABETH HESSELBLAD, religieuse de l'Ordre du Très Saint Sauveur

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Sainte Marie-Elisabeth Hesselblad

Religieuse suédoise de l'ordre du Très Saint Sauveur ( 1957)

Religieuse suédoise, elle fut une des pionnières de l'oecuménisme et restaura l'ordre du Très Saint Sauveur appelé aussi de Sainte Brigitte. Elle s'était dévouée pour les malades et c'est auprès d'eux qu'elle découvrit le sens de la croix au coeur de toute vie humaine, révélation ultime de l'amour du Père. Elle s'engagea pour la cause de l'Unité des chrétiens par la prière et le témoignage. Le pape Jean Paul II le souligna lors de sa béatification durant le jubilé 2000.

"Ce n'est qu'en étant des 'spécialistes de l'esprit', comme le fut sainte Brigitte, que vous pourrez incarner fidèlement à notre époque le charisme d'esprit évangélique radical et d'unité, hérité de la bienheureuse Elisabeth Hesselblad. A travers l'hospitalité et l'accueil que vous offrez dans vos maisons, vous pourrez témoigner de l'amour miséricordieux de Dieu envers chaque homme et de l'aspiration à l'unité que le Christ a laissée à ses disciples." Jean-Paul II - audience à l'Ordre du Très Saint Sauveur de Sainte-Brigitte - le 9 février 2004

- 4 juin 2016, canonisations d'un prêtre polonais et d'une religieuse suédoise

- Décret de canonisation signé le 15 mars 2016: le religieux polonais Stanislas de Jésus et Marie (1631-1701), un important représentant de l'école polonaise de spiritualité, et la religieuse suédoise Élisabeth Hesselblad (1870-1957), déclarée Juste parmi les nations en 2004 pour avoir caché des juifs à Rome durant la Seconde guerre mondiale.

Promulgation de décrets du 15 décembre 2015 (en italien): miracle attribué à l'intercession de la bienheureuse Maria Elisabeth Hesselblad, religieuse suédoise fondatrice de l'ordre du St.Sauveur de Ste.Brigitte (1870 - 1957).

À Rome, en 1957, la bienheureuse Marie-Élisabeth Hesselblad, vierge. Née en Suède, après une longue période passée à travailler dans un hôpital, elle restaura l'Ordre du Très Saint Sauveur, fondé par sainte Brigitte, et porta toute son attention à la contemplation, à la charité envers les pauvres et à l'unité des chrétiens.
Martyrologe romain

Bienheureuse Marie-Elisabeth Hesselblad

Religieuse suédoise, elle fut une des pionnières de l'œcuménisme et fonda l'ordre du Très Saint Sauveur appelé aussi de Sainte Brigitte. Elle s'était dévouée pour les malades et c'est auprès d'eux qu'elle découvrit le sens de la croix au cœur de toute vie humaine, révélation ultime de l'amour du Père. Elle s'engagea pour la cause de l'Unité des chrétiens par la prière et le témoignage. Le pape Jean Paul II le souligna lors de sa béatification durant le jubilé 2000. "Ce n'est qu'en étant des 'spécialistes de l'esprit', comme le fut sainte Brigitte, que vous pourrez incarner fidèlement à notre époque le charisme d'esprit évangélique radical et d'unité, hérité de la bienheureuse Elisabeth Hesselblad. A travers l'hospitalité et l'accueil que vous offrez dans vos maisons, vous pourrez témoigner de l'amour miséricordieux de Dieu envers chaque homme et de l'aspiration à l'unité que le Christ a laissée à ses disciples."


Bienheureuse Marie Elizabeth HESSELBLAD
Nom: HESSELBLAD
Prénom: Marie Élizabeth
Nom de religion: Marie Élizabeth
Pays: Suède - Italie

Naissance: 04.06.1870  à Fâglavik (Suède)
Mort: 24.04.1957  à Rome

Etat: Religieuse - Fondatrice
Note: Luthérienne. Émigre à 18 ans aux Etats-Unis. Se convertit (1902). 1904 à Rome s'installe au couvent de Ste-Brigitte de Suède. Vœux en 1906. 1911 fonde l'ordre du Très St-Sauveur et de Ste Brigitte pour prier pour l'union des chrétiens.

Béatification: 09.04.2000  à Rome  par Jean Paul II
Canonisation:
Fête: 24 avril

Réf. dans l’Osservatore Romano: 2000 n.15 p.1-2 – n.16 p.4
Réf. dans la Documentation Catholique:
Notice

Marie Élizabeth Hesselblad naît en 1870 à Fâglavik en Suède, cinquième d'une famille de treize enfants, et reçoit le baptême dans l'Église luthérienne. Elle fait une expérience précoce de la pauvreté; à 18 ans, elle émigre aux Etats-Unis dans le but de soutenir financièrement sa famille. Elle travaille comme infirmière à l'hôpital Roosevelt de New York. Les malades catholiques l'impressionnent par leur sérénité et leur confiance en l'aide de Dieu. Elle comprend que la croix est au centre de la vie humaine; elle est révélation ultime de l'amour de notre Père céleste. Sa recherche de la vérité ainsi que sa dévotion à la Mère du Rédempteur la conduisent peu à peu vers l'Église catholique. En 1900, elle assiste à une procession du "Corpus Christi" et, à cette occasion, elle entend une voix intérieure qui lui dit: "Je suis celui que tu cherches". Elle est baptisée en 1902 au couvent de la Visitation, à Washington. Ensuite elle est confirmée à Rome et comprend clairement qu'elle doit consacrer sa vie à l'unité des Chrétiens. Elle est convaincue qu'en écoutant la voix du Christ crucifié, les chrétiens se réuniraient en un seul troupeau sous un seul pasteur (Cf Jn 10,16). En 1904, elle entre au couvent de Sainte-Brigitte de Suède, à Rome. Ce couvent est un carmel, mais bientôt elle obtient une permission spéciale du Pape Pie X pour revêtir l'habit des Brigittines. En 1911, elle reconstitue l'"Ordre du Très Saint-Sauveur et de Sainte-Brigitte"à Rome, puis en Suède, en 1923. Elle insuffle à ses filles sa spiritualité eucharistique et mariale, et son amour de l'Église. Sa charité concrète s'exprime au cours de la Deuxième Guerre mondiale en secourant de nombreuses personnes en difficulté, parmi lesquelles de nombreux juifs. Son couvent est rempli de réfugiés, mais malgré sa mauvaise santé et les difficultés matérielles, elle fait confiance à la Providence. Elle meurt en 1957 à l'âge de 87 ans.

Pionnière de l'œcuménisme, son œuvre et son charisme rappellent aux chrétiens d'Europe les racines évangéliques uniques de leur culture et de leur civilisation. Le 11 avril 2000, des luthériens assistaient à sa béatification.

 DISCOURS DU PAPE JEAN-PAUL II
AUX PARTICIPANTES AU IX CHAPITRE GÉNÉRAL
DE L'ORDRE DU TRÈS SAINT SAUVEUR DE SAINTE-BRIGITTE


Lundi 9 février 2004

Chères Soeurs!

1. Votre visite aujourd'hui est pour moi un motif de grande joie et je vous accueille avec plaisir, alors que le IX Chapitre général de votre Ordre du Très Saint Sauveur de Sainte-Brigitte touche à son terme. Avec vous sont rassemblées en esprit, autour du Successeur de Pierre, vos consoeurs qui travaillent dans divers pays du monde. A toutes et à chacune, j'envoie mon plus cordial salut.

Je salue en particulier avec affection l'Abbesse générale, Mère Tekla Famiglietti, qui a été reconfirmée pour six années supplémentaires. En la remerciant pour les sentiments exprimés dans l'hommage qu'elle m'a adressé, je lui présente, ainsi qu'au nouveau Conseil général, mes voeux pour un travail fructueux au service de la Famille "brigidine" de grand mérite, qui s'est développée au cours des dernières années et qui s'est enrichie de nouvelles oeuvres et activités. Je rends grâce à Dieu avec vous pour ce développement apostolique réconfortant et pour la floraison prometteuse de vocations.

2. "Revenir aux racines... pour un renouveau de la vie religieuse":  tel est le thème sur lequel vous avez voulu réfléchir au cours de l'Assemblée capitulaire. Dans un climat de silence et de prière, vous vous êtes placées à l'écoute de l'Esprit Saint afin de discerner les priorités de votre Ordre de nos jours. Tout renouveau authentique demande de retrouver avec sagesse l'esprit des origines, de façon à traduire le charisme de fondation par des choix apostoliques en harmonie avec les exigences des temps. C'est pourquoi, fidèles à la vocation monastique particulière qui caractérise la famille brigidine, vous avez eu le souci de réaffirmer le primat absolu que Dieu doit occuper dans l'existence de chacune de vous et de vos communautés. Vous êtes tout d'abord appelées à être des "spécialistes de l'esprit", c'est-à-dire des âmes enflammées par l'amour divin, contemplatives et constamment consacrées à la prière.

3. Ce n'est qu'en étant des "spécialistes de l'esprit", comme le fut sainte Brigitte, que vous pourrez incarner fidèlement à notre époque le charisme d'esprit évangélique radical et d'unité, hérité de la bienheureuse Elisabeth Hesselblad. A travers l'hospitalité et l'accueil que vous offrez dans vos maisons, vous pourrez témoigner de l'amour miséricordieux de Dieu envers chaque homme et de l'aspiration à l'unité que le Christ a laissée à ses disciples.

Dans la Lettre apostolique Novo millennio ineunte, j'ai écrit que le grand défi du troisième millénaire est de "faire de l'Eglise la maison et l'école de la communion" et que, dans ce but, il faut "promouvoir une spiritualité de communion" (cf. n. 43). Chères soeurs, je vous demande d'être partout les artisans inlassables du "grand oecuménisme de la sainteté". Votre action oecuménique est particulièrement appréciée, car elle concerne les pays du Nord de l'Europe, où la présence des catholiques  est  moins nombreuse et la promotion du dialogue avec les frères des autres confessions chrétiennes importante.
Que la Vierge Marie, Mère du Christ et de l'Eglise, veille sur votre Ordre et que sainte Brigitte et la bienheureuse Elisabeth Hesselblad intercèdent pour vous. Pour ma part, je vous accompagne de mon souvenir quotidien dans le Seigneur, alors que je vous bénis de tout coeur, ainsi que toutes vos communautés.

© Copyright - Libreria Editrice Vaticana


La religieuse suédoise Marie-Elisabeth Hesselblad, « juste parmi les Nations »

En présence de survivants de la shoah
JUIN 07, 2005 00:00REDACTIONÉGLISE CATHOLIQUE

ROME, Mardi 7 juin 2005 (ZENIT.org) – La religieuse suédoise Marie Elisabeth Hesselblad, fondatrice de l’ordre du Saint Sauveur et de Sainte Brigitte, est proclamée « Juste parmi les Nations » par le Mémorial de « Yad Vashem » (www.yadvashem.org): un motif d’espérance, souligne Benoît XVI.
Le cardinal Angelo Sodano, secrétaire d’Etat a en effet adressé au nom du pape un télégramme à l’occasion de la remise, à titre posthume, de cette de reconnaissance de l’institut Yad va-Shem de Jérusalem aux personnes qui, tout en n’étant pas juives, ont contribué à sauver des vies pendant la persécution nazie et la shoah. Le site Internet de Yad va-Shem signalait, au 1er janviuer 2005 dix citoyens suédois ayant reçu cette reconnaissance, dont le plus connu est Raoul Wallenberg.
La salutation du pape a été lue vendredi dernier au palais romain de la chancellerie – territoire du Vatican – par Mgr Leonardo Sandri, substitut de la secrétairerie d’Etat, lors de la rencontre modérée par le président de la communauté juive de Rome, M. Leone Paserman.
Le pape souhaite que cette récompense encourage les efforts pour « promouvoir les valeurs de la paix et de la solidarité ».
Cette reconnaissance a été remise, en présence du maire de Rome, M. Walter Veltroni, par le conseiller de l’ambassade d’Israël en Italie, Shai Cohen, à la nièce de la bienheureuse, Mme Britten Hesselblad Hede, et à l’abbesse générale actuelle de la congrégation, Mère Tekla Famiglietti.
La présence la plus émouvante était celle de M. Piero Piperno, une des personnes sauvées par Mère Hesselblad, qui cachait les juifs persécutés dans le couvent des sœurs à Rome, place Farnèse.
Les deux familles romaines Piperno et Sed, qui s’étaient déplacées de lieu en lieu pour échapper à l’occupant nazi, décidèrent, après le 8 septembre 1943, de revenir à Rome et se réfugièrent au couvent de Sainte Brigitte.
La bienheureuse Marie Elisabeth leur fit voir où ils pouvaient se réfugier d’urgence en cas de descente de police et elle veilla à ce que personne ne les contraigne à assister aux prières des sœurs.
« Mère Elisabeth nous a restitué notre dignité en nous accueillant et en respectant en tout notre vie et notre religion », a affirmé Piero Piperno.
Il ajoutait: « Nous avons cherché désespérément un refuge à ce couvent en nous présentant avec des faux papiers. Mais ma mère a ensuite révélé notre identité à la bienheureuse Elisabeth et son hospitalité, qui était bonne, devint encore meilleure ».
Le rabbin Abramo Alberto Piattelli a cité entre autres cette phrase du Talmud qui affirme: « Qui sauve une vie sauve le monde ».
Pour Mgr Sandri, « si, dans la vision chrétienne, la loi suprême et la norme fondamentale est l’amour du prochain, à quelque peuple ou race qu’il appartienne, tout ceci acquiert une valeur encore plus dense et profonde vis à vis de nos frères juifs, qui ont reçu les mêmes dons de la révélation et de l’alliance divine et sont dépositaires des mêmes promesses ».
Mère Tekla a reconnu comme « surprenant à première vue que les autorités d’Israël aient pensé à conférer une reconnaissance si prestigieuse et si significative à une femme suédoise convertie au catholicisme et devenue religieuse et fondatrice d’un ordre religieux ».
« Toutefois, disait-elle, au-delà des appartenances sociales et religieuses, on compprend par cette reconnaissance honorifique la conscience du caractère central de la personne humaine, la haute et indéniable valeur de tout être humain, et de sa vie comme un droit et un devoir à défendre, promouvoir et développer ».
Religieuse suédoise, fondatrice de l’Ordre du Très Saint Sauveur, dit de « Sainte-Brigitte », Marie Elisabeth Hesselblad (1870-1957) a été béatifiée à Rome pendant le Grand Jubilé de l’An 2000, le 9 avril, comme une pionnière de l’œcuménisme. Luthérienne, elle avait ensuite embrassé la foi catholique et elle avait commencé son apostolat au service des malades.
« Comme sa compatriote, sainte Brigitte, disait le pape à cette occasion, elle acquit également une profonde compréhension de la sagesse de la Croix à travers la prière et dans les événements de sa vie. Son expérience, très précoce, de pauvreté, son contact avec les malades qui l’impressionnaient par leur sérénité et leur confiance en l’aide de Dieu, et sa persévérance, en dépit des nombreux obstacles, pour fonder l’Ordre du Très Saint Sauveur de Sainte-Brigitte, lui enseigna que la Croix est au centre de la vie humaine, et est la révélation ultime de l’amour de notre Père céleste ».





The Servant of God was born in the little village of Faglavik, in the province of Alvsborg, on the 4 June 1870, the fifth of thirteen children born to Augusto Roberto Hesselblad and Cajsa Pettesdotter Dag. The following month she was baptized and received into the Reformed Church of Sweden in her parish in Hundene. Her childhood was lived out in various places, since economic difficulties forced the family to move on several occasions.


In 1886, in order to make a living and to support her family, she went to work first of all in Karlosborg and then in the United States of America. She went to nursing school at the Roosevelt hospital in New York and dedicated herself to home care of the sick. This meant that she continually had to make many sacrifices, which did not do her health any good, but certainly helped her soul to flourish. The contact she had with so many sick catholics and her thirst for truth helped to keep alive in her heart her search for the true flock of Christ. Through prayer, personal study and a deep daughterly devotion to the Mother of the Redeemer, she was decisively led to the Catholic Church and, on the 15 August 1902, in the Convent of the Visitation in Washington, she received conditional baptism from Fr. Giovani Giorgio Hagen, S.J., who also became her spiritual director. Looking back on that moment of grace, she wrote, "In an instant the love of God was poured over me. I understood that I could respond to that love only through sacrifice and a love prepared to suffer for His glory and for the Church. Without hesitation I offered Him my life, and my will to follow Him on the Way of the Cross." Two days later she was nourished by the Eucharist, and then she left for Europe.

In Rome she received the Sacrament of Confirmation and she clearly perceived that she was to dedicate herself to the unity of Christians. She also visited the church and house of Saint Bridget of Sweden (+ 1373), and came away with a deep and lasting impression: "It is in this place that I want you to serve me." She returned to the United States but, her poor health notwithstanding, she left everything and on 25 March 1904 she settled in Rome at the Casa di Santa Brigida, receiving a wonderful welcome from the Carmelite Nuns who lived there. In silence and in prayer she made great progress in her knowledge and love of Christ, fostered devotion to Saint Bridget and Saint Catherine of Sweden, and nourished a growing concern for her people and the Church.

In 1906 Pope Saint Pius X allowed her to take the habit of the Order of the Most Holy Saviour of Saint Bridget and profess vows as a spiritual daughter of the Swedish saint. In the years that followed she strove to bring back to Rome the Order of the Most Holy Saviour, and to that end she visited the few existing Brigettine monasteries in Europe, an experience that brought joys, disappointments and no concrete help. Her dream of bringing to birth a Brigettine community in Rome that was made up of members coming from monasteries of ancient observance, was not realized. However Divine Providence, in ways that were quite unexpected, enabled a new branch to grow from the ancient Brigettine trunk. In fact, on the 9 November 1911, the Servant of God welcomed three young English postulants and refounded the Order of the Most Holy Saviour of Saint Bridget, whose particular mission was to pray and work, especially for the unity of Scandinavian Christians with the Catholic Church.

In 1931 she experienced the great joy of receiving the Holy See’s permission to have permanent use of the church and house of Saint Bridget in Rome. These became the centre of activity for the Order which, driven on by its missionary zeal, also established foundations in India (1937).

During and after the Second World War, the Servant of God performed great works of charity on behalf of the poor and those who suffered because of racial laws; she promoted a movement for peace that involved catholics and non-catholics; she multiplied her ecumenical endeavours and for many people who belonged to other religions or other christian confessions, she was part of their journey towards the Catholic Church.

From the very beginning of her Foundation she was particularly attentive to the formation of her spiritual daughters, for whom she was both a mother and a guide. She implored them to live in close union with God, to have a fervent desire to be conformed to our Divine Saviour, to possess a great love for the Church and the Roman Pontiff, and to pray constantly that there be only one flock and one shepherd, adding, "This is the prime goal of our vocation." She also devoted herself to fostering a unity of spirit within the Order. "The Lord has called us from different nations," she wrote, "but we must be united with one heart and one soul. In the divine Heart of Jesus we will always meet one another and there we seek our strength to face the difficulties of life. May we be strengthened to practice the beautiful virtues of charity, humility and patience. Then our religious life will be the antechamber to Heaven." On other occasions she said, "Our religious houses must be formed after the example of Nazareth: prayer, work, sacrifice. The human heart can aspire to nothing greater."

Throughout her life she remained faithful to what she had written in 1904: "Dear Lord, I do not ask to see the path. In darkness, in anguish and in fear, I will hang on tightly to your hand and I will close my eyes, so that you know how much trust I place in you, Spouse of my soul." Hope in God and in His providence supported her in every moment, especially in times of testing, solitude and the cross. She put the things of Heaven before the things of earth, God’s will before her own, the good of her neighbour before her own benefit.

Contemplating the infinite love of the Son of God, who sacrificed Himself for our salvation, she fed the flame of love in her heart, as manifested by the goodness of her works. Repeatedly to her daughters she said, "We must nourish a great love for God and our neighbors; a strong love, an ardent love, a love that burns away imperfections, a love that gently bears an act of impatience, or a bitter word, a love that lets an inadvertence or act of neglect pass without comment, a love that lends itself readily to an act of charity." The Servant of God was like a garden in which the sun of charity brought to bloom the flowers of the spiritual and corporal works of mercy. She was filled with care and concern for her Sisters, for the poor, the sick, the persecuted Jewish people, for priests, for the children to whom she taught Christian doctrine, for her family and for the people of Sweden and Rome. She was a humble Sister and most obliging to all who sought her help. She always felt a sense of duty and great joy in sharing with others the gifts she had received from the Lord, and this she did with gentleness, graciousness and simplicity. She was prudent in her work for the Kingdom of God, in her speaking, acting, advising and correcting. She had great respect for the religious freedom of non-christians and non-catholics, whom she received gladly under her roof. She practiced justice towards God and neighbour, temperance, self-control, reserve, detachment from the honours and things of the world, humility, chastity, obedience, fortitude in tribulation, perseverance in her praise and service of God, faithfulness to her religious consecration.

She walked with God, clinging to the cross of Christ, who was her companion from the days of her youth. "For me," she said, "the way of the Cross has been the most beautiful of all because on this path I have met and known my Lord and Saviour." Unremittingly her physical suffering went hand in hand with her moral suffering. The cross became particularly heavy and painful during the final years of her life, when the Holy See prepared the Canonical Visit of her Order as her health got progressively worse. In prayer and peaceful submission to God’s will she prepared herself for the final meeting with the Divine Spouse, who called her to Himself in the early hours of 24 April 1957.

The reputation for holiness which surrounded her in life increased after her death, and almost immediately the Vicariate of Rome began the cause for Beatification.


Saint Mary Elizabeth Hesselblad


Also known as
  • Maria Elizabetta Hesselblad
Profile

Fifth of thirteen children born to Augusto Roberto Hesselblad and Cajsa Pettesdotter Dag. Raised in the Reformed Church of Sweden. Due to economic hard times, the family moved regularly.

Emigrated to New York at age 18 to seek work to support her family back in SwedenStudied nursing at Manhattan’s Roosevelt Hospital where she worked as a nurse from 1888; did home care for the sick and aged. Her work took her into the large Catholic population of New York; her interest in the Church grew, and she came to see it as the place closest to Christ. She converted to Catholicism, received conditional baptism on 15 August 1902 by the Jesuit priest Giovani Hagen at Washington.

Pilgrim to RomeItaly in late 1902, receiving Confirmation there. She returned briefly to New York, but then sailed back to Rome to start a religious life. Settled at the Carmelite House of Saint Bridget of Sweden on 25 March 1904. In 1906 she got permission from Pope Pius X to take the habit of the Brigittines (Order of the Most Holy Saviour of Saint Bridget).

She worked to restore the Order in Sweden and Italy, especially in Rome. She returned to her homeland in 1923, ministered to the poor, and tried to revitalize the Brigittine movement there. Received control of Rome‘s Brigittine house and church in 1931. Established Brigittinefoundations in India in 1937. Saved Jews and others persecuted by the Nazis by giving them refuge in Rome; in 2004 she was recognized by Yad Vashem as one of the Righteous Among the Nations for this work.

Born

St. Maria Elizabeth Hesselblad Witnessed to the Power of the Resurrection

This summer, Pope Francis canonized St. Maria Elizabeth Hesselblad (1870-1957)—a Swedish convert to the faith, and only the second saint named from Sweden in history.

Saint Maria Elizabeth Hesselblad was a convert from Lutheranism to Catholicism. She was the fifth of thirteen children, whose family moved frequently due to difficult economic times. She was raised in the Reformed Church of Sweden. At the age of 18, she emigrated to New York to earn money for her family. First she studied nursing at Manhattan’s Roosevelt HospitalShe worked with the sick and aged as a nurse in home care for the Catholics of New York City. Because of her acquaintance with so many Catholics, her interest in the Church grew, and she came to view it as the place where one could be closest to Christ.  In 1902 she converted to Catholicism and received conditional baptism by Giovani Hagen, a Jesuit priest.

Later that year she sailed to Rome where she received her Confirmation. She returned briefly to New York, but then returned to Rome to enter religious life. Mother Mary Elizabeth decided on the Carmelite House of Saint Bridget of Sweden, and in 1906 she received permission to take the habit of the Brigittines (the Order of the Most Holy Saviour of Saint Bridget.) It wasn't her intention to found a new order originally. She only intended to revive the ancient order in the same house where Bridget had lived and died. Her dream was to take the Brigittine Sisters back to Sweden once more and let the order take root wherever God led it. She wanted to spread the true spirit of Christian unity and service to others, as it had been spread by the ancient Order of Saint Bridget. She worked to restore the order in Italy as well, especially in Rome. In 1923 she returned to Sweden where she ministered to the poor and tried to revitalize the Brigittine movement there. In 1937 she was successful in establishing Brigittine foundations in India.

The communities founded by Mother Elizabeth under a central authority without papal enclosure, and her insistence that they are an integral part of the ancient Order of the Most Holy Saviour, gave rise to much criticism and sometimes to controversy. But after thirty years of continuous trials and persevering through difficulties of all kinds, her order was canonically approved and on July 7, 1940, recognized by the Church. Today, her order consists of fifty houses spread over three continents, whose work is the charism given to them by St. Maria Elizabeth Hesselblad.

The Church's newest saint rescued Jews and others persecuted by the Nazis, hiding them in Rome. She was recognized by Yad Vashem as one of the “Righteous Among the Nations” for this heroic work.

Maria Pilar, a Brigittine nun from Spain, told the Catholic News Agency on June 5 that the canonization of their foundress is not only a recognition of her sanctity, but also gives publicity to “the example of a person who lived for God and sought the truth since she was a child—she was Lutheran and sought the truth as a young girl.”

St. Maria Elizabeth “was called to offer a lot in the ecumenism of the Church, so that all religions would be one in Christ, not just in Spain,” she said, and prayed on behalf of her order that the Church would be “one, holy, Catholic and apostolic.”

Similarly, Ulf Silverling, a layman from Stockholm, said the canonization means a lot to the local Catholic community in Sweden since “normally the Catholic Church is described as some exotic experience from immigrants.”

However, “this is a Swedish saint, and it's the second Swedish saint officially in history. She's a follower of St. Bridgette, who was also Swedish, so it's a restoration of the Catholic history in Sweden, actually.”

With nearly 300 people in his group alone, including non-Catholics such as Lutherans, Pentecostals and one Syrian Orthodox priest, Silverling said the event also serves as a strength for the faith of immigrants, who live “in one of the most secularized countries in the world.”

Pope St. John Paul II beatified Mother Maria Elizabeth in 2000. This humble yet great Sister, transfused the treasures of her spirit, her faith and her love to the Institute she founded, with the sole intention of making it a humble instrument for the spreading of the Kingdom of God on earth.


Swedish Sister who hid Jews from the Nazis is to be canonised

 
Blessed Mary Elizabeth is a Righteous Among the Nations
·        
A Swedish Sister who hid Jews from the Nazis during the Second World is to be canonised next year.
Blessed Mary Elizabeth Hesselblad, who refounded the Bridgettines and worked to restore the order in Italy and Sweden, saved the lives of over 60 people by hiding them at the motherhouse in Rome.
Pope Francis approved a miracle attributed to her intercession earlier this week, paving the way for her to be proclaimed a saint.
The Swede, a convert from Lutheranism, was mother superior at the motherhouse in Piazza Farnese during the Second World War.
The hiding of dozens of people at the motherhouse was recounted by an Italian Jew, Piero Piperno, as part of his testimony on behalf of another Bridgettine, Brighton-born Mother Mary Richard Beauchamp Hambrough, whose Cause was opened five years ago.
Mr Piperno told the Times newspaper: “We were three families, 13 in all. We stayed in three rooms, all the men in one, except an uncle who slept in a dark, small room with no windows, and another two for the women. In the beginning we all ate in one room by ourselves.”
For six months –until the Allies liberated Rome – the Piperno family hid in the convent, at every moment fearing potential arrest.
The nuns did not discriminate between the people they helped, he said, and took in Fascist refugees as well as Jews.
He said: “Something which bothered me back then, but which I now understand, was that the nuns that helped us also helped Fascist families. There was great solidarity because everybody was suffering and everybody finally realised we were all in the same boat. “
Blessed Mary Elizabeth, who Yad Vashem has named as a Righteous among the Nations, was beatified by St John Paul II in 2000.
She was born Sweden in 1870 and baptised into the Reform Church. In 1886 she migrated to the United States to earn money for her family back home.
After working as a nurse, she converted to Catholicism in 1902.
Moving to Rome, she dedicated her life and her religious order to prayer and work for the attainment of Christian unity.
She refounded the Order of the Most Holy Saviour of St Bridget, better known as the Bridgettines.
Mother Riccarda later succeeded her as mother superior at the order’s Rome motherhouse.


Santa Maria Elisabetta Hesselblad Vergine, Fondatrice


Faglavik, Svezia, 4 giugno 1870 - Roma, 24 aprile 1957

Elisabeth Hesselblad, nata in Svezia da famiglia luterana, iniziò dalle scuole elementari a percepire su di sé la frattura tra le Chiese, cominciando a pregare per riuscire a trovare il “vero Ovile” di cui aveva letto nel Vangelo. S’imbarcò per cercare lavoro negli Stati Uniti, ma si ammalò dopo essere sbarcata. Una volta guarita, per adempiere a un voto, si dedicò come infermiera all’assistenza dei malati presso il Roosevelt Hospital di New York. Guidata dal gesuita padre Johann Georg Hagen, approfondì la dottrina cattolica e ricevette il Battesimo il 15 agosto 1902. L’anno successivo giunse a Roma e, visitando la casa dove santa Brigida di Svezia aveva vissuto, comprese di doverne proseguire l’opera. Fu quindi accolta dalle Carmelitane che all’epoca custodivano il luogo e, col permesso di papa Pio X, vestì l’abito brigidino. Spese il resto della sua vita per ripristinare l’Ordine Brigidino in ogni parte del mondo. Si adoperò inoltre, negli anni della seconda guerra mondiale, per dare rifugio agli ebrei perseguitati. Morì a Roma il 24 aprile 1957. È stata beatificata in piazza San Pietro a Roma il 9 aprile 2000 e canonizzata nello stesso luogo domenica 5 giugno 2016, insieme al Beato Stanislao di Gesù Maria (al secolo Jan Papczyński).

Martirologio Romano: A Roma, beta Maria Elisabeth Hesselblad, vergine, che, originaria della Svezia, dopo avere per lungo tempo prestato servizio in un ospedale, riformò l’Ordine di Santa Brigida, dedicandosi in particolare alla contemplazione, alla carità verso i bisognosi e all’unità dei cristiani. 

Giovane emigrata negli Stati Uniti

Nacque in Svezia, il 4 giugno 1870, quinta di tredici figli. Di religione luterana, a 18 anni emigrò in America per aiutare economicamente la sua famiglia. Qui visse lunghi anni (1888-1904) solerte infermiera nel grande ospedale Roosvelt di New York, dove a contatto con la sofferenza e la malattia affinò la sua sensibilità umana e spirituale conformandola a quella della sua compatriota Santa Brigida.


L’anelito all’ “unico Ovile”


Fin dall´adolescenza il suo anelito fu la ricerca dell´Unico Ovile. Così lei descrive questa sua ansia nelle “Memorie autobiografiche”:

“Da bambina, andando a scuola e vedendo che i miei compagni appartenevano a molte chiese diverse, cominciai a domandarmi quale fosse il vero Ovile, perché avevo letto nel Nuovo Testamento che ci sarebbe stato “un solo Ovile ed un solo Pastore”. Pregai spesso per essere condotta a quell`Ovile e ricordo di averlo fatto specialmente in un´occasione quando, camminando sotto i grandi pini del mio paese natio, guardai in special modo verso il cielo e dissi: “Caro Padre, che sei nei cieli, indicami dov´è l´unico Ovile nel quale Tu ci vuoi tutti riuniti”. Mi sembrò che una pace meravigliosa entrasse nella mia anima e che una voce mi rispondesse: “O, figlia mia, un giorno te lo indicherò. Questa sicurezza mi accompagnò in tutti gli anni che precedettero la mia entrata nella Chiesa”.


Nella Chiesa cattolica


Guidata da un dotto Gesuita studiò con passione la dottrina cattolica e, con meditata scelta, l´accettò, facendosi battezzare sotto condizione il giorno dell´Assunzione della Beata Vergine Maria del 1902 negli U.S.A. Descrivendo il tempo che precedette questo suo passo nella Chiesa cattolica scrive: “Passarono alcuni mesi durante i quali la mia anima fu immersa in un’agonia che credetti mi avrebbe tolta la vita. Ma la luce venne, e con essa la forza. Per tanto tempo avevo pregato: “O Dio, guidami Luce amabile!” ed effettivamente mi fu concessa una luce benevola e con essa una pace profonda ed una ferma decisione di fare immediatamente il passo decisivo ed entrare nell´unica vera Chiesa di Dio. Oh! bramavo di essere esteriormente quella che ero da tanto tempo nell´interno del mio cuore e scrissi subito alla mia amica al Convento della Visitazione a Washington: “Adesso vedo tutto chiaro, tutti i miei dubbi sono scomparsi, devo divenire immediatamente figlia della vera Chiesa e tu dovrai farmi da madrina...Prega per me e ringrazia Dio e la Beata Vergine”.

Nella primavera del 1903 Maria Elisabetta si trovava a casa in Svezia e prima di partire per far ritorno in America scrisse alla nonna i seguenti versi:


“Ti adoro, grande prodigio del cielo,
Che mi dai cibo spirituale in abito terreno!
Tu mi consoli nei miei momenti bui.
Quando ogni altra speranza per me spenta!.
Al Cuore di Gesù presso la balaustra dell´altare
Eternamente in amore sarò legata”.



A Roma, nella casa di Santa Brigida


Nel 1904 si recò a Roma e, con uno speciale permesso del Papa S. Pio X, vestì l´abito brigidino nella casa di Santa Brigida allora occupata dalle Carmelitane. Prima della partenza mandò a sua sorella Eva un racconto della sua vita sotto forma di preghiera: “Nella mia infanzia Ti vidi nei profondi boschi del mio paese e udii la Tua voce nel sussurro del piano e dell´abete. Ti vidi nella mia prima infanzia, quando il minerale si spezzava risonando dai monti del Norrland...Tu guidasti la mia vita sui grandi oceani...Ti vidi nel mio nuovo paese: nell´abbandono e nella solitudine del cuore. Mi eri vicino. Eri il mio massimo bene! Tu accendesti nel mio animo il desiderio del bene, il desiderio di alleviare la sofferenza, il dolore e la miseria...Camminasti con me nei vicoli stretti e bui dove vivono i Tuoi più piccoli e più dimenticati...Ho sognato il ritorno al mio paese natale, una “Casa della Pace” nella mia dolce patria, ma la Tua voce mi ha chiamata all´eterna Roma - alla casa di S. Brigida...La lotta è stata grande e difficile, ma la Tua voce così esortante. Signore, prendi da me questo calice, che non è mio senza la Tua volontà. Le Tue mani trapassate hai teso verso di me per esortarmi a seguirTi sul sentiero della Croce fino alla fine della vita. Ecce ancilla Domini. “Signore, fai di me ciò che vuoi. Mi basta la Tua Grazia”.


Rifondatrice dell’Ordine brigidino


Dietro ispirazione dello Spirito Santo ricostituì l´Ordine di Santa Brigida (1911), rispondendo alle istanze e ai segni dei tempi, e rimanendo fedele alla tradizione brigidina per l´indole contemplativa e la celebrazione solenne della liturgia. Il suo apostolato fu ispirato dal grande ideale “Ut omnes unum sint” e questo la spinse a dare la sua vita a Dio per unire la Svezia a Roma.

Così scriveva il 4 agosto 1912 in mezzo alle grandi prove degli inizi della sua fondazione: “L´uragano del nemico è grande ma la mia speranza rimane tanto più ferma che un giorno tutto andrà bene. Per la Croce alla luce! Quello che si semina nelle lacrime si raccoglie nella gioia. E il nostro caro Signore ha detto: “Dove due o tre sono riuniti nel Mio nome, io sono in mezzo a loro”. Questo diciamo a Lui affinché Egli supplisca a quello che manca in noi e attorno a noi per il compimento della vocazione alla quale ci ha, così indegne come siamo, chiamate.


Una vita di sacrificio e di gioia


Con molto coraggio e lungimiranza nel 1923 riportò le figlie di Santa Brigida in Svezia. Le sofferenze fisiche l´accompagnarono per tutta la vita. La cronaca di questi anni riporta queste sue parole alle Figlie: “Vedete, il dottore non comprende che io ho una ragione per soffrire e donare le mie pene; desidero, se il Signore le accetta, offrire tutte le mie sofferenze e pene per questa attività e per la Svezia”.

Nel 1936 a una sua Figlia in difficoltà faceva pervenire queste parole: “...La nostra vita è una vita di sacrificio nel servizio di Dio. Il sacrificio è contro la nostra natura - le attrazioni del mondo con le sue soddisfazioni ci attirano - ma come tu già sai, la nostra vita è una vita di sacrificio che ci dona non solo quella pace interiore, ma quella gioia che possiamo trovare nel Signore. Ma per arrivare a questo atto, la donazione di noi stesse a Dio deve essere completa ed incrollabile. Non solo una parte della mia attività! Non solo una parte dei miei desideri! Non solo una parte del mio amore! No, Signore, anche un pensiero che non è per la Tua gloria sia lontano da me, e i battiti del mio cuore siano espressioni del mio amore per Te; così anche il mio desiderio sia di essere un sacrificio di me stessa, nel tuo servizio per la salvezza degli uomini, come Tu vuoi, non come mi piace. Così pensa una sposa di Gesù...”.

Carità durante la seconda guerra mondiale

Tutta la sua vita era stata contraddistinta da una continua carità operosa. Durante la seconda guerra mondiale diede rifugio a molti ebrei perseguitati e trasformò la sua casa in un luogo dove le sue figlie potevano distribuire viveri e vestiario a quanti si trovavano in necessità. In una lettera a sua sorella Eva aveva scritto: “...Quaggiù viviamo in condizioni assai difficili, ma la Provvidenza di Dio ci assiste in molti modi meravigliosi. Abbiamo ancora la casa piena di profughi, in quest´anno di afflizione 1944”.


La morte


Il 24 aprile 1957 dopo una lunga vita segnata dalla sofferenza e dalla malattia morì nella casa di Santa Brigida a Roma, lasciando grande fama di santità tra le sue Figlie Spirituali, nel clero e tra la gente povera e semplice, che la venerò Madre dei poveri e Maestra dello spirito. 


Il processo di beatificazione


Essendo madre Maria Elisabetta morta a Roma, la fase diocesana del suo processo si è svolta nel Vicariato dell’Urbe dal 1987 al 1990, ricevendo il nulla osta dalla Santa Sede il 4 febbraio 1988. La sua “positio super virtutibus” è stata consegnata nel 1996 ed è stata discussa dai consultori teologi il 10 novembre 1988e dai cardinali e vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi il 16 marzo 1999. Dieci giorni dopo, il 26 marzo, il Papa san Giovanni Paolo II ha autorizzato la promulgazione del decreto che la dichiarava Venerabile. 


Il primo miracolo e la beatificazione


Il primo miracolo accertato per intercessione di madre Maria Elisabetta è stata la guarigione inspiegabile di una suora brigidina, indiana d’origine ma di servizio in una casa del Messico, cui era stata diagnosticata una tubercolosi ossea. La beatificazione si è quindi svolta a Roma il 9 aprile 2000, durante il Grande Giubileo, celebrata da san Giovanni Paolo II.


Il secondo miracolo e la canonizzazione


Il prodigio che è invece valso la canonizzazione è quello occorso a un bambino, Carlos Miguel Valdés Rodriguez, nativo di Santa Clara a Cuba. Quando aveva due anni iniziò ad avere disturbi come vomito, cefalea e difficoltà motorie. Dagli esami cui fu sottoposto gli venne diagnosticato un tumore nel cervelletto (precisamente un medulloblastoma desmoplastico cerebrale), grosso circa tre centimetri. Nonostante le due operazioni subite, non migliorò, anzi, rimase paralizzato. 

Dopo tre mesi di spostamenti da un ospedale all’altro, i genitori erano quasi senza speranze, quando una suora brigidina suggerì loro di ricorrere all’intercessione della sua fondatrice. Il 18 luglio 2005, quasi immediatamente dopo che al corpo del piccolo era stata accostata una reliquia della Beata, si notarono progressivi miglioramenti, finché non fu dichiarato guarito. La guarigione è stata riconosciuta come miracolosa col decreto promulgato da papa Francesco il 14 dicembre 2015. 

Lo stesso Pontefice ha canonizzato madre Maria Elisabetta insieme al beato Stanislao di Gesù Maria (al secolo Jan Papczyński) domenica 5 giugno 2016: ancora una volta durante un Giubileo, l’Anno Santo della Misericordia.



Autore: Emilia Flocchini



Promulgazione di Decreti della Congregazione delle Cause dei Santi, 15.12.2015


Ieri, 14 dicembre 2015, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in udienza privata Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Angelo Amato, S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Nel corso dell’udienza il Santo Padre ha autorizzato la Congregazione a promulgare i decreti riguardanti:

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Beata Maria Elisabetta Hesselblad, Fondatrice dell’Ordine del Santissimo Salvatore di Santa Brigida; nata a Fåglavik (Svezia) il 4 giugno 1870 e morta a Roma il 24 aprile 1957;

- il miracolo, attribuito all’intercessione del Servo di Dio Ladislao Bukowiński, Sacerdote diocesano; nato a Berdyczów (Ucraina) il 22 dicembre 1904 e morto a Karaganda (Kazakhstan) il 3 dicembre 1974;

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio Mariae Celeste Crostarosa (al secolo: Giulia), Monaca Fondatrice delle Suore del Santissimo Redentore; nata a Napoli (Italia) il 31 ottobre 1696 e morta a Foggia (Italia) il 14 settembre 1755;

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio Maria di Gesù (al secolo: Carolina Santocanale), Fondatrice della Congregazione delle Suore Cappuccine dell’Immacolata di Lourdes; nata a Palermo il 2 ottobre 1852 e morta a Cinisi (Italia) il 27 gennaio 1923;

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio Itala Mela, Oblata Benedettina del Monastero di San Paolo in Roma; nata a La Spezia (Italia) il 28 agosto 1904 ed ivi morta il 29 aprile 1957;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Angelo Ramazzotti, Patriarca di Venezia, Fondatore dell’Istituto per le Missioni Estere; nato a Milano (Italia) il 3 agosto 1800 e morto a Crespano del Grappa (Italia) il 24 settembre 1861;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Giuseppe Vithayathil, Sacerdote diocesano, Fondatore della Congregazione delle Suore della Sacra Famiglia; nato a Puthenpally (India) il 23 luglio 1865 e morto a Kuzhikkattussery (India) l’8 giugno 1964;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Giuseppe Maria Arizmendiarrieta, Sacerdote diocesano; nato a Markina (Spagna) il 22 aprile 1915 e morto a Mondragón il 29 novembre 1976;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Giovanni Schiavo, Sacerdote professo della Congregazione di San Giuseppe; nato a Sant’Urbano (Italia) l’8 luglio 1903 e morto a Caxias di Sul (Brasile) il 27 gennaio 1967;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Venanzio Maria Quadri (al secolo: Antonio), Religioso professo dell’Ordine dei Servi di Maria; nato a Vado di Setta (Italia) il 9 dicembre 1916 e morto a Roma il 2 novembre 1937;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Guglielmo Gagnon, Religioso professo dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio; nato a Dover (Stati Uniti d’America) il 16 maggio 1905 e morto a Hô Chi Minh City (già Saigon, Vietnam) il 28 febbraio 1972;

- le virtù eroiche della Serva di Dio Teresa Rosa Ferdinanda de Saldanha Oliveira e Sousa, del Terzo Ordine di San Domenico, Fondatrice della Congregazione di Portogallo delle Suore Domenicane di Santa Caterina da Siena; nata il 4 settembre 1837 a Lisbona (Portogallo) ed ivi morta l’8 gennaio 1916;

- le virtù eroiche della Serva di Dio Maria Emilia Riquelme Zayas, Fondatrice dell’Istituto delle Missionarie dei Santissimo Sacramento e della Beata Vergine Maria Immacolata; nata a Granada (Spagna) il 15 agosto 1847 ed ivi morta il 10 dicembre 1940;

- le virtù eroiche della Serva di Dio Maria Speranza della Croce (al secolo: Salustiana Antonia Ayerbe Castillo), Cofondatrice delle Missionarie Agostiniane Recollette; nata a Monteagudo (Spagna) l’8 giugno 1890 ed ivi morta il 23 maggio 1967;

- le virtù eroiche della Serva di Dio Emanuela Maria Maddalena Kalb (al secolo: Elena), Suora professa della Congregazione delle Suore Canonichesse di Santo Spirito in Sassia; nata a Jarosław (oggi Polonia) il 26 agosto 1899 e morta a Cracovia (Polonia) il 18 gennaio 1986;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Nicola Wolf, Laico e Padre di famiglia; nato a Neuenkirch (Svizzera) il 1° maggio 1756 e morto a Sant’Urbano (Svizzera) il 18 settembre 1832;

- le virtù eroiche del Servo di Dio Teresio Olivelli, Laico; nato a Bellagio (Italia) il 7 gennaio 1916 e morto nel campo di concentramento di Hersbruck (Germania) il 17 gennaio 1945.

[02220-IT.01] [Testo originale: Italiano]

[B0996-XX.01]


Bienheureux JULES JUNYER PADERN, prêtre salésien et martyr (26 avril)

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Bienheureux Jules Junyer Padern


Prêtre salésien et martyr de la guerre civile espagnole ( 1936)


Né en 1892 en Catalogne, bon éducateur, il entre chez les salésiens en 1912 et est ordonné prêtre en 1921, il doit passer à la clandestinité au moment de la guerre civile espagnole en 1936 et aide de jeunes salésiens à passer à l'étranger. Il est arrêté et jugé par un tribunal populaire, écroué à Barcelone et fusillé près de Gérone. Il a été béatifié le 11 mars 2001 avec d'autres martyrs espagnols.

À Montjuc, près de Gérone en Espagne, l'an 1936, le bienheureux Jules Junyer Padern, prêtre salésien et martyr, victime de la persécution religieuse au cours de la guerre civile.
Martyrologe romain

Blessed Juli Junyer Padern


Also known as
  • Julius
  • Julio
Profile

Salesian, making his profession in 1912Ordained in 1921Taughtphilosophy, literature and Gregory chant in Girona, Spain, and served as spiritual director to other SalesiansArrested by antiCatholicforces in 1938, but was released. Helped some other Salesians escape across the border, which led to Father Juli’s re-arrest for treason and espionage. Martyred in the Spanish Civil War.

Born

Beato Giulio (Julio) Junyer Padern Sacerdote salesiano e martire



Villamaniscle, Spagna, 30 ottobre 1892 – Montjuic, Spagna, 26 aprile 1938

Il sacerdote salesiano spagnolo Julio Junyer Padern era nato in Villamaniscle (nella Gerona) il 30 ottobre 1892, ed entrò sin da piccolo in una delle case di Don Bosco. Passò a Campello (Alicante) e Carabanchel (Madrid), facendo la sua professione come salesiano nel 1912. Lavorò poi a Baracaldo (Vizcaya) e Campello, prima di essere ordinato sacerdote nel 1921. Si dedicò sempre alla formazione dei giovani salesiani. Amava la musica e la letteratura. Iniziata la guerra civile, si nascose a Gerona, da dove organizzò spedizioni attraverso la frontiera francese per salvare i giovani salesiani. Ad un certo punto fu arrestato e giudicato nel tribunale per spionaggio ed alto tradimento e condannato a morte. Dopo aver dato un grande esempio di fede nella prigione di Barcellona, venne fucilato il 26 aprile 1938.(Avvenire)

Martirologio Romano: Nel villaggio di Montjuic vicino a Gerona sempre in Spagna, beato Giulio Junyer Padern, sacerdote della Società Salesiana e martire, che, durante la persecuzione contro la fede, meritò di conseguire mediante il martirio la gloria della vita eterna. 

Nato in Villamaniscle (Gerona) il 30 ottobre 1892, entrò da piccolo in una delle nostre case. Passò a Campello (Alicante) e Carabanchel (Madrid), facendo la sua professione come salesiano nel 1912. Lavorò poi a Baracaldo (Vizcaya)e Campello, prima di essere ordinato sacerdote nel 1921. Si dedicò sempre alla formazione dei giovani salesiani.Amava la musica e la letteratura. Iniziata la guerra civile, si nascose a Gerona, da dove organizzò spedizioni attraverso la frontiera francese per salvaregiovani salesiani.Ad un certo punto fu arrestato e giudicato nel Tribunaleperspionaggioedaltotradimento e condannato a morte. Dopo aver dato un grande esempio di cameratismo nel Carcere Modello di Barcellona, venne fucilato il 26 aprile 1938.

Fonte:
www.sdb.org

Bienheureux NICOLAS ROLAND, prêtre et fondateur

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Bienheureux Nicolas Roland

Prêtre ( 1678)

"A Reims, il s'installe dans une maison, rue du Barbâtre, et partage son toit avec un groupe de jeunes clercs afin de les former au sacerdoce. Il remplit ses fonctions de théologal: prédication et enseignement, mais il veut élargir son champ d'action: aller vers les gens pour toucher les cœurs plutôt que de contenter les esprits. Il se fait prédicateur du peuple et répond aux demandes de ses confrères en parcourant une bonne partie du diocèse... Il se découvre ainsi une éloquence apostolique; parler simple pour parler à tous."

Source: diocèse de Reims.

Un internaute nous précise qu'il est mort à l'âge de 35 ans.

A lire: P. Bernard Pitaud, Nicolas Roland et les sœurs de l'Enfant-Jésus - L'école française à Reims au 17ème siècle, Paris, Éd. du Cerf, coll. « Épiphanie », 2001.

À Reims, en 1678, le bienheureux Nicolas Roland, prêtre. Préoccupé de la formation chrétienne des enfants, il créa des écoles pour les enfants pauvres qui étaient alors exclus de toute formation, et fonda la Congrégation des Sœurs du Saint Enfant Jésus.
Martyrologe romain



MÉMOIRES
sur la Vie de Monsieur Nicolas Roland, prêtre,
Chanoine Théologal de l’Église de Reims,
et Fondateur de la Communauté du Saint-Enfant-Jésus,
décédé le 27 avril 1678, âgé de 35 ans et 5 mois [1]


CHAPITRE I

Sa naissance, l’origine de ses parents,
et ses premières années

Monsieur Nicolas Roland, naquit à Reims, le deux décembre 1642,[2] de Monsieur Jean-Baptiste Roland, Commissaire ordinaire des guerres, et de Dame Nicole Beuvelet, native de Marle, en Picardie, tous deux fort craignants Dieu et assistant soigneusement au Service divin aussi bien qu’aux Prédications, y conduisant leurs enfants et domestiques ; ils avaient une inclination particulière à faire l’aumône, assistant les pauvres dans les temps de cherté, de pain, d’habits, couvertures, et tout autre besoin; leur faisant apprendre des métiers pour gagner leur vie.
Aussitôt qu’il fut né, Monsieur son père envoya à Marle, pour en donner avis à Monsieur Beuvelet, son aïeul, et le prier de venir le tenir sur les Saints fonds de baptême ; mais la mort qui le prévint l’en empêcha, et ce fut son fils, Monsieur Beuvelet, avocat au Parlement, et depuis fait prêtre à Paris, à Saint-Nicolas-du-Chardonnet, où il est mort en réputation d’une haute piété. Il le tint avec Mademoiselle Barbe Beuvelet, sa sœur, femme de Monsieur Tourtebatte, Conseiller au Parlement de Laon : on lui donna au baptême le nom de Nicolas, comme son aïeul maternel, qui était un homme d’une piété très connue. Sa bourse, ses greniers aussi bien que son cœur, étaient ouverts aux pauvres, et son inclination pour eux était si grande que, pour les secourir, il allait les chercher tous les dimanches au sortir du Service Divin, où il assistait régulièrement. Outre ses charités quotidiennes, il faisait l’aumône trois fois la semaine, disant que cela n’appauvrissait pas. En temps de cherté, il faisait travailler sans nécessité les pauvres gens, à dessein de leur faire gagner leur vie, et éviter l’oisiveté. Il n’inspirait que la charité, la douceur et la patience à ses enfants ; aussi, leur donna-t-il l’exemple jusqu’à la mort ; car il eut une grande maladie, l’espace de six mois, qu’il supporta avec la plus grande patience. L’amour qu’il avait pour les pauvres, fit que trois jours avant sa mort, il voulut encore les voir passer devant sa chambre, leur faisant faire une distribution de pain, de vin et de viande ; se recommandant à leurs prières. Il mourut après avoir souffert avec un grand abandon à la volonté de Dieu ; il lui avait demandé de faire lui-même son purgatoire en ce monde. Il disait avec consolation qu’il l’avait obtenu par les cuisantes douleurs qu’il souffrait. Il reçut très souvent le Saint-Sacrement, qu’il faisait apporter, ce qu’il faisait à genoux, nonobstant ses extrêmes douleurs.
Le premier soin des pieux parents de Monsieur Roland, après son baptême, fut de le donner à une pieuse et vertueuse nourrice, dont la dévotion était d’aller tous les jours au tombeau de saint Rémi, et à l’église de Sainte Nourrice, pour leur offrir son nourrisson. Elle eut grand soin, aussitôt qu’il commença à parler, de lui faire prononcer le saint Nom de Jésus et de Marie, et de lui apprendre ses prières et ses devoirs envers Dieu.
On a remarqué qu’il correspondait aux soins de cette vertueuse nourrice, avec l’inclination qu’il avait sucée avec le lait.
De retour à la maison paternelle, le jeune enfant eut toutes les qualités qui rendent aimable à cet âge, jointes à celles qui donnent les plus heureuses espérances pour l’avenir : il annonça de grands talents par la rapidité de ses premiers succès ; il apprit à lire en quatre mois, quoi qu’il ne fut âgé que de cinq ans ; il avait la mémoire belle et heureuse ; il récitait des vers en compagnie, avec une facilité et une grâce qui le faisait admirer.
Ses plus agréables divertissements, dans cet âge tendre, étaient ce qu’un bon chrétien doit savoir. Il secondait si parfaitement les desseins de ses parents à l’élever en la crainte de Dieu, que de ces petits commencements, on pouvait juger que le Ciel le destinait à de grandes entreprises. Sa manière d’agir et de parler lui gagnait tous les cœurs, et sa docilité le rendait susceptible de tout bien. Il était avantagé de la nature, beau et bien fait de sa personne ; son abord affable, civil et obligeant ; sa conversation était agréable. Il parlait de Dieu avec plaisir et aimait à en entendre parler : il était plein de joie lorsqu’il trouvait quelqu’un qui aimait à en entendre parler.
Il commença à étudier extrêmement jeune. On a rapporté de lui, qu’étant aux petites écoles, il importunait ses parents pour avoir la liberté d’aller en classe; lesquels ne le voulaient pas à cause de sa grande jeunesse. Il les importuna tant, qu’ils lui accordèrent. Il y fut avec une robe et, quoique les écoliers se moquassent de lui, il ne se rebuta pas ; il s’appliqua avec plaisir à l’étude ; il y fit en peu de temps de grands progrès, ce qui fit voir dès lors que le don de science lui était communiqué.
Dès ce temps, ses mœurs étaient réglées : il vivait dans la maison dans la plus grande douceur avec les domestiques ; et parmi ses compagnons de classe, il n’a jamais eu aucun démêlé avec qui que ce soit ; il se retirait facilement de la compagnie de ceux dont on lui faisait connaître les mauvaises inclinations. Il arriva cependant qu’un de ses compagnons de classe lui conseilla de prendre de l’argent à sa mère ; la mère s’en étant aperçu, lui demanda si ce n’était pas lui qui l’avait pris. Il changea bientôt de couleur, et en tremblant, il dit qu’il avait pris cinquante sols et qu’il avait été les cacher dans les fossés de la ville : (Ceci fait voir son enfance) que c’était un de ses compagnons qui lui avait appris à les prendre. Ce coup lui servit d’avertissement, dont il fit son profit.
Il était franc et ouvert ; haïssait la dissimulation et le mensonge. Éloigné des crieries, emportements et contestations indiscrètes, il défendait paisiblement la vérité ; n’employait jamais le jurement ; en détestait jusqu’à l’apparence. Il ne pouvait souffrir de paroles qui soient contre la pudeur, et tous ceux qui l’ont connu depuis sa plus tendre enfance, jusqu’à sa mort, ont rapporté de lui, que jamais on ne lui a entendu dire une parole contre cette vertu. Ses paroles l’auraient justifié contre d’injustes soupçons qu’on aurait pu former contre lui, et ceux qui l’ont conversé, rendent témoignage que personne n’était plus retenu en ses discours et en sa conduite.
Il était inconsolable quand il avait déplu en quelque chose à ses parents ou à ses maîtres i il ne fallait lui dire qu'une parole un peu sèche ou lui montrer un air plus grave pour l'attrister ; on pouvait le corriger par un regard, quoi qu’il ne fut nullement d'un naturel timide.
Ses progrès dans la piété devinrent sensibles à mesure qu'il croissait en âge, il n'omit aucun des moyens propres à la nourrir, il se plaisait à la prière et à la lecture de la vie des Saints ; il pratiquait des pénitences et des mortifications pour les imiter, se privant quelquefois de son repas pour en faire part aux pauvres ; il endurait le froid, il couchait sur la dure ; une de ses Tantes l'a trouvé une fois couché dessous une table sur laquelle il y avait un tapis qui le cachait ; elle lui demanda ce qu’il faisait là, il répondit qu'il prétendait y passer la nuit, il la pria de n'en rien dire et de le laisser ; comme c’était en hiver et qu'il n'avait encore que huit à neuf ans, elle lui dit, c’est donc pour vous faire mourir, il faut vous retirer ; mais pourquoi ma Tante. Saint François n'en est pas mort pour y avoir couché presque toute sa vie : n'ayant pas égard à sa dévotion, elle le fit aller coucher dans son lit. Les domestiques lui dirent qu'ils s'étaient déjà aperçus qu'il ne restait pas dans le lit, qu'ils l'avaient trouvé nombre de fois dans la ruelle du lit couché sur le plancher, y priant Dieu. On lui défendit de se lever davantage, et on mit un jeune homme qui était son parent pour coucher dans sa chambre et l'observer.
Étant âgé de dix ans, M. Beuvelet son oncle, maternel et son parrain, homme d’une très haute piété qui est mort en odeur de sainteté en un Séminaire de Paris (Saint-Nicolas-du-Chardonnet) lui mettant la main sur la tête dit : Voilà un enfant qui sera un grand Serviteur de Dieu et qui servira son Église.
Ce cher oncle et parrain désira l'avoir pour l’avancer dans les études à Paris ; mais il en fut empêché par une maladie qui lui survint, et qui l'obligea de le laisser chez M. son Père ; après qu’il fut guéri, on le mit en pension chez les Pères Jésuites où il profita avec succès, se faisant toujours paraître des plus éclatants du Collège ; il paraissait avec la plus grande liberté dans toutes les Tragédies ; ce qui parut particulièrement devant la Cour, lorsque le Roi vint se faire sacrer à Reims ; car jouant sa pièce, comme on se prit à rire, il s’arrêta pour en donner le loisir, puis après que le bruit fut passé, il reprit le fil de son discours avec tranquillité comme s'il n'eut pas été interrompu. Ce qui le fit admirer de toute l'assemblée.
Pendant ses études il ne perdait point de temps dans les compagnies, tant il lui était cher, le donnant tout à ses petites dévotions et à ses livres : fuyant les divertissements des enfants de son âge ; il était ennemi de la médisance, parmi ses compagnons il ne souffrait pas qu’on parlât mal de qui que cc soit, s'il arrivait à quelques-uns de le faire, aussitôt la rougeur lui montait au visage et prenait la défense des absents.
Dieu qui avait prévenu ce Jeune Enfant, comme parle l'Écriture, des bénédictions de sa miséricorde, lui avait donné un esprit étendu et pénétrant, une mémoire belle et heureuse, un cœur grand, généreux, capable de grands desseins, que les contradictions et toutes les difficultés ne rebutaient pas ; Dieu le menait comme par la main sans qu'il se sut. Un jour se trouvant à Saint-Pierre-les-Dames, où Monsieur l'Évêque du Puy [3] y donnait les Ordres, le Siège Archiépiscopal de Reims étant vacant : ce jeune écolier se sentit si fort porté à demander la tonsure (quoiqu'il n'eut pour lors que dix à onze ans), qu'il courut en grande hâte, prendre une soutane et un surplis, prenant un cierge chez un marchand qu'il rencontra, et retournant à Saint-Pierre, il arriva que la Cérémonie était faite, Monsieur l'Évêque avait déjà quitté ses habits de cérémonie ; le jeune enfant fendant la presse parvint malgré le rebut des officiers, jusqu'à Monsieur l'Évêque, qui s'était retourné et voyant que set enfant lui demandait la tonsure de si bonne grâce, qu'il ne put lui refuser ; il reprit ses babils de Cérémonie et le tonsura.
La vivacité qui ne l'a jamais quitté pendant sa vie, et qui n'a cessé d'être pour lui la matière de bien des combats, et l'occasion de bien des victoires, comme on le verra dans la suite, se développa dans sa plus tendre enfance ; il était d'un naturel fier, bouillant et colère, il travailla dès lors à se modérer par la docilité et par le respect qu'il avait pour ses parents et ses maîtres desquels il était très aimé, et pour qui il avait de son côté l'attachement le plus tendre.

CHAPITRE 2

De la vie que M. Roland a menée
dans le siècle

Quoique M. Roland eut été enclin au bien dès sa jeunesse, et que ses parents eurent grand soin de le former et pousser dans les sciences, ce ne fut toutefois que dans le dessein de l'engager dans le monde ; il quitta les études et commença comme il le dit lui-même, sa vie mondaine ; son bel esprit, ses grâces naturelles, son humeur gaie le rendait aimable à ses parents et à ceux de sa condition, et l'engageait à suivre le train du monde honnêtement ; il se trouvait fréquemment dans les assemblées, dans les bals, desquels néanmoins il est toujours sorti avec honneur selon les personnes du monde. Ce que toutefois il a regretté tous les jours de sa vie, comme un temps perdu, et mal employé, où il avait disait-il couru risque de se perdre plusieurs fois, si ce n'eut été une grande et infinie miséricorde de Dieu qui, par sa bonté m'a préservé de tomber dans les désordres de l'impureté qui perd ordinairement la jeunesse.
Dans la dix-septième année de M. Roland, il lui arriva une petite disgrâce à l'occasion d'un bal où il avait été contre la défense de M. son Père ; cette disgrâce fut pour lui un coup de grâce : car cela lui fit reconnaître son égarement et la vanité du monde.
M. son Père ayant toujours dessein de l'engager dans le monde, après cette disgrâce apaisée fut pour lui plein de bonté, et lui donna nue somme d'argent avec liberté de voir les raretés dans les pays éloignés, comme il est ordinaire aux enfants de famille, pour lui faire suivre ensuite ce qu'on appelle le beau monde, mais la grâce se servit de cette liberté pour lui changer tout à fait le cœur : car ayant vu plusieurs pays et s'étant avancé dans les lettres et dans le négoce, selon les intentions de M. son Père, il alla aussi sur mer, où il fit rencontre d'un Capitaine de Vaisseau, qui voulut l'engager au mal ce qu'il reconnut par ses paroles, il lui répondit qu'il avait ordre de son père de retourner ; voyant qu'il ne pouvait s'en défendre, il eut recours à la Sainte Vierge qui le protégea miraculeusement : car le vaisseau s'arrêta soudain, sans que la force des matelots le puisse faire marcher par le commandement de leur maître ; le vaisseau étant approché d'un autre, il se jeta dedans pour gagner terre. Ce qu’il connut être une protection particulière de la Sainte Vierge, pour laquelle il a eu une dévotion tendre et reconnaissante tous les jours de sa vie.
Étant échappé de cette occasion dangereuse et périlleuse, il retourna à Paris, et contre toute l'espérance de sa famille, il prit la résolution de se consacrer au service de Dieu dans la Compagnie de Jésus et commença dès lors à fréquenter des personnes de piété et s'adonna tout de bon à réformer ses mœurs.

CHAPITRE III

M. Roland quitte le monde et reprend
ses études

Dans le séjour qu'il fit à Paris, il commença sa conversion sincère à Dieu par une retraite spirituelle qu'il fit dans une maison réformée, après laquelle le dessein de se faire Jésuite, n'ayant pas réussi, parce que la Providence en avait d'autres sur lui, comme on le verra dans la suite ; il se dépouilla des habits du siècle, quitta le pourpoint de brocard, prit la soutane et revint à Reims, bien résolu de se donner tout à Dieu, ce qui étonna grandement ses parents et toutes les personnes de sa connaissance ; mais particulièrement une jeune demoiselle qu'il avait aimée sous l'espérance du mariage, laquelle dans cet étonnement, joint à quelques autres petites disgrâces, se donna aussi à Dieu à son tour, et à son exemple, et a vécu depuis en réputation de piété.
Peu de jours après l'arrivée de M. Roland chez M. son père, il retourna à Paris pour y étudier en Philosophie, il se retira dans un quartier de Paris assez détourné chez un menuisier pour y vivre d'une manière pauvre et inconnue au monde ; il se revêtit de vieux habits noirs, à l'insu de M. son Père, pour paraître un pauvre écolier parmi ses compagnons de classe : commençant dès ce temps-là à pratiquer la Sainte pauvreté qu'il a aimée toute sa vie.
Mais comme la grâce agissait fortement et noblement dans son cœur, il crut devoir changer cette première demeure en celle d'une Communauté de la rue Saint-Dominique ; où vivaient alors de bons Ecclésiastiques et laïques ; il y fit un séjour de trois années, donnant des exemples continuels des vertus les plus héroïques, dans cet intervalle, il conçut le désir d'accompagner les premiers ouvriers qui ont été à Siam ; mais la Providence, en ayant ordonné autrement, il prit le bonnet de Docteur dans une Université du Royaume, en un âge où à peine les autres sont en état non de prêcher, mais d’être des auditeurs raisonnables de la Sainte Parole.
Il prêcha à l'âge de vingt deux ans dans la Cathédrale, avec un applaudissement général. Dans ses premiers sermons il avait les ornements du langage, il était semblable en cela à saint Pierre Chrysologue qui a été Évêque de Ravenne et qui est reconnu pour un Père de l'Église et a bien été un prédicateur fleuri, et d'ailleurs étant jeune, il avait besoin de réputation pour faire les grands biens que Dieu a fait paraître dans toutes ses démarches.

CHAPITRE 4

Monsieur Roland se dispose à la prêtrise

M. Roland s'était rempli depuis son retour à Dieu de l'esprit de M. Beuvelet son oncle et son parrain : qui a éclaté dans toute la France, et dans Saint-Nicolas-du-Chardonnet. Pour se disposer à la prêtrise, il fit une retraite de tente jours, durant laquelle il se pénétra de la dignité du sacré caractère de Prêtre dont il allait être bientôt revêtu, et se traça un plan de vie qu'il gardât jusqu'à la mort. Il s’y remplit des sentiments d'humilité, d'abnégation de lui-même et de mort à tout ce qui est du monde, sentiments qu'il a toujours gardés depuis ; car ayant reçu la prêtrise, il ne voulut pas célébrer sa première Messe haute, ni y souffrir d'assemblée de famille, pour éviter, disait-il, toute complaisance et dissipation, il invita seulement M. son père et Mme sa mère, et la célébra secrètement, pénétré de respect, de foi et d'amour. Il s'était disposé à cette grande action par la fuite du monde, en s'enfermant dans un Monastère des plus austères. Peu de jours après qu'il fut Prêtre, il obtint de ses parents la liberté de se retirer dans une maison à part, pour répondre. plus aisément aux desseins de Dieu sur lui. Mais avant de se mettre tout à fait à son particulier, il fit un voyage à Paris, pour puiser dans les Séminaires de Saint-Nicolas-du-Chardonnet, de Saint-Sulpice, de la Communauté de Saint-Lazare, aussi bien que dans les Sociétés des personnes de piété, desquelles il recherchait la conversation avec diligence ; (et ces personnes ont dit, et pendant sa vie et depuis sa mort, que dans les entretiens qu'il avait eus avec elles, il les avait embaumées de l'odeur de ses vertus) pour prendre les maximes les plus pures du sacerdoce, lesquelles il a conservées depuis. Mais son esprit n’était point encore satisfait, il rechercha encore d'autres moyens de son avancement ; ce qui lui fit faire un voyage à Rouen, y étant attiré par l'odeur de sainteté d'un Curé de cette ville nommé M. de Saint-Amand, chez lequel il demeura six mois pour apprendre la vertu qui lui coûta chère ; car il en revint si infirme et si desséché qu'il fallut le mettre au lit à son retour.
Un disciple de M. Roland a rapporté que le dessein qu'il avait eu en faisant ce voyage, était de puiser le fondement des vertus apostoliques qui étaient en M. le Curé de Saint-Amand, qu'il fut traité fort durement par ce saint Curé, par un ordre de la divine Providence, comme il le dit un jour à un de ses Confrères, (ce bon Curé me reçut avec refus, lorsque je le priai de me donner quelque petite place en son logis, pour y faire une Retraite, ainsi qu'il l'accordait à tout autre. Je n'ai pas de place pour vous mettre, M., me, dit-il, à moins que vous ne preniez ma chambre, quelque instance, que vous me puissiez faire : hé ! Monsieur, lui répartis-je, quelque place que ce fut, je m'en accommoderai : mais non de votre chambre : il y a ici un dessous d’escalier, si vous le voulez prendre. Je le pris au mot, et ne pris point d'autre place tant que je fus avec lui cette fois). Ce fut sous la conduite de ce bon Curé, que M. Roland fit de grands progrès dans la vertu de pauvreté et du dénouement, car il parut inconnu et comme un pauvre Ecclésiastique, comme il avait déjà paru pauvre étudiant lorsqu'il se fut retiré chez un pauvre Artisan à Paris pour y vivre inconnu au monde. Les maximes qu'il avait puisé de ce bon Curé sont celles-ci :
Que dans les contradictions, il fallait dire, tant pis, tant mieux ; tant pis pour la nature ; tant mieux pour l'âme.
Que l'abstraction de toutes choses surpasse toutes pratiques.
Ne se plaindre jamais ; car qui se plaint pèche.
Ne s'excuser jamais lorsqu'on nous accuse.
Plutôt devoir que thésauriser.
Ne parler jamais du boire, ni du manger.
Ne contester jamais avec personne.
Aimer mieux accepter les pertes que faire l'aumône.
Aller contre ses inclinations en toutes choses.
Ne s'enquérir d'aucune nouvelle.
Ne trouver à redire à rien.
Connaître et suivre les mouvements de l'Esprit de Dieu.
Ne se laisser jamais obscurcir l'âme par la moindre attache.
Plus pratiquer la vertu que d'en parler.
S'attacher fortement à sa fin qui est Dieu et faiblement aux moyens qui sont les créatures.
Qu'un serviteur mal adroit est un trésor.
Ne se faire servir que dans les choses qu'on ne peut faire.
Aller à la destruction de tout amour propre.
S'examiner tous les jours sur quatre choses : 1° sur la conformité à la volonté de Dieu, 2° sur l'amour du prochain, 3° sur la mortification, 4° sur la vertu particulière.
Peu de paroles d'un homme uni à Dieu, sont plus que plusieurs dites par amour propre.
Un serviteur de Dieu détestait trois choses : 1° le mot de tien ou de mien, 2° celui de faveur, 3° celui de mérite.

CHAPITRE 5

Monsieur Roland fait de sa maison
un petit séminaire

M. Roland étant de retour à Reims, les occasions d'exercer son zèle ne tardèrent pas à se présenter, bientôt la vaste carrière s'ouvrit devant lui, mais dans la multitude de ses bonnes œuvres, il eut soif d'établir l'ordre qui devait y régner ; il fit toujours passer ce qui est de devoir et de justice avant ce qui est de charité et surérogation.
Comme Chanoine, il était tenu d'assister à l'office divin ; il donna l’exemple d'une assiduité scrupuleuse, il assistait exactement à toutes les heures, et ne manquait jamais d'y chanter, la tendre piété dont il était pénétré, rendait cette occupation chère à son cœur, l'esprit de foi l'animait, il y voyait la fonction des Anges, il la remplissait avec autant d'empressement que de respect. Comme Théologal, il avait à prêcher chaque Dimanche de l'année, il ne manqua aucun des jours marqués à s'acquitter par lui-même de ce devoir. On admirait dès lors dans M. Roland, le saint Prêtre, le fervent chanoine, le digne ouvrier tic la vigne du Seigneur ; on pouvait en effet le regarder comme l'homme de Dieu pour la ville de Reims ; il était à la tête de toutes les bonnes œuvres.
Pour répandre l'esprit Ecclésiastique dont il était lui-même rempli il fit de sa maison un petit Séminaire où l'on vit plusieurs enfants de famille et autres entrer en Communauté pour y vivre d'une manière cléricale ; et par les Conférences qu'il y faisait formait des sujets propres à servir l'Église. Ceux qui pour des raisons de santé et de famille, ne pouvaient se rendre à la Communauté, y avaient entrée libre et journalière pour les exercices Ecclésiastiques et spirituels ; il leur donnait d'excellentes leçons pour les former à l'oraison, à laquelle ils vaquaient avec lui pendant une demi-heure. Il leur faisait ensuite une Conférence sur la Sainte Écriture, ce qui produisait son fruit avec le temps,
Le dessein de M. Roland dans ces exercices, était de faire de ses disciples des Missionnaires, ou de bons Curés pour le ministère des autels. Il avait un attrait particulier : ce qu'il a fait voir dés lors qu'il prit la soutane ; car dès qu'il apprenait qu'il y avait quelque Mission il s'y joignait afin d'y travailler et contribuer à la dépense. On ne pourrait dire combien il se forma sous sa direction de Prêtres zélés pour les Catéchismes et pour toutes les parties du gouvernement spirituel des paroisses, Tous ceux qui ont demeuré chez lui ont répandu dans les endroits où la Providence les a appelés, l'odeur de leurs vertus et sainteté, et on voit encore aujourd'hui dans la Ville, une quantité de bons Prêtres qui ont été formés par sa main; qui ne se sont point démenti des principes qu'il leur a donnés depuis quinze ans qu’il est décédé, et tous avouent qu'ils lui ont une très grande obligation ayant tiré de lui l'estime de leur ministère ; ce qui est cause aussi du regret de plusieurs autres qui ont laissé l'occasion de le pratiquer dans leur jeunesse. Il fit même son possible pour transférer sa petite Communauté dans une Paroisse de la Ville, pour qu'elle fut plus utile, mais la mort prévint ce dessin et Notre Seigneur se contenta de sa volonté.
On vivait dans ce petit Séminaire qu'il dressait chez lui avec une grande édification sous sa conduite ; aussi n'épargnait-il ni santé, ni biens, il aurait voulu donner sa vie pour leur perfection, son zèle ne lui donnait aucun repos, il entendait les confessions générales de ces jeunes hommes, leur faisait des entretiens spirituels. Il avait dressé des pratiques journalières pour vivre dans sa petite Communauté. On y vivait dans la plus grande austérité, y pratiquant beaucoup de macérations, et avec une sobriété si extraordinaire, dit un de ses disciples, qu’en l'espace d'un an que j'y ai demeuré, je n'ai jamais entendu personne se plaindre du boire ou du manger, ni en faire un seul mot d'entretien. On y servait ordinairement quelques fruits pour le dessert, mais on n'y touchait pas par esprit de mortification.
Quoiqu'on n'y parlait pas sans nécessité, et même à voix basse hors le temps des récréations, on y tenait trois fois le silence la semaine ; on y faisait aussi les coulpes, ou on s'accusait de ses fautes ; on avait aussi chacun en particulier un admoniteur pour l'avertir des manquements qu'il avait remarqués en soi, et dans tous ces exercices, M. Roland était le premier à donner l'exemple.
Son zèle pour le salut des âmes ne demeura pas satisfait, en dressant ces jeunes hommes à la vertu, il faisait et procurait des Conférences Ecclésiastiques afin d'exhorter les Prêtres à s'acquitter de leur ministère. où plusieurs personnes de qualité et de mérite se trouvaient ; ce qui se faisait tous les Mardis. Un jour Messieurs les Évêques de Châlons et d'Évreux s'y trouvèrent, et ils furent dans l'étonnement de voir qu'un jeune Prêtre put avoir des conceptions si fortes, un zèle si ardent, et une onction si extraordinaire dans ses paroles. Ils dirent à sa louange que cet homme de Dieu ne laissait aucun doute qu'il ne fut rempli des vérités qu'il enseignait, que l’esprit de Dieu parlait par sa bouche.
M. Roland a eu une grande partie de l'esprit de saint Charles qu'il a renouvelé dans le Diocèse de Reims, en inspirant l'esprit Ecclésiastique à tous ceux qui vivaient dans sa petite Communauté, n'y ayant point encore fie séminaire dans la ville de Reims.

CHAPITRE 6

Ses prédications, ses missions

M. Roland joignait à une piété solide et éclairée un zèle ardent, laborieux et infatigable. Sa fonction de Théologal lui donna occasion de le satisfaire, et de mettre en usage au profit des âmes le grand talent de la parole que le Ciel lui avait confié.
Un zèle si ardent ne se bornait pas aux fonctions Théologales qui lui fournissait cependant une vaste matière ; il se répandait de tous côtés ; et partout où on l'appelait sa parole était efficace, ainsi que son exemple. Les fruits de cette divine semence germaient avec abondance où il allait la jeter et l'arroser de ses travaux ; ses paroles étaient persuasives, son style était apostolique et populaire, ce qui faisait qu'il profitait à tous ; il appuyait les vérités qu'il avançait sur l’Écriture Sainte et les Pères, ce qui était cause que les libertins se trouvaient sans répartie, lorsqu'il les reprenait de leurs vices ; il n'épargnait aucune condition, et on eut dit à l'entendre prêcher qu'il eut voulu expirer sur la place, afin de convaincre chacun des devoirs de son état, et quoiqu'il fut d'une complexion très faible et déjà épuisée par ses austérités, son zèle ne laissait rien à dire sur les matières qu'il entreprenait. Ce qui rendait ses paroles si énergiques, c’est qu’il puisait à la source des sciences par la communication qu'il avait avec Dieu ; car il ne se mettait à l'étude qu'avec des dispositions dignes de Dieu : d'autant qu'il s'était fait un directoire de ses intentions, dont il se servait, par lequel il renonçait avant que d'étudier, à toute éloquence humaine, et recherche des créatures et de soi-même ; avec protestations de n'apprendre les divines Écritures que pour la gloire de Dieu et le salut des âmes ; et puis commençant par la prière, à la fin de laquelle il faisait une prière plus fervente encore, suivie d'une lecture dans le livre de l'Imitation de Jésus-Christ, qui était la nourriture ordinaire de son âme.
Ce qui le facilitait encore dans ses prédications était son heureuse mémoire ; car souvent n'ayant pu trouver du temps pour ses sermons, il ne lui fallait qu’une demi heure pour le dresser. Il arriva un jour chez un de ses amis fort las et fatigué d'un voyage long et pénible pour la saison, il le pria de prêcher comme faisaient ordinairement les personnes qui connaissaient son mérite, et pour les grands fruits qu'il faisait partout où il passait. Il arriva le samedi soi, il lui accorda de prêcher le lendemain, parce qu'il ne refusait rien de ce qui regardait la gloire de Dieu, et disposa son sermon. On ne sait par quelle occasion il apprit le besoin du peuple avant de monter en chaire ; il y monta cependant dans la résolution de prêcher ce qu'il avait disposé ; mais se mettant à genoux, pour faire son invocation, à ce qu'il a dit lui-même, il fut poussé intérieurement de changer son sujet ; et tout son discours. Il y réussit très heureusement avec l'admiration des personnes savantes, et au grand profit de tout le peuple : ce qui parut même à l'extérieur, car on vit un changement merveilleux dans cette paroisse, sur la réforme des mœurs et des vices qui y régnaient auparavant.
On voit par ce qui vient d'être dit, que M. Roland n'enfouissait pas le talent qu'il avait reçu du Seigneur, et qu'il ne bornait pas son zèle à paraître dans le Chœur, et dans une des stalles de la Cathédrale. Partout où il voyait du bien à faire, il y courait, il se prêtait à toutes les bonnes œuvres ; il a demeuré avec les premiers Évêques de France qui ont été dans la Chine, M. Béril, Messieurs de Liopolis et de Méthélopolie ; il déplorait son malheur de ne pouvoir aller aux Missions étrangères, disant qu'il ne méritait pas l'honneur du martyre.
Il s'unissait à tous les gens de bien indifféremment, soit séculiers ou Réguliers, lesquels il connaissait particulièrement dans toutes les Villes du Royaume. et cette union le tenait dans une confusion continuelle que son humilité lui suggérait, croyant de ne rien faire pour Dieu en comparaison d'eux. Il ne se faisait aucune Mission qu'il ne voulut y contribuer de sa personne ou de ses moyens, ce qu'il fit voir quand il alla à Sommepy en Champagne avec les Pères de l'Oratoire, où il travailla pendant un mois entier ; on le voyait dans de semblables occasions se consumer par l'ardeur de son zèle. Son talent pour les Conférences spirituelles était extraordinaire, elles faisaient une impression admirable sur les cœurs de tous ceux qui y assistaient.
Après la mission de Sommepy M. Roland engagea Messieurs les Missionnaires à demeurer pour une Mission à Fismes. En attendant qu'il eut obtenu la permission des Supérieurs, dans l'intervalle du temps il partit de Sommepy en poste et vint à Fismes témoigner à M. Martin qui en était Curé depuis peu de temps et qui était un de ses disciples, ayant demeuré près de quatre ans dans sa petite Communauté, le dessein qu'il avait eu de l'aider à mettre sa paroisse en bon état. Voici ce que dit le disciple de son maître dans cette Mission.
« Le zèle de M. Roland pour l'avancement de la gloire de Dieu, était si ardent et si infatigable, que je peux dire qu'il s'en trouve peu de semblable, que ni les fatigues, ni les persécutions, ni les respects humains, ni les mauvais jugements, ni l'incertitude du succès ne faisait aucune impression sur son esprit lorsqu'il croyait que Dieu demandait de lui qu'il entreprit quelque chose pour sa gloire. Sans m'avoir écrit ni parlé du désir qu'il avait qu'il se fit une Mission dans ma paroisse, il vint en diligence m'avertir qu'il croyait que Dieu demandait cela de lui et de moi ; et sur ce que je lui représentais que n'étant pas encore bien accommodé, il me serait difficile de bien recevoir Messieurs les Missionnaires et d'en faire la dépense, il me dit de ne me point mettre en peine, que ces Messieurs y contribueraient, et que la dépense ne me serait pas si fort à charge que je le croyais ; et comme je lui dis qu'il me pressait bien l'épée dans les reins, que cette affaire me paraissait un peu précipitée, il me dit qu'il craignait fort que je ne fusse déjà déchu de ma grâce ; et que le peu de zèle qu'il m'avait cru auparavant commençait à s'éteindre, puisque je résistais aux desseins que Dieu avait sur ma paroisse ; je lui dis en riant : faites-moi au moins la grâce d'entrer et de vous rafraîchir, et nous conviendrons ensemble des moyens de donner une heureuse suite à une si louable entreprise. Il attacha son cheval à la porte du dehors, et me dit d'un air fort sérieux et dédaigneux, qu'il protestait n'entrer jamais chez moi, ni d'y boire, ni manger, si je ne consentais à cette Mission, et qu'il s'en retournerait avec la même vitesse qu'il était venu, sans rien prendre, en secouant la poussière de ses pieds contre ma maison, puisque je refusais de recevoir dans mon champ les ouvriers de la moisson. Cela m'obligea à me rendre à ses justes désirs, et je crois que cette Mission suivie de celle de Sommepy, dans lesquelles il se fatigua considérablement, ont abrégé ses jours ; car outre les prédications qu'il faisait, il était des dix et douze heures au confessionnal et en faisant la clôture de la Mission, il parla avec tant de feu et de force contre la rechute dans le péché, et de la persévérance dans la grâce que sa voix s'éteignit entièrement. »
Étant de retour à Reims, accablé des fatigues que lui avaient causées ces deux Missions, il résolut de faire encore un voyage à Beaune, à dessein de se dévouer d'une manière toute particulière aux mystères de l'Enfance du Sauveur, et en fit dans cette Ville un vœu exprès sur le tombeau de la Vénérable Sœur Marguerite surnommée du Très Saint Sacrement, à laquelle il portait une grande vénération ; ce qui fut d'une grande édification pour tout le couvent et d'une particulière consolation pour les Religieuses qui le conversèrent, principalement la Supérieure qui en parle avec estime, comme d'un homme rempli de l'esprit de Dieu ; elle lui donna une figure de Jésus Enfant que la Vénérable Sœur Marguerite honorait dans ses stations.

CIIAPITRE 7

Son attrait pour l’éducation de la jeunesse

Quoiqu'il soit vrai que la gloire de Dieu et le salut des âmes soient la fin de tous les Ouvriers Évangéliques, il n'est pas moins vrai, que presque tous sont inspirés d'y travailler d'une certaine manière, et qu'ils se sentent déterminés par attrait à certaines bonnes œuvres. L'attrait de M. Roland était l'instruction de la jeunesse.
Dès la vingt-septième année de son âge considérant que le peuple et les grandes personnes profitent peu des meilleurs sermons, et que le défaut d'éducation et d'Instruction de la Jeunesse, a toujours été et est encore la source des plus grands dérèglements, il résolut de remédier à ce mal en travaillant de tout son pouvoir, à établir des écoles gratuites pour l'Instruction des petites filles : ce dessein formé il fit un voyage à Rouen, pour y prêcher le Carême ; mais la prédication n'était qu'un saint prétexte, son principal dessein était de voir et de converser avec des gens de piété ; il les vit et les édifia comme il en fut édifié : il vit plus particulièrement M. de Saint-Amand chez lequel il avait passé six mois après sa prêtrise, dans la pratique de toutes les vertus les plus austères ; il y vit aussi le Père Barré de l'ordre des Minimes, lequel avait commencé des écoles d'instruction gratuites pour les jeunes garçons et les jeunes filles dans la ville de Rouen, avec le succès qu'on a vu depuis dans presque toutes les Provinces du Royaume.
M. Roland contracta une étroite et sainte amitié avec le Père Barré et renouvela l'estime et la vénération qu'il avait toujours eue; pour la vertu de M. de Saint-Amand, l'un et l'autre reconnurent l'esprit qui animait M. Roland et l'aidèrent de leurs conseils à exécuter la pieuse résolution qu'il avait formée d'établir des écoles gratuites dans la Ville de Reims.
Mais en prêchant, conversant et faisant plusieurs entretiens spirituels, M. Roland y contracta de grandes incommodités, de sorte qu'à son retour à Reims, les médecins lui ordonnèrent de prendre le lait pour se rétablir, mais en voulant guérir son corps ils affligèrent son âme, en lui défendant de célébrer la Sainte Messe ; cependant il sembla acquiescer à leur ordonnance. Il invita M. Rogier, son ami intime, de venir passer quelque temps avec lui à une maison de campagne, pour lui dire la Messe tous les jours, ce qu'il fit avec plaisir, mais M. Roland se levait dès les trois heures du matin, pour offrir à Dieu le Saint Sacrifice, trompant ainsi innocemment les médecins et ses parents.
Ce fut en ce temps là même de ses infirmités, que méditant et se rappelant le dessein qu'il avait eu en allant prêcher à Rouen, et sentant que son zèle pour l'instruction de la Jeunesse croissait de plus en plus il crut que Dieu demandait cette œuvre de lui ; car disait-il souvent Dieu demandera un compte terrible à toutes les personnes qui devaient et pouvaient instruire les âmes, et leur refusaient ce secours ; car disait-il encore, les âmes que nous aurons laisser tomber dans le péché faute d'instruction demanderont vengeance au tribunal de la Justice Divine. Ce fut donc dans ce pieux sentiment qu'il forma de nouveau le dessein généreux d'établir une Communauté, où on travailla aux écoles gratuites ; et Dieu qui le lui avait inspiré, le soutint par sa Providence, laquelle parut manifestement : car les Messieurs de la Ville lui ayant refusé l'administration des petits orphelins, dans la crainte qu'ils avaient de quelque établissement, lui offrirent l'administration spirituelle des dits enfants, ce que M. Roland reçut avec plaisir, comme on le verra dans le chapitre suivant.

CHAPITRE 8

L’établissement des écoles gratuites

Le zèle de M. Roland fit qu’il considéra l’administration des Orphelins que les Messieurs de la Ville venaient de lui confier, comme un ordre de la divine Providence, et comme un moyen d'exécuter le dessein que la même Providence lui avait inspiré. Ce fut en cette occasion qu'il fit paraître la grandeur de son âme, et la générosité de son esprit, en ce que nous allons dire, aussi bien que son abandon aux soins de la même Providence, et qu’il fit paraître son dégagement pour les biens temporels.
Il commença donc à prendre le soin de cette maison où il y avait plus de quarante personnes à nourrir, et où il n'y avait pas un sols pour y faire la dépense ; d'autant que la personne qui les gouvernait auparavant sous le bon plaisir des dits Messieurs, leur portait les aumônes et les quêtes qu’on leur faisait journellement. Les dits Messieurs payaient l'intérêt de cet argent qui leur était porté, et ne voulaient cependant prendre aucun soin de la dite maison.
M. Roland s'en voyant chargé; ne se contenta pas de pourvoir au spirituel, il pourvut à tout, fournissant tout ce qui était nécessaire. Il trouva ces pauvres enfants tous nus et comme des squelettes, faute de nourriture ; leur pauvreté était si grande qu'ils manquaient du pur nécessaire ; ils étaient si infectes et si abandonnés, qu'on ne pouvait les voir sans horreur dans l'infection et la fange où ils étaient : leur habitation était, dit un disciple de M. Roland, plutôt une étable qu’un hôpital, j'en peux parler, continue-t-il, non pour l’avoir ouï dire, mais pour l'avoir vu de mes propres yeux, puisque cet homme de Dieu me fit la grâce de vouloir bien me charger du soin temporel de cette maison, me fournissant à ce sujet tout ce qui était de besoin. Il pensa d’abord à les fournir d'habits, de linge et à les bien nourrir. Ne regardant ces pauvres enfants que par l'œil de la foi, il ne voyait que Jésus-Christ en eux ; et se souvenant qu'il avait été assez pauvre dans cette étable, il fallait le mettre plis décemment ; il fit faire des bois de lits pour coucher ces enfants, car auparavant il y avait de grandes couchettes, où ils étaient six ou huit ensemble, sans comparaison comme des bêtes, tant l'ordre y était mal gardé, et je suis témoin que le tout se faisait de ses libéralités, et il me donnait de sa bourse de quoi fournir à tous les besoins de ces enfants.
Si les dits enfants étaient bien nourris et alimentés par les soins de M. Roland, il prenait et faisait prendre encore un soin particulier de leur éducation, ce qu'on n'avait pas fait avant qu'il s'en fut chargé : car avant c'était chose déplorable pour la corruption de leurs mœurs et l'ignorance, ils ne savaient ce que c'était de la connaissance de Dieu et du salut ; on se contentait de leur donner à manger tellement quellement, ce que M. Roland fit cesser, ayant changé les dites personnes en d'autres dans lesquelles il remarquait de la piété, afin que la maison changeât de face, comme il arriva en peu de temps
Mais comme son dessein ne se terminait pas à la seule charité pour le soin des Orphelins et que cela ne lui servait que de prétexte, pour l'établissement des Écoles, il ne se donna point de repos qu'il n'exécutât cette pieuse entreprise, pour laquelle il fit plusieurs voyages à Paris et à Rouen, afin de voir par lui-même le grand bien que faisaient les Filles de la Providence que le Père Barré Minime avait établi dans ces deux grandes villes avec succès : il lui demanda de ses filles qui avaient déjà l'expérience de l'emploi auquel il désirait les employer. Le Père Barré accéda à sa demande et lui donna la supérieure de sa maison de Rouen avec deux autres Maîtresses que M. Roland fit conduire à Reims, et les logeât dans la Maison des Orphelins ; sous prétexte de leur rendre service, quelque temps après il obtint de M. l'Écolâtre l'approbation pour établir quelques écoles dans la maison des dits Enfants, où on recevait toutes les petites filles et même les grandes qui se présentaient pour apprendre à lire et y être instruites des vérités du salut. Ce nouvel exercice commença bientôt à éclater dans la Ville, et donna aussi commencement aux contradictions qui s'élevèrent et s'accrurent depuis, comme on le verra dans le chapitre des vertus que ce saint homme a pratiquées. Il commença donc ainsi l'établissement des Écoles gratuites et fit pour cela de grandes dépenses pour accommoder cette nouvelle maison, où il n'y avait que les Orphelins avec quelques personnes pour pourvoir à leurs besoins ; lesquelles il mit dehors avec des récompenses sortables à leurs travaux, et la maison commença à s'accommoder avec vigilance ; où il y recevait des sujets à proportion que les classes s'augmentaient. Tout ce qu'on avait besoin, on le prenait chez lui, et on ne faisait presque qu'un ménage ; car toutes les provisions étaient pour ses filles à qui il avait donné une entière liberté d'aller prendre chez lui pour elles et pour les Orphelins tout ce qu'elles avaient besoin : il se faisait aussi un grand plaisir de leur donner et fournir de tout, comme les avares s'en font un d'amasser de l'argent : toutes ces délices étaient pour le bien de cette maison, non seulement il n'y épargnait ni soin, ni argent, mais il y procurait encore tous les secours spirituels ; ses jours et ses nuits étaient employés à cette œuvre, et tous ses soins ne furent pas sans fruit : car cette maison jeta un tel éclat en peu de temps, que le diable et le monde se déclarèrent ouvertement ses ennemis : mais M. Roland n'en fut que plus encouragé à poursuivre son entreprise, car disait-il, c'est une marque que cette œuvre est de Dieu puisque les puissances de l'enfer s'intéressent à l'empêcher. On voyait déjà dès ce temps le bien que cet Institut ferait dans la suite, car dans ces écoles nouvellement établies, on y rencontrait des filles de tout âge, et même des femmes qui déploraient leur vie passée ; durant laquelle elles avaient été dans une grande ignorance des choses nécessaires au salut.
Les Sœurs de cette Communauté faisaient aussi un très grand progrès sous la conduite de ce Saint Instituteur qui y répandait sa doctrine et son zèle avec tant d'onction, qu'elles auraient volontiers donné leur vie à sa persuasion, tant elles se sentaient animées du zèle de la gloire de Dieu et du salut de la jeunesse qui leur était confiée.
La bonne odeur que répandait la conduite de ces premières filles de M. Roland en attira bientôt d'autres, le nombre s'augmenta en peu d'années, ce qui fit qu'on multipliât les Écoles en différents quartiers de la Ville et même de la campagne : toutes les personnes qui pratiquaient le Saint Fondateur; se faisaient un plaisir à son exemple de participer à ce bien.
Ses vues dans ce nouvel Institut, étaient de former des maîtresses d’écoles pour instruire gratuitement ; pour en former aussi qui puissent instruire dans les campagnes sous la conduite des bons Curés ; d'y prendre encore des personnes de piété en retraite, qui est un bien considérable ; il voulait aussi que les petits Orphelins y fussent bien élevés, d'autant, disait-il que c'est l'origine de la Maison, et qui nous représentent Jésus-Christ en l'état de son Enfance ; et c'est à cette fin qu'il a donné pour titre à cette Maison, la Communauté du Saint-Enfant-Jésus. Tous ces pieux desseins firent qu'il n'épargna rien pour y donner de bons principes pour le Règlement de cet Établissement et pour former les dites Filles à une perfection qui réponde à la sainteté de l'état que demande une vie apostolique, ainsi que l'ont rapporté celles qui ont vu commencer l'Établissement ; dans les maximes qu'elles ont reçues de M. Roland, lesquelles maximes seront dans ce manuscrit pour l'utilité des Sœurs aussi bien qu’une partie des vertus qu'il a jugé leur être les plus nécessaires pour se sanctifier dans cette Communauté.
Les dites Filles ont expérimenté sa charité, son zèle et sa douceur paternelle, tout le temps qu'il a vécu, elles ont été témoin de ses rares vertus, de la pénétration de son esprit, surtout de la grande édification qu'il leur a donnée par son extrême pauvreté et sa grande mortification ; aussi suivaient-elles son exemple autant que la faiblesse de la nature leur permettait ; elles vivaient et étaient accommodées très chrétiennement, et le bon Fondateur se trouvait souvent obligé à veiller à leurs besoins, tant elles se négligeaient elles-mêmes pour ne s'attacher qu'à leurs devoirs ; ce qui a duré plusieurs années, comme le rapportent ceux qui ont conversé ces saintes Filles.
Je ne dois pas oublier, dit un Disciple de M. Roland, de vous dire que ce saint homme ne se contentait pas de rendre ses services et de se dépouiller de tout ce qu'il pouvait posséder, jusques là même que dès qu'il pouvait toucher quelque argent de ses parents ou d'ailleurs, on voyait en lui un saint empressement de l'envoyer en cette maison, sans le laisser coucher chez lui, ce qui marquait son grand détachement ; et un jour M. son père lui en ayant apporté, à peine fut-il à la porte qu'il appela son garçon et lui dit : Déchargez-moi de cet argent et le portez à ces pauvres enfants ; ce qui fait voir le désir qu'il avait de l'avancement de cette maison. Il ne négligeait aucun moyen pour le procurer et engager sa famille pour répondre du temporel, se servant pour cela de sollicitations engageantes.

CHAPITRE 9

Suite de l’établissement de la Communauté
et de conduite qu’il y a gardée

M. Roland ne se contenta pas d'avoir établi la Communauté du Saint-Enfant-Jésus, et d’y fournir tout ce qui est nécessaire, tant pour l'ornement et décoration de la Chapelle qu'il a fait bâtir à ses propres dépens, comme de tous les ameublements qui étaient nécessaires aux Sœurs et aux Orphelins dans cette nouvelle maison qu'il avait achetée de ses propres deniers, comme il est dit au chapitre précédent.
Il voulut pourvoir aussi à leur conduite spirituelle, par lui-même et par d'autres, afin que cet Institut puisse être solidement établi, et qu'il fut utile au public ; c'est pourquoi qu'il n'y épargna rien et fut infatigable à solliciter sa consommation par de longs et pénibles voyages dans lesquels il essuya de très grandes peines et rebuts.
Il ne connaissait point de personnes qu'il crut être à Dieu, qu'il ne les employa à son dessein, leur demandant et suivant leurs avis et conseils en tout ce qu'elles pouvaient pour le bien de cette Maison ; car c'était son propre d'aller toujours par l'avis des autres, et de se communiquer dans le bien qu'il voulait entreprendre, ne fût-ce qu'à un simple Clerc, pourvu qu'il fut un bon serviteur de Dieu ; comme aussi de gagner de saints Prêtres pour l'aider à dresser la conduite de ses Filles par des entretiens, Conférences et exhortations générales et particulières, il était plein de joie, lorsqu'il trouvait un quelqu'un qui se prêtait pour l'aider en cette bonne œuvre.
Voici les principales vues qu'il avait sur cette Communauté :
1° Qu'on y vive en grande perfection ; car disait-il, une poignée de gens qui vont à la perfection de la belle manière, de quelque condition qu'elles soient, rendent plus de gloire à Dieu qu'une Ville, même qu'une Province ne saurait lui en rendre ;
2° Que l'unique but de cette Maison soit de demeurer en habit séculier et non cloîtrée, pour être libre d'aller enseigner dans tous les quartiers de la Ville et même dans les Campagnes où elles pourront être envoyées par les Supérieurs.
3° Que l'unique emploi des Sœurs soit de travailler au salut des aines, par le travail des Écoles et des instructions, autant que le sexe en est capable ;
4° Que l'esprit de pauvreté, d'humilité, de zèle et de dépendance y soit gardé dans la rigueur ; que les Sœurs s'éloignent soigneusement de toute communication et de tout commerce avec les créatures ;
5° Que les personnes qui veulent se sacrifier entièrement pour servir Dieu dans le prochain y soient reçues de quelque condition qu'elles soient sans en exiger de dote, pourvu qu'elles aient les qualités nécessaires.
Il ne faisait dans cette Maison aucune distinction des personnes. Il ne voulait pas non plus qu'on fit distinction de celles qui avaient apporté du bien, et de celles qui n'en avaient pas apporté ; il voulait que l'on veillât avec plus de soin sur celles que leur vertu portait à se négliger elles-mêmes.
Il estimait que c'était un sujet d'exclusion dans une fille lorsqu'elle recherchait ses intérêts : qu'elle épargnait ses forces, et qu'elle était adonnée à des communications et attachée à sa famille.
Il demandait un grand dénouement et fuite de toute curiosité et propriété.
La grande maxime sur cette Communauté était que toutes sortes d'esprits n'y étaient pas propres ; car disait-il, il faut une vie au-dessus du commun, pour exercer avec édification les fonctions de leur emploi, il faut une grande mort à elles-mêmes ; il faut une grande simplicité et candeur pour obéir an dedans, après qu'on a commandé au dehors. Il faut une grande humilité pour dominer dans les classes sans se perdre par les vains applaudissements des créatures.
Il voulait qu'avec les exercices de l'école, on joignit le travail des mains qui ne devait consister que pour le besoin de l'usage de la maison, afin d'éviter l'extinction des instructions, et d'y introduire des manufactures.
Plusieurs personnes de mérite, qu'il se faisait un plaisir de consulter pendant sa vie, ont assuré que les maximes sus dites étaient ses sentiments sur la Maison, pour lui avoir oui dire plusieurs fois et s'en sont entretenu dans les rencontres, où l'on parlait de son souvenir.
Il avait une grande attention à tout ce qui pouvait mortifier les inclinations des Sœurs, et ne permettait pas qu'on leur passât rien pour les faire entrer dans l'esprit de mort à elles-mêmes et de mortification de leurs sens.
Une de ses maximes encore était qu'il valait mieux couper un lien que de vouloir le dénouer ; il voulait dire par là qu'il fallait rompre tout d'un coup les attaches qu'on avait aux créatures plutôt que de tant marchander. Une autre était : tout ou rien ; il ne pouvait souffrir le partage que tant de gens veulent faire avec Dieu et la créature ; il disait souvent qu'une personne qui se donnait à Dieu sans réserve, avançait plus en trois mois, qu'une autre en dix ans.
Il avait tant d'attrait et de désir que les Sœurs s'acquittassent bien de l'école que lui-même l'allait apprendre dans toutes les Villes où il passait lorsqu'il apprenait qu'il y en avait d'établies par de bonnes méthodes, il faisait venir des Maîtresses expérimentées pour les dresser dans cette maison, le tout à ses frais et dépens, et dans ces occasions, sa longanimité et sa charité étaient si grandes, que quelques grossières que fussent ces filles, cela ne le rebutait pas.
Pour réussir à l'entreprise qu'il faisait de n'introduire, dans cette Communauté, que des personnes déterminées à correspondre au dessein que Dieu lui avait inspiré ; il examinait lui-même le caractère et l'esprit des filles ; il les éprouvait en toutes choses, principalement dans l'abnégation et la mort à toute recherche d'elle-même.
Il leur dressait des Règlements de fois à autres, selon les difficultés qui pouvaient se présenter dans ce nouvel Établissement, il leur donnait journellement des avis de vive voix, dont nous donnerons l'abrégé ci-après, avec quelques chapitres des vertus les plus nécessaires aux Sœurs de cette Communauté que l'on a trouvé écrites de sa propre main, et qui sont très utiles pour toutes sortes de personnes consacrées au service de Dieu dans des cloîtres ou maisons régulières.
Une des raisons que M. Roland eut d'établir plutôt l'école des filles que celle des garçons qu'il avait cependant envie d'établir dans la suite, ce fut, disait-il, que les mères, les filles aînées des familles et les servantes sont pour l'ordinaire plus chargées de l'éducation des enfants que les pères : ce qui l'engageait à exhorter les Sœurs à ne pas s'épargner pour instruire ces grandes personnes de leurs devoirs envers les enfants qui sont commis à leurs soins.

CHAPITRE 10

Le dernier voyage que M. Roland fit à Paris,
de ce qu’il y souffrit et des sentiments
qu’il eut sur les approches de la mort

Après que ce grand Serviteur de Dieu eut passé plusieurs années dans la pratique de toutes les vertus chrétiennes et ecclésiastiques, et qu'il eut essuyé beaucoup de peines, d'opprobres et de contradictions des créatures, sans que cela l'ait jamais fait désister d'un instant de ses pieuses entreprises ; sa confiance et son abandon à Dieu était si parfait que les plus grands obstacles n'ont jamais put lui faire concevoir aucune défiance du succès de ce qu'il avait entrepris pour sa gloire et le salut des âmes, étant certain que Dieu prend plaisir à faire mieux paraître sa puissance et la force de sa grâce, lorsqu'il y a plus d'opposition de la part des hommes.
Après plusieurs voyages à dessein d'établir les écoles gratuites, il en fit encore un à Paris sur l'espérance que M. l'Archevêque lui avait donnée, lorsqu'il permit qu'on bénisse la Chapelle de la Communauté ; il partit donc de Reims dans une saison fort incommode, peu avant les Avents, et n'en revint que la Semaine Sainte, passant cette hiver dans d'extrêmes peines et incommodités pour les rebuts qu'il avait eu des créatures et les épreuves de Dieu qui redoublèrent aussi en lui, comme nous allons voir. Toutes ces épreuves ne l’abattirent pas, il s'occupa tout ce temps à solliciter la consommation de son Établissement avec plus d'ardeur que jamais, passant une grande partie du temps en attendant dans l'antichambre du dit Seigneur qui passait et repassait souvent devant lui sans lui rien dire, comme étant occupé à de plus grandes affaires, mais bien plus par un ordre de la Providence, pour achever de purifier son Serviteur, qui le voulait bientôt retirer de ce monde ; il passait le temps qui lui restait d'après ses sollicitations en retraite dans le Couvent des Révérends Pères Carmes déchaussés, en gémissements, en larmes en prières continuelles ; et par je ne sais quelle rencontre, une personne de grand mérite qui était son ami, le voyant si atténué et bouffi par l’abondance des humeurs causées par le grand froid et ses grandes abstinences, lui prédit que dans peu de temps il partirait de ce monde.
M. Roland prit cet avis comme venant du ciel, et se disposa à la mort par un nouvel esprit de pénitence, et par une retraite dont le premier motif fut d'y considérer et méditer ces paroles : La mort est proche. Il fit en six semaines trois fois sa confession générale, ainsi que l'a assuré le Révérend Père César, très digne Religieux du Couvent des Carmes déchaussés, qui était son confesseur dans les séjours qu'il faisait à Paris, lors de ses voyages. Voici ce qu'il dit de son Saint pénitent : J'entendis la Confession de cet humble pénitent avec une sensible consolation, après l'avoir refusé plusieurs fois, dans la certitude qu'il n'en avait aucun besoin ; car je ne trouvais point d'homme plus pur dans tous ceux que je conversais depuis longtemps dans tous les différents pays où je me suis trouvé ; mais quoique sa vertu m'avait toujours apparu depuis que j'eus de sa connaissance ; je peux assurer que dans ce temps il était tout autre qu'il n'avait encore été ; car quand il aurait été le plus grand scélérat de la terre, on n'aurait pu remarquer en lui plus de componction. Aussi était-il à ses yeux comme le plus abominable des hommes, et indigne de la vie ; il ne pouvait trouver des termes assez durs pour s'exprimer. Quand il eut achevé sa Confession générale recommencée par trois fois, non par scrupule, mais par un instinct visible de la grâce, il pensa retourner à Reims.
Son départ de Paris fut sans succès de son voyage, et se voyant sur le point de mourir, comme en effet il s'y était disposé, il me dit en partant qu'il sentait bien que Dieu voulait le retirer de cette vie comme un homme qui ne faisait qu'empêcher son œuvre. (Jusqu'ici ce sont les paroles de ce bon Père qui en parlait avec l'estime d'un Saint, et dit qu'il espérait que cette Communauté aurait en M. Roland un puissant protecteur auprès. de Dieu pour son Établissement.) Ce qui s'est trouvé véritable, comme on le verra dans le chapitre suivant.

CHAPITRE 11

Comme M. Roland tomba malade à son retour de Paris,
ainsi qu'il en avait ressenti les approches
par ses longues infirmités, et des sentiments
dans lesquels il est mort

M. Roland étant de retour de ce voyage, il donna des preuves plus visibles de ses rares vertus qu'il n'avait encore fait : car il parut en lui un si grand changement qu'on le prenait pour un autre lui-même par son humilité, charité, patience, douceur, et son détachement du monde ; il ne parlait plus de cette vie que comme d'un bannissement. Nous sommes, disait-il, mais avec une onction qui pénétrait le cœur, nous sommes des exilés de notre patrie, il faut se disposer pour y retourner ; que faisons-nous, sinon de nous éloigner (le notre centre qui est Dieu (ce sont ses propres termes). Son humilité le faisait cacher à ses propres yeux ; néanmoins il ne pouvait retenir le feu que Dieu même allumait en lui, ce qui lui faisait dire simplement ses sentiments sur l'état de l'autre vie. Quand irons-nous à cette autre vie, où on jouit de l'unique beauté, bonté et amour, quel bannissement de vivre ici-bas ; Ce n'est pas que dans ce temps, il ne fut dans de grandes épreuves, comme nous allons voir, mais c'étaient les approches de la mort qu'il ressentait en lui, ainsi que la pierre qui approche de son centre redouble ses mouvements, ainsi cette âme désirait d'être unie à Dieu, Ses incommodités s'augmentant tous les jours, on le vit depuis le Jeudi-Saint qu'il revint à Reims jusqu'au deuxième mardi d'après Pâques qu'il tombât tout à fait malade de la maladie dont il est mort, ayant passé tout ce temps dans l'exercice d'une très grande charité, tant les jours que les nuits, auprès des Sœurs très dangereusement malades de fièvres pourpreuses, sans que personne l'en put retirer. On craignait le danger pour lui atténué et fatigué qu'il était. Cette crainte de la part de ses amis, ne fut pas sans fondement, car il tomba malade de la même maladie la nuit du mardi au mercredi de la seconde semaine d'après Pâques.
Cette annonce de sa mort prochaine ne le surprit pas, il l'avait présente, l'ayant choisie pour le sujet de sa retraite qu'il avait faite un mois auparavant. Durant cette maladie qui ne dura que neuf jours, il donna encore l'exemple des plus grandes vertus, comme on va le voir dans le rapport qu'en a fait M. Guyart son disciple et son intime ami, qui en a été témoin, l'ayant gardé lui-même tout le temps de la maladie.
« M. Roland se sentant frappé de cette maladie il me dit (c'est M. Guyart qui parle) qu'il n'en échapperait point, ce qui l'obligea à se munir des Sacrements, chercher un digne successeur et faire son testament, malgré les médecins qui l'assuraient de sa guérison ; et quand en ce temps, il faisait des propositions de se donner à Dieu plus parfaitement, de se retirer dans l’ermitage de Caen où était mort M. Bernier, il retournait aussitôt à lui-même, disant que ses projets étaient vains puisqu'il devait bientôt mourir ; il avait une parfaite connaissance et une docilité à l'épreuve dans cette maladie ; il ne se plaignait point du tout au milieu de ses plus grandes peines, il ne demandait et ne refusait rien ; il m'a avoué qu'il souffrait comme une âme entièrement abandonnée, ne voyant qu'un Dieu en colère, que le jugement dernier, qu'une éternité embrasée, qu'un monceau de péchés ; il m'a dit que l'homme ne pouvait point porter plus de peine, ni d'accablement, que son état était une agonie, et qu'il ne trouvait de la consolation que dans le jardin des Olives.
Lorsqu'on lui apporta le Saint Viatique et l'Extrême-onction il fit une exhortation si forte et si touchante qu'il tirât les larmes des yeux de Messieurs les Chanoines qui accompagnaient le Saint-Sacrement ; il la finit par ces paroles : Voici, mes Frères, que je vais bientôt entrer dans le grand jour de l'éternité, là je connaîtrai mes terribles obligations et mes infidélités, je tremble quand j'y pense, priez le Seigneur qu'il me fasse miséricorde, et en particulier du scandale que je vous ai donné par mon infidélité et mon peu d'assiduité à l'Office divin. Il se regardait comme le plus grand pécheur du monde, et croyait qu'il ne faisait rien que d'attirer la colère de Dieu, et regardait toute la vie qu'il avait menée comme une abomination. Ce fut dans ce sentiment qu'il priât la Supérieure de sa Communauté de filles, de demander pardon à genoux pour lui à chaque sœur en particulier, et à toutes en général de la mauvaise conduite, disait-il, en versant des larmes de componction; qu'il avait tenue sur chacune d'elles, et du peu d'avancement dans la voie de la perfection qu'elles avaient fait sous sa direction. Quant au général, il croyait et disait que sa mauvaise vie seule empêchait la consommation de cet Établissement, sentiment qu'il gardait depuis longtemps, lui ayant entendu dire depuis longtemps et plusieurs fois, que c'était la Maison de Dieu, et qu'il en prendrait soin lorsque je ne m'en mêlerai plus, s'appuyant sur ce qu'une personne de mérite lui avait dit : Monsieur et cher Ami, tout ce que vous désirez pour la Maison de l'Enfant-Jésus s'accomplira bientôt, prenez bon courage, mais vous n'en verrez pas la consommation. Ce qui lui fit croire par un bas sentiment de lui-même qu'il était seul celui qui mettait obstacle à l'œuvre de Dieu. »
Quoique cet homme de Dieu fut si bien pénétré des biens de l'autre vie, et qu'il lui sembla déjà en ressentir des Avant goûts, ce n'était que par un sentiment de la pureté et de la force de sa foi, de l'esprit de mort à lui-même et à toutes les créatures ; car il fut durant cinq jours de sa maladie dans de si furieux assauts contre l'ennemi du salut, que les personnes qui l'ont vu, ainsi que moi, en avaient jusqu'au frémissement de voir qu'un si Saint homme qui avait vécu dans une si grande vertu, fut traité de la sorte. Dieu l'a permis pour achever de purifier son Serviteur de ce qui pouvait y avoir encore de nature en lui ; car durant ces cinq jours qu'il passa dans ces peines si terribles, tout son désir était de mourir en vrai chrétien : on l'entendait souvent répéter ces paroles d'un ton enflammé :
Seigneur, mon Dieu, faites-moi la grâce d'être du nombre des Élus.
Dans tout ce temps d'épreuve et de combat. on ne l'a pas vu tomber dans aucune impatience ni découragement, au contraire animé de confiance, il chantait et se faisait chanter des cantiques sur le désir de voir Dieu et de l'aimer sans partage. Cet assaut se passa très peu avant que d'expirer. Dieu le permettant ainsi, pour que celui qui l'avait servi depuis le temps de sa conversion jusqu'à ce moment, le passa sans aucune consolation ni de lui, ni de ses créatures : car on peut dire avec assurance, comme tous ceux qui l'ont connu, que cet homme de Dieu n'a jamais eu que des croix, des peines, des travaux et des opprobres en toutes ses entreprises. Ce qui donna lieu de croire qu'il est d'autant plus élevé dans le Ciel.
Enfin ce qu'on a remarqué et qui fait espérer que cela est, ce sont ses mérites et les venus qu'il a pratiquées. Plusieurs personnes ont assuré après sa mort que bien des choses leur étaient arrivées, comme ce bon Serviteur de Dieu leur avait prédit pendant sa vie ; et d'autres ont aussi assuré avoir reçu de grandes grâces et secours de Dieu, de s'être adressées à lui après sa mort dans leurs peines et afflictions, ce qui se peut croire pieusement, d'autant que ce sont toutes personnes de piété et de mérite.
Le père César, très digne Religieux du Couvent des Carmes déchaussés à Paris, qui avait entendu la confession générale qu'il fit durant sa retraite pour se préparer à la mort, dit à plusieurs de ses amis, que la Communauté du Saint-Enfant-Jésus, aurait en M. Roland, un puissant protecteur auprès de Dieu pour son Établissement : ce qui s'est trouvé véritable. Car dès le moment que Monseigneur l'Archevêque eut appris sa mort, il prit lui-même la Communauté comme sienne, et dit qu'il la soutiendrait toujours ce qu'on a cru être un effet de la protection de Dieu sur cette Maison provenant du mérite de son Serviteur.
Monseigneur l'Archevêque accorda peu de temps après, que le Saint Sacrement fut posé dans la Chapelle, qu'il avait permis de bénir du vivant du pieux Fondateur, il a confirmé et approuvé tout ce qu'il avait fait de son vivant dans cette Maison ; il y a fait plusieurs fois les Ordres pour marquer l'estime qu'il faisait de cette Communauté. Il fit faire ensuite par le ministère de M. de la Salle, disciple et ami du défunt qui, au lit de la mort, l'avait chargé du soin de sa Communauté et de l'exécution de son testament, tous les traités avec les Corps de la Ville pour sa consommation.
Il est à remarquer que, quoique son Éminence eut fait à M. Roland plusieurs refus sur cet Établissement, ce n'était que par un secret de la divine Providence, car il l'aimait et l'estimait ; il a avoué que c'était un grand serviteur de Dieu, qu'il ne l'avait fait souffrir que pour modérer l'ardeur de son zèle, il faisait fond sur ses lumières, ainsi qu'on l'a remarqué en la personne d'un de ses disciples qui étant interdit pour quelque fait qu'on lui avait imposé, non seulement M. l'Archevêque lui rendit ses pouvoirs, mais encore sur le témoignage de M. Roland, il lui donna une Cure et un Doyenné des plus considérables de son Diocèse.
La Ville ayant donné son consentement pour la bonne œuvre qu'avait fait M. Roland pour l'instruction dans les écoles du lieu de sa naissance, M. l'Archevêque donna son agrément pour cette œuvre qui l'intéressait plus que personne et se hâtât d'obtenir les Lettres-Patentes.
L'affaire fut assurée dès qu'elle fut entre ses mains. Son crédit à la cour ne le rendait pas timide à demander une grâce de cette nature, dans un temps où les plus grandes lui étaient prodiguées, et où elles le prévenaient sans lui donner la peine de les attendre. Un prélat moins puissant eût pu échouer dans cette rencontre, où pour y réussir il eut été obligé de compter tous ses pas et de mesurer toutes ses démarches ; mais le frère d'un Ministre tout puissant auprès du Prince, n'avait pas besoin de ces timides précautions ; il suffisait que le frère de M. de Louvois partit désirer une chose, pour qu'on allât au-devant de ses demandes.
Jamais Monseigneur l'Archevêque de Reims ne fit mieux valoir pour le bien de son Diocèse l'autorité qu'il avait en Cour et la faveur dont le Prince l'honorait que dans cette occasion. Les Lettres-Patentes obtenues de Louis XIV aussitôt que demandées, et ensuite enregistrées au Parlement, aux frais de Monseigneur Le Tellier, furent remises entre les mains de M. de la Salle digne successeur de M. Roland dans la Communauté.
Monseigneur l'Archevêque fit plus encore en accordant sa protection à une: œuvre qu'il regardait comme la sienne après le décès de M. Roland ; il voulut y contribuer par ses libéralités, et fournir de ses biens à l'établissement d'une Maison, qu'on peut appeler, à juste titre, un Séminaire de Maîtresses d'écoles. Par sa protection, par sa faveur, par ses largesses, elle fut très bien cimentée, et elle parvint en peu de temps à un état florissant et très utile au public. Ainsi, si cette Communauté doit son origine à M. Roland, elle doit ses progrès aux soins laborieux de M. de la Salle et sa stabilité à M. Le Tellier. Heureuses celles qui composent cette Communauté, si elles conservent toujours l'esprit de leur Saint Fondateur, et si elles ne déchoient jamais de leur première ferveur.
Je dirai encore un mot sur les opprobres que ce Saint homme a soufferts, qui ne se sont point terminés avec sa vie, qui a finir le vingt sept Avril, mil six cent soixante dix huit, âgé de Trente cinq ans cinq mois.
M. Roland ayant marqué dans son testament que son désir était qu'après sa mort on le revêtit de ses habits de Prêtre et qu'on l'enterrât avec, on exécuta son désir, on le coucha sur un lit de parade, à la vénération des personnes de piété. Des libertins qui l'avaient haï pendant sa vie, parce qu'il les reprenait vivement de leurs vices scandaleux, lui tirèrent par une fenêtre de la Chambre où il était exposé des coups d'arquebuse. Ce qui fait connaître que M. Roland était destiné aux souffrances.
Tout ce qui est écrit dans ce mémoire, a été reconnu, recueilli et déclaré de plusieurs personnes de probité, qui ont demeuré avec lui dans son petit Séminaire, qui l'ont conversé et pratiqué dans toutes les circonstances, et dans ses voyages et maladies. De sorte que si on veut se donner la peine encore aujourd'hui de s'informer de tous les chapitres sus dits, on verra qu'il n'y a rien qui ne soit véritable, et ceux qui ont connu M. Roland ont dit que ce ne sont que de petits fragments de ses mœurs, auprès de ce qu'il était.

[1] Cette copie des “Mémoires sur la vie de Monsieur Nicolas Roland” a été faite d’après le Manuscrit 3 A. Il contient la première “Vie” écrite du Bienheureux. L’auteur de celle-ci en est resté inconnu, ainsi que la date de sa composition. Même les manuscrits anciens, disparus pendant les guerres, n’ont rien révélé à ce sujet.
On peut penser que ces “Mémoires” furent rédigées peu après les “Lettres à la louange”, car ces témoignages collectés en 1693 en ont fourni la matière.

[2] Il y a ici une erreur. Nicolas Roland est né, non pas le 2 décembre, mais le 8 décembre 1642, comme il ressort du registre des baptêmes de la Paroisse Saint-Symphorien de Reims où il fut baptisé le 23 juillet 1643.

[3] Mgr Henri de Maupas.



Beato Nicola Roland Fondatore


Reims, Francia, 8 dicembre 1642 – 27 aprile 1678

Il beato francese Nicola Roland, sacerdote, preoccupato per la scarsa formazione cristiana della gioventù, istituì scuole per la gioventù femminile, allora esclusa da ogni tipo di istruzione, e fondò anche la Congregazione delle Suore del Santo Bambino Gesù. Giovanni Paolo II lo beatificò il 16 ottobre 1994.

Martirologio Romano: A Reims in Francia, beato Nicola Roland, sacerdote, che, impegnato nella formazione cristiana dei fanciulli, aprì scuole per le ragazze povere, allora escluse da ogni forma di istruzione, e fondò la Congregazione delle Suore del Santo Fanciullo Gesù. 

È il terzo componente di quel fantastico trio di fondatori educatori, che con le loro opere, illuminarono insieme ad altri santi, la Francia nel Seicento, e ad essere elevato agli onori degli altari; essi sono s. Giovanni Battista de La Salle (1651-1719), fondatore dei “Fratelli delle Scuole Cristiane”, il beato Nicolas Barré (1621-1686), fondatore delle “Maestre di Carità”, poi Suore di Gesù Bambino e il beato Nicola Roland, fondatore delle Suore del Santo Bambino Gesù di Reims, di cui parliamo.

Il beato Nicola Roland nacque a Reims in Francia, l’8 dicembre 1642, primogenito del commerciante Jean Baptiste Roland e di Nicole Beuvelet, in famiglia vi era anche la piccola Adrienne, unica rimasta dei cinque figli del primo matrimonio del padre, vedovo di Maria Favart.

Nicola fu affidato ad una nutrice molto religiosa; dotato di grande intelligenza intorno ai cinque anni imparò a leggere; nel 1650 ad otto anni, prese a frequentare le ‘petites écoles’, poi nel 1658 compì gli studi nel Collegio dei Gesuiti di Reims.

Di aspetto gradevole, non tardò ad inserirsi nella vita mondana della borghesia, partecipando con piacere ad intrattenimenti e distrazioni; dopo una presunta delusione amorosa, prese a viaggiare in giro per la Francia, per fare esperienze di lavoro.

Al termine di quel periodo d’incertezza sul suo futuro, decise di votarsi alla vita ecclesiastica, pertanto nel 1660 si trasferì a Parigi, prendendo alloggio presso un artigiano in una zona popolare, per poter frequentare i due anni di filosofia necessari per essere ammessi al biennio di teologia.

A Parigi frequentò gli ambienti più fervorosi, entrando in contatto con Associazioni cattoliche operanti anche nel sociale, gli Amici di padre Bagot, i fondatori della Società delle Missioni Estere, praticò i Seminari di Bons- Enfant di s. Vincenzo de’ Paoli (1581-1660); di S. Sulpizio di Jean-Jacques Olier, servo di Dio (1608-1657) e di S. Nicola del Chardonnet; terminò gli studi con il dottorato in teologia.

Ricevuto il diaconato, rivestito dell’abito ecclesiastico, il 3 marzo 1665 fu nominato canonico teologo, cioè predicatore nella cattedrale di Reims, senza lasciare i contatti con Parigi dove tornò spesso.

Non esistono documenti che attestino la data della sua ordinazione sacerdotale, che non poté comunque essere prima del dicembre 1627, secondo le norme del Concilio di Trento che prescrivevano minimo 25 anni.

La frequentazione degli Istituti parigini dei Lazzaristi, Sulpiziani, Missioni Estere, fece crescere in lui la conoscenza di realtà ed iniziative sempre nuove, al cui centro era la popolazione più reietta e l’infanzia abbandonata, bisognosa di attività caritative, assistenza, educazione.

Dopo la parentesi della peste che colpì Reims nell’estate 1668, padre Nicola Roland proseguì nella sua impegnata attività di predicatore in cattedrale, organizzò conferenze per il clero, si dedicò alle missioni nelle campagne, spostandosi perlopiù a piedi, affrontando fatiche, disagi e pericoli.

Fu direttore spirituale di laici di ogni condizione sociale e di persone consacrate, fra le quali s. Giovanni Battista de La Salle; nel 1670 predicò la Quaresima a Rouen e ciò ebbe grande importanza nella sua vita, qui incontrò il curato di Saint-Amand, Antoine de La Haye, uomo di grandi virtù; il contatto con lui lo portò a penetrare maggiormente nella vita spirituale e gli fece scoprire l’importanza del ruolo della scuola nella propagazione della fede cattolica.

A Rouen incontrò anche il beato Nicolas Barré e il gruppo di uomini e donne dediti alle scuole gratuite; fu un’esperienza decisiva e padre Roland disse: “Sono risoluto a lavorare per fondare scuole gratuite per l’istruzione delle ragazze”.

Ritornato a Reims, già impegnato nell’assistenza agli infermi dell’Hôtel-Dieu e dal 1670 anche di un orfanotrofio, prese a considerare e concretizzare l’idea di una comunità simile a quella di Rouen.

Chiese ed ottenne da padre Barré l’invio di due suore da Rouen, per dirigere l’orfanotrofio da lui ampliato in un nuovo grande edificio e per istituire scuole popolari nei vari quartieri di Reims.

Il 27 dicembre 1670, arrivarono suor Francoise Duval e suor Anne Le Coeur, che misero praticamente le radici per una nuova piccola Congregazione; padre Roland celebrò l’8 gennaio 1671 una prima Messa nel nuovo orfanotrofio dedicato al “Saint-Enfant Jesus” (Santo Bambino Gesù) e in seguito furono aperte alcune classi per l’istruzione delle bambine.

Nel 1672 incontrò s. Giovanni Battista de La Salle, futuro fondatore dei “Fratelli delle Scuole Cristiane”, il quale voleva convincerlo senza riuscirci, a rinunciare al canonicato per prendere la guida di una parrocchia.

Intanto le suore crescevano di numero e padre Roland si recò a Parigi per espletare le pratiche, affinché il gruppo fosse l’inizio di una nuova Congregazione, dedita all’istruzione dell’infanzia sulla scia di quella di Rouen; rientrò a Reims il Giovedì Santo 7 aprile 1678; il 19 aprile cadde gravemente ammalato, tanto che il 23 alla presenza dei notai, stese il suo minuzioso testamento, i cui esecutori dovevano essere il diacono Nicolas Rogier ed il canonico Giovanni Battista de La Salle.

A quest’ultimo, Roland chiese di essere il successore delle sue opere e completare l’organizzazione della Congregazione delle Suore del Santo Bambino Gesù, che egli aveva fondato a Reims nella linea di quella di Rouen, ma con una caratterizzazione particolare, come è detto nei suoi scritti, soprattutto negli “Avis aux régulières”.

La Salle, benché non si sentisse attirato da questa forma di apostolato, accettò la richiesta del suo amico Roland fatta sul letto di morte; dell’orfanotrofio aveva detto: “È opera di Dio; se ne prenderà cura quando io non me ne potrò più occupare”.

Dopo aver ricevuto gli ultimi Sacramenti, circondato dai canonici venuti ad assisterlo, Nicola Roland spirò serenamente il 27 aprile 1678 a nemmeno 36 anni, fu sepolto nella cripta della cappella delle Suore del Santo Bambino Gesù a Reims.

Giovanni Battista de La Salle, si mise subito al lavoro e già il 9 maggio 1678 ottenne l’approvazione regale e le costituzioni, preparate sommariamente da padre Roland, furono approvate il 12 novembre 1683 e le Suore, l’8 febbraio 1684 poterono pronunciare per la prima volta i voti.

Inoltre s. Giovanni Battista de La Salle, che aveva compreso le intuizioni profonde di Nicola Roland, volle creare anche per i bambini l’equivalente delle maestre di scuola delle fanciulle; fondò così i “Fratelli delle Scuole Cristiane”.

In questo contesto, Nicola Roland appare come uno dei precursori principali dell’apostolato del XVII secolo, nel campo dell’insegnamento elementare e della catechesi; stranamente però il suo nome è restato poco conosciuto fino ai nostri giorni, la sua prima ‘Vita’ di A. Hammesse è apparsa solo nel 1888; ma da allora l’interesse nei suoi confronti non è venuto mai meno.

Anche la sua causa di beatificazione, introdotta nel 1942, ha sofferto di intralci procedurali e lungo silenzio.

È stato proclamato Beato il 16 ottobre 1994 a Roma da papa Giovanni Paolo II; la sua festa liturgica è il 27 aprile.


Autore: Antonio Borrelli


Bienheureux JOSEPH-OUTHAY PHONGPHUMI, catéchiste et martyr

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La Cathédrale du Sacré-Cœur de Vientiane, lieu de mémoire des martyrs du Laos

Bienheureux Joseph Outhay


Martyr au Laos ( 1961)

Joseph Outhay, né en Thailande en 1933, mort à Savannakhet en 1961. Catéchiste.

En avril-mai 1961, dans la province de Xieng Khouang, les PP. Louis LeroyMichel Coquelet et Vincent L'Hénoret sont cueillis à leur poste et abattus sans procès. De même dans le sud du pays, le P. Noël Tenaud et son fidèle catéchiste Outhay sont pris et exécutés; le P. Marcel Denis sera retenu prisonnier quelque temps mais partagera le même sort. Un de leur confrères écrit: "Ils ont été, tous, d'admirables missionnaires, prêts à tous les sacrifices, vivant très pauvrement, avec un dévouement sans limite. En cette période troublée, nous avions tous, chacun plus ou moins, le désir du martyre, de donner toute notre vie pour le Christ. Nous n'avions pas peur d'exposer nos vies; nous avions tous le souci d'aller vers les plus pauvres, de visiter les villages, de soigner les malades, et surtout d'annoncer l'Evangile..."

Joseph Outhay naquit vers Noël 1933, dixième enfant d'une famille catholique très pieuse de Kham Koem, dans le Lao Issan, aujourd'hui diocèse de Tharè-Nonseng en Thaïlande. Lorsqu'éclate au Siam la persécution de 1940, le jeune Outhay a sept ans. Sa paroisse puis l'ensemble de la province restent sans prêtre résident; son père est catéchiste et prend le relais. À douze ans, la persécution finie, Outhay est envoyé pour 6 ans au petit séminaire de Ratchaburi. Il revient alors au village: sa mère et ses frères aînés sont tous morts; il doit s'occuper de son père et de ses deux sœurs encore petites... Il se marie donc - il a 19 ans -, mais un an plus tard son épouse meurt en couches, suivie peu après de leur enfant.

Outhay voit là un signe: il partit pour Tharè, se mettant à la disposition de son évêque comme catéchiste diocésain. À l'invitation de son ancien curé, le P. Noël Tenaud, MEP, il suivra bientôt ce dernier vers la Mission de Thakhek au Laos. Homme expérimenté, mûri précocement par la vie, il fut à Pongkiu un catéchiste apprécié de tous, chargé de la formation de jeunes catéchistes débutants. Homme de confiance du P. Tenaud, il le suivra en 1960 vers les régions de la province de Savannakhet à défricher pour l'Evangile. Il partagera aussi son destin final, rendant comme lui l'ultime témoignage de foi le 27 avril 1961. De son vivant, Outhay était déjà considéré comme un catéchiste héroïque. Après sa mort, sa renommée n'a fait que monter, jusqu'à aujourd'hui. Son exemple est une inspiration pour tous.

Il fait partie des martyrs au Laos entre 1954 et 1970 qui seront béatifiés en 2016.

Liens utiles:

- Noël Tenaud (1904-1961), prêtre des Missions Étrangères de Paris envoyé au Siam en 1931, Noël Tenaud est assassiné avec son catéchiste Joseph Outhay Phongphumi le 27 avril 1961 - site OMI, province de France 


Joseph-Outhay Phongphumi (1933-1961)

Un fils de la mission du Laos

Joseph Outhay Phongphumi était un Lao Issan du Nord-Est de la Thaïlande. Son village d´origine, Kham Koem, est situé à 5 kilomètres du chef-lieu de Nakhon Phanom, et à trois kilomètres de Nonseng et du Mékong, en face de l´île de Don Dôn. C´est un paisible village agricole qui vit de la culture du riz. La récolte est complétée par l´élevage des poules et une abondance de fruits de toute sorte. Traditionnellement les familles améliorent leur revenu avec la fabrication de chapeaux coniques en feuilles de latanier - ces couvre-chefs que les Français appelaient jadis « chapeaux annamites ».

Le village est entièrement catholique : fondé avant 1885, ce fut l´un des premiers centres établis au XIXe siècle par les Pères des Missions Étrangères de Paris pour les populations rachetées à l´esclavage - esclavage des marchands de chair humaine ou esclavage de la peur des esprits. Le poste missionnaire appartenait alors à la « Mission du Laos », située à cheval sur le Mékong mais dont la partie la plus développée était en territoire siamois. La paroisse fait partie aujourd´hui du diocèse de Tharè - Nonseng ; le plus ancien registre des baptêmes qui y est conservé remonte à 1904.

Au-delà des rizières, l´horizon est fermé par la dentelle des monts karstiques de Khammouane, au Laos. Le Laos, d´ailleurs, est proche à tout point de vue : les coutumes et le dialecte local sont à peu près les mêmes des deux côtés du fleuve.

De 1934 à 1940 le curé de Kham Koem était le Père Noël Tenaud, m.e.p. ; les paroissiens âgés se souviennent bien de lui, et rappellent qu´ils lui doivent la construction du grand mur d´enceinte en briques - une rareté dans cette région - qui encercle les terrains de l´église. Ce ministère de six années, interrompu par la persécution de 1940, a également préparé l´avenir pour le plus notable des fils de la paroisse : Joseph Outhay Phongphumi.

Les jeunes années : lumières et ombres

Outhay fut baptisé le jour de Noël 1933. On lui donna le nom de saint Joseph, mais la date de l´événement lui vaudra le surnom de « No-en » (en prononciation populaire). Était-ce un signe ? « Noël » est justement le prénom porté par le Père Tenaud. Outhay était né le jour même ou quelques jours plus tôt, dixième enfant d´une famille catholique très pieuse qui comptera vingt-deux naissances. Mais dans ces années de pénurie, où les conditions de vie étaient dures, la nourriture insuffisante et la médecine moderne à peu près absente, la mortalité infantile était très élevée ; la plupart des frères et soeurs d´Outhay moururent en bas âge ou très jeunes.

Le père d´Outhay, Paul Khrua, était catéchiste ; ce fait aussi marquera de façon définitive la vie du jeune homme.

Lorsque éclata la persécution en décembre 1940, le jeune Outhay avait tout juste sept ans. La paroisse de Kham Koem et l´ensemble de la province durent rester sans prêtre résident, avec la messe de loin en loin seulement. Mais le catéchiste Paul Khrua ne laissa pas la foi chrétienne s´étioler. Tout au long des années noires, la famille hébergea Soeur Véronique, une religieuse des Amantes de la Croix de Chieng Khoang à qui l´on interdisait de porter l´habit et de vivre en communauté. La présence à côté de sa mère de cette personne consacrée, éducatrice née, eut sur le jeune garçon une très grande influence, comme ses propres soeurs se plaisent à le rappeler.

La persécution finie, Joseph Outhay avait douze ans. Il était intelligent, éveillé et pieux, et sa conduite était exemplaire. On l´envoya donc dans le sud, au petit séminaire tenu par les Pères Salésiens à Bang Nok Khuek (Ratchaburi), le seul séminaire alors ouvert dans le pays. Il y fera six années d´études secondaires. C´est au cours de ces années que la maman fut emportée à son tour par la maladie.

Au terme de ces études, Outhay n´entra pas au grand séminaire mais revint au village. La raison la plus profonde de ce retour appartient au secret de sa conscience. On peut toutefois penser que la situation familiale eut une part dans la décision. Selon la tradition, il revient à l´un des garçons de s´occuper de ses parents lorsqu´ils sont âgés ou malades. De dizième, Outhay était devenu l´aîné de sa fratrie, suivi de deux filles et de deux garçons ; or la plus âgée de ses deux soeurs, Khamsaen, n´avait que treize ans...

C´était alors un beau jeune homme de dix-huit ans, de corpulence assez forte. Foncièrement bon et droit, il était doté d´une personnalité marquante : le rencontrer ne laissait personne indifférent. Ses soeurs se souviennent de l´amour fraternel qu´il leur portait. C´était aussi un passionné de la foi chrétienne, entièrement dévoué à son travail pour l´Église. Encouragé et entraîné par son père, il dirigeait la prière et les chants à l´église ; il faisait les lectures et enseignait parfois le catéchisme.

On le fiança sans tarder : il fallait une femme à la maison. Maria Khamtan était une petite cousine, mais tout le monde à Kham Koem n´était-il pas plus ou moins cousin ? À leur mariage, le 17 février 1953, Outhay n´avait guère plus de dix-neuf ans, elle en avait presque vingt-cinq. La voici bientôt enceinte ; mais elle mourut en couches en mettant au monde leur petite fille. Trois mois plus tard, l´enfant suivait sa mère dans la tombe.

Un catéchiste expatrié

Outhay ne resta pas longtemps dans ce village où trop de deuils successifs l´avaient durement frappé. Au bout d´un an environ, le Père Noël Tenaud vint visiter ses anciens paroissiens. Il était désormais missionnaire dans la Province de Khammouane au Laos, mais aussi pro-préfet de la Préfecture apostolique de Thakhek (Laos) nouvellement fondée. À ce titre, il cherchait des cadres pour mieux organiser l´évangélisation de ce grand territoire. Il invita le jeune veuf Outhay à le suivre comme catéchiste au Laos, après un stage à l´école des catéchistes de Sriracha, dans le sud de la Thaïlande.

Outhay accepta avec joie de s´ouvrir ainsi à de nouveaux horizons et de relever de nouveaux défis.

Quant à la famille, elle participa au sacrifice dans un esprit de foi. C´est la soeur puînée, Khamsaen, qui allait s´occuper des vieux jours de papa Khrua. Par la suite Outhay, fils fidèle et frère reconnaissant, visitera son vieux père et ses soeurs à peu près une fois par an.

Homme instruit, expérimenté mûri précocement par la vie, il fut catéchiste senior dans la grande paroisse laotienne de Pongkiou, près de Thakhek, centre chrétien important de la minorité Sô. Le Père Tenaud lui confia en partie la formation de jeunes débutants ; le catéchiste Kani était l´un d´entre eux.

Le Père Tenaud fut chargé de la paroisse de Pongkiou de 1944 à 1958 ; Outhay fut à ses côtés durant les trois dernières années - la date précise de son arrivée n´est pas connue.

Un portrait contrasté

Malgré une différence d´âge peu considérable, Kani se souvient d´Outhay comme quelqu´un « d´une autre génération », très réservé et sérieux - trop sérieux peut-être. Il ne fréquentait guère le village, assurant essentiellement son service à l´église. Mais comment s´étonner de cette réserve, de cette distance, chez quelqu´un qui vivait encore intensément des deuils prématurés ?

Outhay avait toutefois un côté bonhomme. Il passait au petit séminaire de Thakhek en compagnie du Père Lek, un prêtre laotien dont il était proche. Soeur Christina était alors cuisinière de l´établissement ; elle le voyait taper dans le ballon avec les jeunes élèves. Ceux-ci l´avaient surnommé « Kèk », c´est-à-dire « l´étranger », mais c´est avec affection qu´ils prononçaient ce nom, ou riaient lorsque son embonpoint rendait sa course pataude.

Soeur Marie-Thérèse a très bien connu Outhay à Pongkiou ; son témoignage explique les contrastes de son tempérament, liés à l´histoire de son enfance :

Je connais bien le caractère du Khru Outhay : esprit humble et dévoué, il accomplissait son travail avec beaucoup de courage. Ce qu´il aimait dans la vie, c´était de donner la Bonne Nouvelle aux autres. Il donnait tout pour l´annonce de l´Évangile. Il avait aussi l´art de ramener les gens dans le droit chemin. Tout le monde appréciait la douceur de son caractère.

Il était particulièrement à l´aise avec les Soeurs Amantes de la Croix, qu´il traitait comme si elles étaient sa propre mère. Il savait aussi faire rire, ménager des bons moments de détente, taquiner les Soeurs pour les faire rire. Mais quand c´était nécessaire, il savait être sévère, notamment avec les jeunes apprentis catéchistes.

Le Père Tenaud, avant son départ pour la Province de Savannakhet, se déplaçait toujours en compagnie du catéchiste Outhay, et ce dernier l´a accompagné plus tard dans la région de Muang Phine.

En effet, le seul vrai confident d´Outhay était bien le Père Tenaud, le curé de son enfance. Dans les rapports sur la disparition et la mort de ce dernier, les responsables de la Mission parleront simplement de « son fidèle catéchiste ». Il n´était pas nécessaire de le nommer, car Outhay partait toujours avec lui, quel que fût le danger. Ils étaient liés d´amitié, inséparables.

Épreuves et départ en mission sans retour

En juin 1958, le Père Tenaud partit en congé en France pour une année entière. Ce départ fut pour Outhay le début d´une période de grande épreuve ; même la nourriture vint à manquer. En désespoir de cause, il décida de rentrer dans son village natal. Après la vocation sacerdotale de son enfance, celle de catéchiste missionnaire allait-elle s´évanouir ? Mais il était d´une famille où l´on croyait en la Providence. Celle-ci se manifesta en la personne de Michel Kien Samophithak, le prêtre thaïlandais qui venait célébrer la messe dominicale dans la paroisse de Kham Koem : or il fut nommé vicaire apostolique de Tharè justement en février 1959.

Le nouvel évêque fit plus ample connaissance avec Outhay, et fut fortement impressionné. La soeur du catéchiste se souvient bien de cela : « Outhay avait une personnalité telle que tous ceux qui le rencontraient étaient contraints de l´aimer. » Mgr Kien voulait fonder dans son vicariat une congrégation de frères enseignants : il vit en Outhay un des piliers de sa fondation, et l´invita à venir vivre à l´évêché. Le jeune homme ne demandait qu´à servir Dieu et l´Église, et suivit donc son évêque.

Cela ne devait durer que quelques mois. En juillet 1959, ce fut l´ordination épiscopale de Mgr Michel Kien, qui prenait ainsi possession du vicariat, mais aussi le retour de congés du Père Noël Tenaud. Or ce dernier était nommé, non pas dans une chrétienté bien établie comme Pongkiou, mais dans un poste missionnaire où le travail d´évangélisation n´avait jamais débuté : dans un effort d´aller ad gentes, vers les non-chrétiens, il prospecterait tout le centre de la Province de Savannakhet, sur deux cents kilomètres le long de la route n° 9, entre Séno et la frontière du Viêt-nam. Il établirait sa résidence dans le bourg de Xépone, dans la montagne, où il n´y avait pas un seul chrétien6. Le Père Tenaud supplia l´évêque - avec larmes, précise la soeur d´Outhay - ; il le persuada de lui céder ce précieux compagnon, afin de pouvoir relever en équipe le nouveau défi apostolique.

Quant au catéchiste, il n´hésita pas à suivre son maître et ami, disposé comme toujours à l´accompagner dans toutes ses tournées d´évangélisation. Au témoignage de sa soeur, Outhay connaissait pourtant bien la nouvelle situation au Laos, et le danger de mort que la guérilla représentait pour les ouvriers de l´Évangile. Le Père Tenaud n´avait pas cherché à le tromper : « Il a invité mon frère à le suivre au Laos pour y mourir ensemble ; il l´exhortait à ne pas laisser son Père mourir seul. Et Outhay a été d´accord pour y aller, tout en sachant bien qu´il allait mourir. » Malgré leur étonnement, les membres de sa famille ne cherchèrent pas à l´en dissuader.

D´aucuns jugeront ces propos exagérés. À l´été 1959 - quelques mois avant la mort violente du Père René Dubroux - les Pères voyaient volontiers le danger de persécution comme une hypothèse lointaine. Les catéchistes, bien plus proches de la population, avaient une vue différente. Le 2 août 1959, ceux de Sam Neua écrivaient à l´évêque de Vientiane une lettre soulignant l´urgence de la situation, dont voici quelques phrases en traduction littérale :

Tes fils estiment que les prêtres... vont avoir des difficultés de toutes sortes... Chaque jour maintenant le trouble s´élève continuellement. Vos fils pensent que c´est une chose très grave parce que les ennemis sont arrivés et très certainement les Pères de par ici n´éviteront pas la mort... Pour ce qui concerne le pays, maintenant ce n´est plus, de beaucoup, la même chose qu´auparavant. Si cela arrive, nous certifions qu´il n´y a pas de moyen de s´en aller, parce que maintenant c´est la population qui est de coeur avec les... ennemis de notre religion.

Les Pères... ne comprennent pas bien encore ce que c´est que la guerre ou la persécution contre les Pères, parce qu´ils ne l´ont pas encore vue de leurs yeux. Ils prennent encore cela à la légère. Vos fils sont des hommes qui ont été avec les Pères depuis toujours et comprennent, et savent bien que si la guerre arrive, et que les prêtres ne s´en vont pas tout d´abord, très certainement les ennemis doivent leur faire du mal jusqu´à ce que mort s´ensuive... En ces jours-ci, vos fils ont pensé et envoyé cette lettre à vous, Monseigneur, pour que vous examiniez le moyen de ne pas perdre les prêtres.

Installation

À Xépone, les deux apôtres s´installèrent juste au-delà du pont, à droite de la route. Le Père Tenaud loua un compartiment dans un bâtiment en bois de style commercial chinois. Un jeune séminariste, alors âgé de dix-huit ans et aujourd´hui prêtre au Laos, les a visités à l´occasion de ses voyages vers le Viêt-nam, et « garde un très vif souvenir de ce séjour ». Outhay et lui se baignaient dans la rivière, et le catéchiste lui racontait volontiers son apostolat. « Je n´ai pas vu les activités missionnaires dans les villages, mais Outhay m´a raconté comment ils prenaient des contacts. C´était un homme cordial, chaleureux, qui parlait facilement. »

De même, pour Mgr Pierre Bach qui a fait sa connaissance durant cette dernière année de sa vie, Outhay était quelqu´un de « très ouvert aux autres, autant que cela était possible dans l´ambiance du Laos à cette époque. » Soeur Marie-Thérèse corrobore cette vision : « Catéchiste attitré du Père Tenaud, c´est lui qui parlait familièrement, fraternellement avec les gens, en se mettant à leur portée ; en effet, avec les prêtres il y a une trop grande distance. »

Comme le Père Tenaud, Outhay avait aussi un pied-à-terre en ville à Savannakhet, pour les temps de repos et de retraite : une maison de bois construite derrière le chevet de l´église, la future cathédrale. L´intention était d´en faire un petit centre de formation pour les catéchistes. Plus tard, cette maison a été démontée et sert aujourd´hui d´église dans un village.

Le dernier voyage

Pour Noël Tenaud et Joseph Outhay, le « dernier voyage » s´est fait en deux étapes : la dernière remontée vers Xépone et la tentative de retour vers la vallée du Mékong. La reconstitution de ce double voyage reste en partie hypothétique.

Début 1961, la position de Xépone était menacée par la guérilla et surtout par son puissant allié nord-vietnamien : les plans de la future piste Hô Chí Minh exigeaient d´en éliminer toute présence indésirable. Selon Mgr Pierre Bach, futur évêque de Savannakhet, « on avait déconseillé au Père Tenaud, à cause du danger, de retourner dans cette région ; mais lui avait tenu à y aller malgré tout, afin d´affermir le courage des chrétiens isolés. Le catéchiste Outhay a accepté, comme toujours, de l´accompagner. »

Sur le dernier voyage, il y a des bribes de témoignages ; mises ensemble, celles-ci donnent une image en pointillés relativement précise. Outhay a été mortellement blessé en même temps que le Père Tenaud au moment de l´embuscade, mais le moment précis de sa mort n´est pas connu. Un témoin, habitué de la région, s´exprime ainsi :

Un ancien de Muang Phine m´a indiqué l´emplacement de l´embuscade ; mais je ne sais pas s´il faut lui faire confiance sur le détail. C´est lui qui m´a dit qu´Outhay avait été seulement blessé. Le Père Aballain a su cela aussi peut-être par d´autres personnes. J´ai présumé que le Père Tenaud avait été enterré au bord de la route, et que Outhay avait été soigné, soit à Phalane, soit à Muang Phine, ou même à Xépone. À mon avis, c´est à Xépone qu´il est mort parce que c´est là que le GMC est retourné. Le Père Aballain l´expliquait aussi comme cela après son enquête.

Le lieu de l´échauffourée qui coûta la vie au P. Tenaud et ultimement au catéchiste Outhay est au Km 124. Une troupe partisans, affamés, étaient sortis de la forêt ; ils avaient arrêté un autobus et dévalisaient les voyageurs pour de la nourriture. Survint un camion GMC commandé par le capitaine Phou Vieng, de l´armée royale, sous la protection duquel voyageaient Tenaud et Outhay. Une fusillade s´ensuivit, avec beaucoup de morts. Le P. Tenaud, tué, fut enterré dans la nature, avec les autres morts, à proximité du km 124. Outhay, blessé et soigné à l´hôpital de Phalane, mourut quelques jours plus tard, soit à Phalane, soit à Xepone. À proximité du lieu de l´embuscade se trouve maintenant le village de Nonsa-ad (km 125).

Après la mort du Père Tenaud la route était coupée, et pendant longtemps on n´a plus eu de nouvelles. A partir de 1994, et jusqu´à aujourd´hui, quelques tournées missionnaires ont pu avoir lieu sur cette route.

Circonstances, motifs et sens de cette mort

Témoignage de Mgr Bach, m.e.p.

Quand le catéchiste Outhay et le Père Tenaud ont disparu en avril-mai 1961, j´étais absent du Laos, en Thaïlande pour quelques mois. Ce que je sais de leur mort est donc ce que j´ai entendu des témoins.

Les deux voyageaient dans la même voiture. Celle-ci circulait alors sur la route qui va de Savannakhet vers le Viêt-nam. L´attaque est survenue à la hauteur de Tchépone, c´est-à-dire dans le no man´s land au-delà des positions de l´armée royale laotienne. Cette zone était tenue par la guérilla... Pour cette raison il a été impossible d´y aller pour récupérer les corps.

Outhay aurait été blessé dans l´attaque, mais il est mort de ses blessures peu de temps après.

Sur l´embuscade fatale, il existe deux théories :

·       Elle a été le fait de l´armée royale, qui ne permettait à personne de se rendre en zone ennemie. Cette hypothèse n´est guère vraisemblable, et je n´y crois pas.

·       Elle a été le fait de la guérilla, qui ne voulait pas d´interférences dans la zone qu´elle contrôlait. C´est l´hypothèse qui a été finalement retenue.

Je suis certain que le catéchiste Outhay n´était mêlé d´aucune façon aux questions militaires ou politiques. Il n´y a pas de doute qu´Outhay était lui-même conscient du danger. Il savait bien ce qui pouvait arriver. Pour moi, c´est la preuve qu´il acceptait librement de donner sa vie pour sa mission, à cause de sa foi. Il avait choisi de suivre le Christ et de servir le peuple de Dieu, quoi qu´il arrive. Il a été fidèle jusqu´à la mort à cette option.

Je ne peux pas dire quels sont les motifs qui expliquent directement le geste de ceux qui l´ont tué. Je sais toutefois que les gens de la guérilla avaient été formés dans les maquis par les Viêt-minh à la haine de la religion : ils voulaient à tout prix supprimer la foi chrétienne dans le peuple laotien.

Bien sûr, il y avait dans les motivations des adversaires un certain mélange. Ils faisaient l´amalgame entre la haine du capitalisme, des Américains, des étrangers... Ceci dit, l´attitude anti-religieuse est évidente chez eux : il y a à peine quelques années les autorités au pouvoir continuaient à faire signer aux chefs de famille des documents d´abjuration de la religion chrétienne. Certains acceptaient pour avoir la paix ; d´autres refusaient...

La haine de la foi chrétienne a donc bien été, au moins indirectement, la cause de la mort d´Outhay.

La réputation de martyr du catéchiste Outhay

Témoignage de Mgr Bach, m.e.p.

"Je considère personnellement le catéchiste Outhay comme un martyr, c´est-à-dire comme un chrétien héroïque qui a offert sa vie courageusement pour sa foi, qui a suivi le Christ jusque dans la mort.

Les chrétiens de Savannakhet, qui l´ont connu ou ont entendu parler de lui, partagent cette même conviction. Les prêtres diocésains de Savannakhet pourront attester cela.

La réputation de martyr d´Outhay a commencé dès le moment de sa mort ; d´ailleurs, dès avant sa mort, il était considéré par ceux qui le connaissaient comme un catéchiste héroïque. Après sa mort, sa renommée n´a fait que monter, et ce, jusqu´à aujourd´hui. Je peux attester cela pour les prêtres et les religieuses ; pour les chrétiens laïcs, n´étant pas en contact avec eux, je ne puis toutefois en répondre.

Je n´ai pas connaissance de chrétiens qui ne partageraient pas cette certitude. Je n´ai jamais entendu non plus, de la part de non chrétiens, d´affirmations qui s´opposeraient à cette réputation. Les Laotiens en général voient dans ces chrétiens morts pour leur foi des héros à leur manière, des hommes qui n´avaient pas peur : pour eux ce sont des gens qui suivaient leur maître. Comme le prêtre suit son Maître, le Christ, le catéchiste Outhay a suivi le prêtre comme son maître, jusque dans la mort.

Oui, il m´arrive de m´inspirer de l´exemple laissé par le catéchiste Outhay, et je pense que cet exemple inspire d´autres chrétiens. Oui, il m´arrive de demander l´intercession auprès de Dieu de nos « martyrs » du Laos ; je le fais de façon collective, sans privilégier tel ou tel. Je peux aussi attester qu´à Savannakhet et dans les villages on fait mention d´eux après chaque messe."

Le témoignage de Mgr Bach est rejoint par celui de Kani, le catéchiste laotien :

"Je suis persuadé que le catéchiste Outhay est vraiment un martyr. Il n´a pas eu peur de partir dans les régions où régnait l´insécurité. Il connaissait certainement le danger de la situation. Mais quant à lui, il faisait confiance au Père : il le suivait comme un disciple suit son maître. Il ne voulait à aucun prix le laisser seul."

La mort du catéchiste Outhay n´a pas plongé sa famille dans le désespoir : sa parenté croit fermement qu´il est mort pour Dieu. Il s´était engagé dans l´enseignement du catéchisme, pour faire connaître l´amour de Dieu à ceux qui ne le connaissent pas. Il a suivi le Père Tenaud et à collaboré avec lui à l´oeuvre du Seigneur. Ses soeurs croient fermement qu´il est avec Dieu et prie pour ceux qui sont encore en vie, à Khamkoem et au Laos, parce qu´il les aimait tant.


Blessed Joseph Outhay Phongphumi


Profile

Layman catechist in the apostolic vicariate of Savannakhet (in modern Laos). Martyr.

Born
  • 1933 in Kham Koem, Nakhon Phanom, Thailand


Beato Giuseppe Outhay Phongphumi Catechista e martire



Kham Koem, Thailandia, 1933 - Phalane, Laos, 27 aprile 1961

Joseph Outhay Phongphumi nacque nel Siam (l’attuale Thailandia) in una famiglia numerosa e già cattolica e fu inviato al Seminario minore di Ratchaburi, da cui uscì, terminato il corso di studi, per prendersi cura della sua famiglia. Si sposò a diciannove anni, ma sua moglie morì di parto l’anno seguente, insieme alla loro unica figlia. Per lui fu il segno che doveva mettersi a disposizione come catechista diocesano, seguendo padre Noël Tenaud, delle Missioni Estere di Parigi. Nell’aprile 1961 cadde in un’imboscata insieme a lui e a un ragazzo sordomuto, poi liberato. Quando il missionario chiese di essere riportato alla missione con Joseph Outhay, entrambi vennero portati via e uccisi il 27 aprile 1961. Inseriti nel gruppo di quindici martiri capeggiato dal sacerdote laotiano Joseph Thao Tiên, sono stati beatificati l’11 dicembre 2016 a Vientiane, nel Laos. La loro memoria liturgica cade il 16 dicembre, unitamente a quella degli altri quindici martiri del Laos.

Primi anni

Joseph Outhay Phongphumi nacque a Kham Koem, un villaggio agricolo nel nord-est dell’attuale Thailandia, a ridosso del Natale 1933, data nella quale fu battezzato. Il suo villaggio era uno dei primi ad essere stato evangelizzato dai sacerdoti della Società delle Missioni Estere di Parigi, che si occupavano di un vasto territorio tra Laos e Siam.

Outhay era il decimo di ventidue figli, quasi tutti morti giovanissimi o comunque in tenera età. Suo padre, Paul Khrua, era catechista e non si lasciò impaurire dalla persecuzione avviata in Siam nel dicembre 1940, anzi: ospitò in casa propria suor Veronica, delle Religiose Amanti della Croce, alla quale era stato proibito di portare l’abito religioso e di vivere in comunità. Le sorelle di Outhay notarono subito che la sua presenza, accanto a quella della madre, era molto importante per lui.

Allievo del Seminario minore, poi catechista

Al termine della persecuzione, Joseph Outhay aveva dodici anni ed era intelligente, dotato e religioso. Per questo motivo venne inviato al sud, nel Seminario minore retto dai Salesiani a Bang Nok Khuek (Ratchaburi), all’epoca l’unico del Paese.

Terminato il periodo di sei anni per gli studi secondari, tornò al villaggio. Non si sa per quale motivo: forse era perché, nel frattempo, la madre era morta, come anche i suoi fratelli più anziani. Ritrovatosi a essere il figlio maggiore, dovette quindi prendersi cura del padre e dei quattro fratelli minori rimasti.

Le sorelle ricordarono che era dotato di un carattere onesto, che non lasciava indifferente chiunque lo incontrasse. Appassionatissimo alla sua fede cristiana, come gli era stato insegnato dal padre, dirigeva la preghiera e i canti in chiesa; proclamava le letture e a volte insegnava il catechismo.

Sposato e subito vedovo

Dato che era ormai in età per prendere moglie, gli fu presentata una cugina, Maria Khamtan. Si sposarono il 17 febbraio 1953: lo sposo aveva poco più di diciannove anni, mentre la sposa ne aveva venticinque. Tuttavia, rimase presto vedovo: la moglie, infatti, morì di parto e, tre mesi dopo, fu seguita dalla loro unica figlia.

Al seguito di padre Noël Tenaud

Provato da quei lutti, Joseph Outhay accettò la proposta di padre Noël Tenaud, della Società delle Missioni Estere di Parigi, che tempo addietro era stato parroco della comunità cristiana di Kham Koem e all’epoca era missionario nella provincia di Khammouan nel Laos, nonché pro-prefetto della Prefettura apostolica di Thakhek, di recente fondazione. 

Stava appunto cercando nuove leve per organizzare al meglio l’evangelizzazione in quel territorio tanto esteso: invitò quindi il giovane vedovo a seguirlo, dopo il necessario periodo di formazione nella scuola di Sriracha, nel sud della Thailandia.

Outhay accettò con gioia, pur soffrendo il distacco dalla famiglia, che comprese il suo desiderio di nuove sfide. In seguito, in spirito di fedeltà e riconoscenza, tornò a trovare i familiari almeno una volta l’anno.

Fu al fianco di padre Tenaud durante i suoi ultimi tre anni nella parrocchia di Pongkiou, vicino a Thakhek, centro importante per il servizio alla minoranza etnica dei Sô. In particolare, si occupò d’insegnare agli apprendisti catechisti, ai quali mostrava la parte seria del suo carattere. Per il resto, era capace di far sorridere le Suore Amanti della Croce, che conservarono di lui un buon ricordo. Tutte le sue migliori risorse erano impiegate per trasmettere il Vangelo agli altri.

Al servizio del vicario apostolico

Nel giugno 1958, padre Tenaud tornò in Francia per un anno di riposo. Questo fatto, unito a un periodo in cui mancò perfino da mangiare, spinse Outhay a tornare nel suo villaggio natale. Mentre era sul punto di cedere alla disperazione, pur confidando nella Provvidenza, entrò in contatto con don Michel Kien Samophithak, il sacerdote thailandese che celebrava la Messa domenicale nella parrocchia di Kham Koem.

Nominato vicario apostolico di Tharè nel febbraio 1959, conobbe più profondamente Outhay, restando favorevolmente colpito da lui. La sua intenzione era fondare una congregazione di fratelli insegnanti e pensava che lui potesse esserne uno dei pilastri; così, l’invitò a venire a vivere in episcopio. Il giovane, che non aveva altro pensiero se non servire Dio e la Chiesa, acconsentì.

Di nuovo con padre Tenaud

Monsignor Michel Kien venne ordinato vescovo nel luglio 1959 e prese possesso del vicariato, ma nello stesso periodo tornò padre Noel Tenaud con un nuovo incarico: accettò una parrocchia pressoché inesistente, in una provincia del tutto priva di cristiani, dove quindi l’evangelizzazione non era ancora cominciata. Facendo base a Savannakhet, visitava i villaggi verso la frontiera del Vietnam, con la speranza di creare una nuova comunità cristiana. Per questo motivo, supplicò il vescovo – fino alle lacrime, faceva notare la sorella di Outhay – di cederglielo e di riprendere il lavoro di squadra con lui.
Quanto al diretto interessato, non esitò un momento a seguirlo nei suoi viaggi di evangelizzazione. Era consapevole dei rischi cui poteva andare incontro, nella situazione politica del Laos che era sempre più complicata; perciò, i suoi familiari non cercarono di dissuaderlo.

Il missionario e il catechista s’installarono a Xepone, ma avevano anche una piccola residenza nella città di Savannakhet, per trascorrervi qualche giorno di riposo e per i momenti di ritiro. Se con i sacerdoti la gente del luogo si teneva a distanza, con Outhay si apriva più facilmente.

L’ultimo viaggio

Nell’aprile 1961, padre Tenaud partì con lui e con un giovanissimo cristiano sordomuto, per girare i villaggi che gli erano stati affidati. Giunto al passaggio del campo di Seno (Xenô), i militari francesi l’avvertirono che un attacco dei nord-vietnamiti si stava preparando sulla zona che doveva raggiungere e lo sconsigliarono formalmente di proseguire. Più avanti, un pastore protestante gli confermò la brutta notizia, ma lui tirò dritto.

Dopo aver raggiunto il cuore dell’offensiva, tornò indietro, ma la strada era stata interrotta oltre Phalane, a circa cinquanta chilometri da Savannakhet. I tre viaggiatori, allora, si rifugiarono in un villaggio lungo la strada, ma furono traditi dai loro stessi ospiti e arrestati dai soldati nord-vietnamiti, che imposero loro di tornare a Phalane.

Sulla strada tra Muang Phine e Phalane, tuttavia, caddero in un’imboscata: i soldati furono uccisi, padre Tenaud ferito a una gamba, mentre Outhay fu colpito al collo. Ricondotti a Phalane, vennero curati, mentre il ragazzo sordomuto venne rimesso in libertà.

Il martirio

Dopo otto giorni, il missionario domandò all’amministrazione provvisoria stabilita nella zona di poter rientrare a Savannakhet con Outhay. Alcuni testimoni li videro uscire dall’ufficio dell’amministrazione e, da allora, non ebbero più loro notizie né arrivarono a destinazione.

Nel 1963 varie testimonianze condussero a pensare che entrambi fossero dispersi. La Società delle Missioni Estere registrò quindi la morte di padre Tenaud alla data presunta del 15 dicembre 1962. Un avviso ufficiale dell’ambasciata di Francia in Laos, datato 19 aprile 1967, retrodatò la sua uccisione al 27 aprile 1961. La ragione ultima dell’accaduto rientrava probabilmente nei tentativi da parte dei guerriglieri di sradicare il cristianesimo dal Laos: era visto come un pericolo e i missionari apparivano, di conseguenza, come “nemici del popolo”.

La causa di beatificazione

Padre Noël Tenaud e Joseph Outhay Phongphumi sono stati inseriti in un elenco di quindici tra sacerdoti, diocesani e missionari, e laici, uccisi tra Laos e Vietnam negli anni 1954-1970 e capeggiati dal sacerdote laotiano Joseph Thao Tiên. La fase diocesana del loro processo di beatificazione, ottenuto il nulla osta dalla Santa Sede il 18 gennaio 2008, si è svolta a Nantes (di cui era originario il già citato padre Jean-Baptiste Malo) dal 10 giugno 2008 al 27 febbraio 2010, supportata da una commissione storica.

A partire dalla fase romana, ovvero dal 13 ottobre 2012, la Congregazione delle Cause dei Santi ha concesso che la loro “Positio super martyrio”, consegnata nel 2014, venisse coordinata, poi studiata, congiuntamente a quella di padre Mario Borzaga, dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, e del catechista Paul Thoj Xyooj (la cui fase diocesana si era svolta a Trento).

Il decreto sul martirio e la beatificazione

Il 27 novembre 2014 la riunione dei consultori teologi si è quindi pronunciata favorevolmente circa il martirio di tutti e diciassette. Questo parere positivo è stato confermato il 2 giugno 2015 dal congresso dei cardinali e vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi, ma solo per Joseph Thao Tiên e i suoi quattordici compagni: padre Borzaga e il catechista, infatti, avevano già ottenuto la promulgazione del decreto sul martirio il 5 maggio 2015. Esattamente un mese dopo, il 5 giugno, papa Francesco autorizzava anche quello per gli altri quindici.

La beatificazione congiunta dei diciassette martiri, dopo accaniti dibattiti, è stata infine fissata a domenica 11 dicembre 2016 a Vientiane, nel Laos. A presiederla, come inviato del Santo Padre, il cardinal Orlando Quevedo, arcivescovo di Cotabato nelle Filippine e Missionario Oblato di Maria Immacolata. La loro memoria liturgica cade il 16 dicembre, anniversario del martirio di padre Jean Wauthier, Missionario Oblato di Maria Immacolata.


Autore: Emilia Flocchini



Bienheureuse MARIE-LOUISE TRICHET, vierge religieuse et cofondatrice

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Bienheureuse Marie-Louise Trichet

Religieuse française ( 1759)

Elle était née dans une famille chrétienne de Poitiers et fonda un nouvel institut religieux au service des pauvres, des aveugles et des estropiés. Elle se mit sous la direction de saint Louis Marie de Montfort et, à l'époque de "la philosophie des Lumières", elle comprit l'importance de la véritable sagesse, le Christ, Sagesse éternelle incarnée. C'est pourquoi elle donna ce nom aux religieuses de sa congrégation : les Filles de la Sagesse

Ses reliques reposent à Saint-Laurent sur Sèvre, en Vendée, où le pape Jean-Paul II vint les vénérer lors de son pèlerinage en 1996. 

La fête de Marie-Louise Trichet est célébrée le 7 Mai (jour de sa naissance). Elle est décédée le 28 avril, mais pour éviter la confusion avec la fête de saint Louis-Marie de Montfort qui est décédé lui aussi le 28 avril, Rome a décidé de placer sa fête le jour de sa naissance sur terre... et non celui de sa naissance 'au ciel' selon la tradition.

"Elle a été béatifiée en 1993. Il subsiste à l'hôpital de La Rochelle, au chevet de la chapelle tout contre son petit clocher carré, la 'chambre de la fondatrice' qui est l'humble réduit où l'on présume que Marie-Louise logeait lors de son séjour rochelais." (calendrier diocésain de La Rochelle Saintes)

À Saint-Laurent-sur-Sèvre, en 1759, la bienheureuse Marie-Louise Trichet, vierge, qui fut attirée à la vie religieuse par saint Louis-Marie Grignion et devint à Poitiers la première recrue de la Congrégation des Filles de la Sagesse, qu'elle dirigea avec prudence.
Martyrologe romain


Louis-Marie de Montfort et Marie-Louise Trichet, lors de la fondation des Filles de la Sagesse 


MARIE-LOUISE TRICHET

Religieuse, cofondatrice, Bienheureuse

1684-1759

Marie-Louise Trichet (en religion Marie-Louise de Jésus) est, avec Saint Louis-Marie Grignion de Montfort, co-fondatrice de la Congrégation des religieuses, appelées Filles de la Sagesse.
Née à Poitiers (France), le 7 mai 1684, elle est baptisée le jour même. Quatrième d'une famille de huitenfants, elle reçoit une solide éducation chrétienne dans sa famille et à l'école. A 17 ans, elle rencontre pour la première fois Louis-Marie Grignion de Montfort qui vient d'être nommé aumônier de l'hôpital de Poitiers. Sa renommée de prédicateur et de confesseur est déjà grande parmi la jeunesse de cette région du Poitou.
Spontanément, Marie-Louise offre ses services à l'hôpital: elle consacre une bonne partie de son temps aux pauvres et aux malades. Mais voilà que Louis-Marie de Montfort lui demande d'y "demeurer" . A cet appel, Marie-Louise répond par un oui total. A l'hôpital il n'y a pas de poste libre comme gouvernante... qu'à cela ne tienne, Marie-Louise se fait admettre tout simplement comme "pauvre" . Elle a 19 ans.
"Tu deviendras folle comme ce prêtre" lui avait dit sa mère. Quelle idée, quand on est belle, jeune et de bonne famille, de se vêtir d'un habit de bure grise (2 février 1703) et de passer son temps à soigner vagabonds, malades et pestiférés! Quelle folie de suivre "ce prêtre fou"!
Pendant dix ans, Marie-Louise va s'acquitter le plus parfaitement possible de son humble service de soignante. Louis-Marie de Montfort a quitté Poitiers; Marie-Louise est seule.
La célèbre croix que Montfort a dessinée est plantée au coeur de l'hôpital. Marie-Louise porte une croix sur sa bure grise, mais surtout dans son coeur. Elle doit vivre, en effet, le service épuisant de chaque jour, l'absence de compagnes, le décès de deux de ses soeurs et de son frère, jeune prêtre emporté par la peste, victime de son dévouement.
C'est le début d'une aventure qui est l'histoire même de la Congrégation des Filles de la Sagesse:
1714: Arrivée de la première compagne, Catherine Brunet.
1715: Fondation de la première communauté à La Rochelle (Charente) avec deux nouvelles recrues: Marie Régnier et Marie Valleau.
1716: Mort prématurée de Louis-Marie de Montfort à l'âge de 43 ans.
La jeune congrégation est bouleversée par cette nouvelle aussi douloureuse qu'inattendue. Marie-Louise expérimente une parole écrite par Louis-Marie de Montfort: "Si on ne hasarde quelque chose pour Dieu, on ne fait rien de grand pour Lui".
Pendant 43 ans, Marie-Louise de Jésus, seule, va former ses compagnes, conduire et développer les fondations qui se multiplient: petites écoles de charité, visites et soins des infirmes, soupe populaire pour les mendiants, gestion des grands hôpitaux maritimes de France.
Les pauvres de l'hôpital de Niort (Deux-Sèvres) l'appellent "la Bonne Mère Jésus" . C'est tout dire! Son programme de vie est tout simple: "Il faut bien que j'aime Dieu caché dans mon prochain" (Refrain d'un cantique composé par Louis-Marie de Montfort et destiné aux Filles de la Sagesse).
Quand elle meurt à Saint-Laurent-sur-Sèvre (Vendée) le 28 avril 1759, la Congrégation compte 174 religieuses réparties en 36 communautés outre la Maison-Mère. Louis-Marie de Montfort et Marie-Louise de Jésus reposent tous deux à l'église paroissiale de Saint-Laurent.
Depuis cette date, des milliers et des milliers de Filles de la Sagesse (16 883) ont puisé leur Sagesse dans la Folie de l'Amour de Dieu et des Pauvres. Aujourd'hui, plus de 2 500 poursuivent cette aventure sur les 5 continents.
Le 16 mai 1993, Marie-Louise de Jésus (Trichet) est déclarée "Bienheureuse" par le Pape Jean-Paul II, à Rome.
Le 19 septembre 1996, le Pape Jean-Paul II vient se recueillir et prier sur les tombeaux de Saint Louis-Marie de Montfort et de la Bienheureuse Marie-Louise de Jésus, à Saint-Laurent-sur-Sèvre (Vendée).
Par sa vie et par ses oeuvres, Marie-Louise de Jésus révèle un message d'une brûlante actualité : promotion intégrale de la personne humaine et service des plus pauvres, pour l'amour de Jésus-Christ-Sagesse.



Un Fondateur Une Fondatrice
Qui ne connaît cet homme passionné de la Sagesse, des pauvres, de la route et de la Parole : Saint Louis-Marie de Montfort ?

Au seuil du 17e siècle, il vient d'être nommé aumônier à l'hôpital général de Poitiers, en France, où sévît la misère sous toutes ses formes.

À la même époque, Marie-Louise Trichet, jeune poitevine, est sollicitée par un grand idéal de vie.

Elle désire ardemment  se donner à Dieu, comme Religieuse. Voilà qu’elle rencontre Montfort et lui confie son désir.

Sous le coup de l’inspiration, celui-ci lui propose de venir résider  à l’hôpital pour se mettre à l’école des pauvres.

Inattendu mystère de la grâce, Marie-Louise qui avait rêvé de solitude, de silence pour se consacrer à Dieu, en peu de temps, consentira au renversement de son premier rêve.

Malgré son jeune âge, elle quitte sa famille et se présente à l’hôpital. On lui en refuse l’entrée car, dit-on, «On a suffisamment de gouvernantes » !

Avec l’appui de l’Évêque du lieu, elle décide résolument de demander son admission à titre de pauvre. « Si on ne veut pas de moi comme gouvernante, peut-être voudra-t-on m’accepter en qualité de pauvre», dira-t-elle.

Chose faite ! Elle partagera même leur nourriture et leurs conditions de vie misérables.

Montfort est convaincu que seul un groupe de femmes au cœur compatissant pourrait rendre le milieu pitoyable de l’hôpital de Poitiers plus viable.

Il élaborera d’abord une règle et la proposera à un groupe de femmes malades et infirmes mais saines d’esprit et soucieuses de vie spirituelle.

Et Marie-Louise Trichet, quoiqu' en parfaite santé et fort jeune, figure parmi les « élues ». À leur tête, Montfort place une aveugle.

Geste à l’emporte-pièce d’un Saint qui, en toute droiture et soif d’absolu, met en valeur ce qui est sans apparence et même méprisable. Confondre la fausse sagesse du temps est au cœur d’une spiritualité naissante !

Le 2 Février 1703, Montfort offre à Marie-Louise Trichet le premier habit des Filles de la Sagesse : costume d'étoffe grossière, en tout semblable à celui des paysannes du temps.

C'est ainsi que débute l’histoire de la Congrégation des Filles de la Sagesse. Histoire qui se développera rapidement grâce au courage, à la fidélité et à l’amour d’une femme qui jamais ne se démentira.

En 1759, à la mort de la Fondatrice, tout 1'ouest de la France connaît ces femmes simples et généreuses que l’on rencontre dans plusieurs écoles, maisons de retraites (hospices) et hôpitaux.

En 1993, la première Fille de la Sagesse, Marie-Louise Trichet (Sœur Marie-Louise de Jésus),  a été proclamée Bienheureuse, par le Pape Saint Jean-Paul II.

UN CHARISME 

À la suite du Christ, Sagesse incarnée, créatrice et relationnelle, la Fille de la Sagesse est appelée à engager toutes les énergies de sa vie à contempler et à révéler la présence active de la Sagesse au cœur de notre monde et à collaborer avec Elle à transformer tout le créé, planète et humanité,  dans l’amour, la vérité, la justice et la paix.

La Fille de la Sagesse aura toujours une tendresse et une attention particulières pour ceux et celles que nos sociétés négligent et rejettent.

UNE PRESENCE INTERNATIONALE

Les Filles de la Sagesse sont à présent partout dans le monde. Elles sont plus de 2500 qui œuvrent sur les cinq continents, suivant vaillamment la route tracée par Montfort et Marie-Louise Trichet.

Elles appartiennent à la grande famille montfortaine : les Frères de Saint-Gabriel, les Pères Montfortains et leurs Associées réciproques, ainsi que les Amies de la Sagesse, ces laïcs, hommes et femmes, qui cheminent avec elles, selon la spiritualité Sagesse.


Bienheureuse Marie Louise Trichet

Les saints et la France


Béatifiée par Jean-Paul II le 16 mai 1993, Marie-Louise Trichet fut la fille spirituelle de Louis-Marie Grignion de Monfort qui la mena par des chemins d’abnégation peu ordinaires ; elle le suivit avec une totale obéissance. Si leurs tempéraments, violence et douceur, leur origine, noblesse et bourgeoisie, leur province, Bretagne et Poitou, leur culture, intellectuel formé en Sorbonne et femme d’intérieur qui quitte l’école à 14 ans, tout cela semble les opposer, en fait ils travaillèrent dans la complémentarité. Montfort connut une série d’échecs et mourut à 43 ans sans que rien n’ait pris forme. Louise Trichet fut une femme de terrain qui donna corps aux grands projets du père de son directeur spirituel. Par la douceur, dans la quotidien obscur, elle incarna les rêves du prophète en réalités durables.

Sa jeunesse à Poitiers :


              Marie-Louise est née en 1684 à Poitiers dans une famille toute imprégnée de christianisme. Son père était procureur au présidiale de cette capitale judiciaire ; elle est la quatrième d’une fratrie de sept enfants ; blonde, les yeux bleus, le visage arrondi, c’est une enfant calme et discrète qui grandit dans un foyer où il fait bon vivre, dans une pauvreté dorée car la concurrence est rude au sein de cette noblesse de robe qui ne compte pas moins de 180 procureurs pour la ville de Poitiers. Elle est spontanément pieuse : “ Dieu fera en elle de grandes choses. ” dit son père ; elle va à l’école Notre-Dame dirigée par la Compagnie Notre-Dame fondée par Jeanne de Lestonnac. La Vierge y est très honorée. Les religieuses offraient “ tout par les mains de Marie et honoraient Jésus en sa personne ”; elle apprit rapidement à lire, écrire, à manier l’aiguille mais, devant “ une maîtresse déplaisante à la physionomie méchante ”,,  elle ne peut se résoudre à entrer en classe et, fuyant le mal et l’agressivité, va toute la matinée visiter les églises de la ville. Dès 9-10 ans, elle s’adonne à l’oraison et s’inflige même des pénitences corporelles ainsi que l’époque encourageait ce mode d’ascèse. Pour ses parents, c’est une enfant qui ne cause aucun souci.

            Elle est alors témoin d’un miracle sur la personne de sa soeur aînée Jeanne qui, en pèlerinage à Notre-Dame des Ardilliers, se trouve guérie d’une paralysie ; cette même année naît sa dernière sœur Françoise –Elisabeth qui la suivra dans la vie religieuse. Elle partage avec sa sœur Elisabeth et son frère Alexis le goût  de la prière,  n’hésitant pas à aller aux messes matinales de la cathédrale saint Pierre : 5 heures l’hiver,  six heures l’été ; elle visite les pauvres pour les secourir. Alexis et Marie-Louise créent entre eux une émulation : “  Il faut que vous soyez une Scolastique et moi un Benoît. ” Elle atteint ses quinze ans et sa vocation religieuse ne fait pas de doute mais il manque la dot indispensable pour les religieuses de chœur. Entrer parmi les sœurs converses, dont le travail supplée la dot, serait une humiliation pour la famille ; elle est devenue une charmante jeune fille au regard gracieux et au sourire sympathique.

Première rencontre avec Louis-Marie Grignion de Montfort : L’hôpital de Poitiers

            En Novembre 1701, c’est la première rencontre avec Louis-Marie Grignion de Montfort auquel elle s’est confessée dans la chapelle de l’hôpital après avoir entendu son sermon dans l’église de Sainte-Austregésilde : “ Oh ma soeur, si vous saviez le beau sermon que je viens d’entendre ! Le prédicateur est un saint. ” Monsieur de Montfort  a alors 28 ans ; aumônier à l’hôpital général qui est en fait un hospice, il est venu à pied avec ses vêtements en lambeaux donnant sur la route ce qu’il possédait aux pauvres ; il réforme la distribution de l’alimentation donnant du pain  4 fois dans la journée et ajoutant une soupe ;

         Dès cette époque, il manifeste une grande facilité d’élocution qui lui ouvre les cœurs ; il confesse depuis le matin jusqu’au soir et, prophète,  déclare à Marie-Louise au confessionnal : “  C’est la Sainte Vierge qui vous a dit de venir ici.” Sa mère s’inquiète : “  J’ai appris que tu allais à confesse à ce prêtre de l’hôpital, tu deviendras folle comme lui. ” Il donne des retraites dans un langage poétique et enflammé, incite ses retraitants au jeûne. Si il admire Marie-Louise dont il a découvert la riche nature, il la traite avec la plus grande intransigeance, la mortifie en public. Sans doute, lui promet-il qu’elle sera religieuse mais pour le moment ne l’aide en aucune démarche. Il part pour Paris.

         Marie-Louise décide alors d’entrer chez les chanoinesses de Saint-Augustin comme sœur lay vouée aux humbles besognes pour pallier  au problème de la dot. On soupçonne cet ordre de jansénisme  et, sur le champ, madame Trichet retire sa fille ; celle-ci retrouve à Poitiers Louis-Marie, lui aussi de retour qui brûle de fonder la communauté des Filles de la Sagesse. Il choisit “ ce qu’il y a de plus pauvre au sein de la pauvreté : 20 pauvres filles disgraciées, ramassées dans l’enceinte de l’hôpital rassemblées dans une chambre séparée des salles de l’hôpital, lieu appelé la Sagesse. ” La supérieure est une fille pauvre et aveugle ; elles n’ont “ qu’un cœur et qu’une âme ” et Louis-Marie inscrit sur la Croix de Poitiers les onze maximes de la divine sagesse : Le vrai bonheur dans la pauvreté, dans une persécution injuste, dans le fait de porter sa croix tous les jours, dans la prière, dans l’amour des ennemis, dans la petitesse et la simplicité où la Sagesse révèle ses secrets. Marie-Louise n’appartient pas encore à cette communauté, elle se forme dans sa famille profondément et silencieusement à la pauvreté mais ni son âge, ni son milieu social, ni les dispositions de sa mère ne permettent d’envisager son entrée.

          Sur la suggestion de son confesseur qu’elle prend au mot, Marie-Louise décide d’aller demeurer à l’hôpital. L’Evêque, Monseigneur de la Poype, lui délivre  une lettre pour qu’elle puisse être reçue en qualité de pauvre ; en fait, tenant compte de sa naissance au sein d’une famille honorable de la ville, il la donne pour seconde à la supérieure. Sans doute, Montfort la destine-t-il à sa petite communauté mais “ avant de commander, il faut qu’elle apprenne à obéir. ”

          Elle ne se distingue en rien des pauvres filles, mange le même pain grossier. Montfort décide de la vêtir d’un habit de grosse étoffe, gris foncé, habit singulier, engoncé qui apparaît ridicule quand elle fait un tour par la ville. Il  bénit son habit et lui donne le nom de Marie-Louise de Jésus ; elle a 18 ans et 9 mois. Sa mère s’insurge devant cet accoutrement  bizarre mais Montfort tient bon quant à ce signe de l’état de pauvreté : “  Votre fille, madame, n’est plus à vous, elle est à Dieu. ”  Il continue d’éprouver Marie- Louise, la reprenant, la mortifiant jusqu’à lui faire servir un “ bouillon gris où les vers surnagent ”, lui imposant d’aller en ville en gros sabots plats et vêtue d’une grossière cape de drap ; la sœur Trichet s’en allait aussi au grenier pour faire une journée d’oraison sans manger ni boire.

          Quant à Montfort, il parcourait la ville avec un ânon bâté quêter la soupe des pauvres ; cette originalité fait exploser des critiques. Les retraites sont interdites par l’évêque. Louis-Marie risque d’être blessé par une broche de rouet qu’une contestataire lui jette ; finalement rejeté de Poitiers, il monte à Paris où, à l’hôpital général, il s’occupe de 5 000 pauvres. Dans son courrier à Marie-Louise, il demande ses prières et celles de ses amies pour que la divine Sagesse lui soit accordée ; ainsi, une heure tous les lundis, elle sont unies avec lui dans la même intention :“  Rien ne peut résister à vos prières. Dieu même, tout grand qu’il est, ne peut y résister. ” lui déclare Montfort.

        Une pétition est écrite avec succès par les 400 pauvres de l’hôpital pour qu’il revienne ; à son retour, ils allument un feu de joie ; cependant à l’hôpital les coteries reprennent et, de son plein gré, il quitte  l’hôpital tout en annonçant  prophétiquement à Louise-Marie : “  Ma fille, ne sortez point de cette maison de 10 ans. Quand l’établissement des Filles de la Sagesse ne se ferait qu’au bout de ce terme, Dieu serait satisfait et ses desseins sur vous seraient accomplis. ”  Nommé dans le diocèse directeur des pénitentes, il continue ses missions à Saint-Savin, Le Calvaire, Saint-Saturnin, Saint Hilaire. C’est encore trop et il reçoit une lettre  de l’évêque lui ordonnant de quitter le diocèse. Il se rend alors à Rome où Clément X1, qui le reçoit, lui enjoint de ne point partir de France et lui confère le titre de “ missionnaire apostolique. ” Il lui remet un crucifix par lui béni. Marie-Louise reste seule au service inlassable des pauvres sans guide et sans communauté officielle.

             Si son habit est critiqué, son efficacité, son humilité sont de plus en plus reconnues, elle garde le cœur ouvert aux détresses : disette, épidémie, elle fait merveille. Cette même année, elle perd successivement  sa sœur Elisabeth avec qui elle était très liée, son frère Alexis. Peu après son ordination, celui-ci s’était enfermé avec les pestiférés détenus à l’hôpital des champs non loin de la ville et, atteint par la contagion, il meurt dans ce monde coupé des vivants.

            Ses trente ans approchent ; elle projette d’entrer chez les filles de saint Vincent de Paul pour continuer d’œuvrer auprès des pauvres ; ses projets sont connus ; c’est la panique à l’hôpital où elle rend de grands services et Monseigneur intervient  pour l’empêcher d’y donner suite. Elle pense à la Congrégation des filles du Calvaire. Monsieur de Montfort lui enjoint  de demeurer patiemment à l’hôpital. Le Carmel la refuse pour raisons de santé. C’est bien à l’hôpital que Dieu la veut.

        Le zèle de Montfort est toujours redouté et, dans le petit ermitage près de Poitiers où il vient de dormir après une nuit de voyage, un avis de l’Evéché lui ordonne de quitter la ville dans les vingt quatre heures. Après avoir vu discrètement Marie-Louise, il obéit ; il hâte ses projets car il sent sa mort prochaine ; il est exténué mais son regard est plus brillant que jamais, sa voix pacifiée et il rayonne une joie lumineuse. Marie-Louise lui confie ses soucis de ces sept années ; la Sagesse est au centre de leur entretien. Marie-Louise n’a pas oublié la longue prière autrefois apprise pour demander à Dieu cette mystérieuse sagesse, elle la répète chaque jour : “  Nous vous demandons le trésor infini de votre divine sagesse par les entrailles miséricordieuses de Marie, par le sang précieux de votre très cher fils et par le désir extrême que vous avez de communiquer vos biens à vos pauvres créatures. ” Ils parlent aussi des habits gris qui pourraient se joindre à elle : deux sœurs, les sœur Brunet, dont Catherine qui sera sa principale collaboratrice, seront les premières novices. Catherine Brunet prendra le nom de Sœur de la Conception.

La Rochelle :

               Montfort est reparti reprendre ses missions et Marie-Louise dirige l’hôpital, chargée de l’administration mais plus encore attentive à l’océan des pauvres ; cependant Montfort l’a invité à se tenir prête : des écoles populaires entièrement gratuites doivent être créées dans le diocèse de La Rochelle ; des amphithéâtres étagés en neuf gradins pourraient contenir cent à cinquante enfants. Des oppositions empêchent son départ, l’hôpital, madame Trichet elle-même. Sur la prière d’une pauvre mendiante aveugle à qui l’on recommande avec insistance l’intention, la résistance de madame Trichet est enfin vaincue. L’évêque lui-même assure qu’il pourvoira au nécessaire. Marie-Louise rend ses comptes tant auprès de l’intendant de la       nourriture qu’auprès de celui des bâtiments ; ils concluent toutefois “ qu’elle a perdu l’esprit. ” L’aumônier en appelle à sa conscience et la sœur aînée de Catherine ajoute : “  Vous êtes blâmables devant Dieu et devant les hommes. ”  Pour rompre, il leur faut partir sur le champ ; des places sont arrêtées au coche et elles ressentent alors “ une joie inexprimable ”. Madame Trichet accompagne sa fille, jetant de grands cris et les larmes aux yeux.

           Après 136 kilomètres, de chambre d’auberge en chambre d’auberge, elles arrivent ; rien n’est préparé pour les recevoir. Elles trouvent provisoirement un logis. A l’instigation de Montfort, elles se font faire de longues capes noires, qui représentaient leur mort à toutes choses, pour sortir en ville. Il leur donne ses premières instructions, dénommant leur communauté “ la communauté des Filles de la Sagesse pour l’instruction des enfants et les soins des pauvres. ” Il nomme responsable Marie Trichet pour 3 ans au moins, lui recommandant d’être à la fois ferme et charitable. Surtout, il leur dit sa joie de les rencontrer : “ Quand je vous ai vues, je ne savais si je devais chanter le Magnificat ou le Te Deum. ”  Il conforte Marie-Louise dans ses fonctions de Supérieure : “ Voyez, ma fille, cette poule qui a sous ses ailes ses poussins. Avec quelle attention, avec quelle bonté elle les affectionne, c’est ainsi que vous devez faire et vous comporter avec toutes les filles dont vous allez désormais être la Mère. ”  Sa prédiction vieille de dix ans  pour l’établissement des Filles de la Sagesse est enfin réalisée et il lui dévoile qu’un jour on la demandera  à Poitiers.

           L’école ouvre à la mi-mai 1715 ; les enfants ont de 7 à 14 ans et au-dessus, issus de familles pauvres ou aisés, instruits ou pas du tout ; c’est une incroyable improvisation ; il tient tellement à la gratuité qu’il tend un piège aux sœurs pour s’assurer qu’elles ne se laisseront pas circonvenir ; cette gratuité radicale entraîne un excessif dénuement des sœurs, il leur arrive de manquer de pain. A cette vie austère, Montfort ajoute des demandes provocantes telle celle de prendre des cercueils pour lits mais le bon sens reprend bientôt le dessus et une paillasse et un matelas sur des planches clouées sur deux tréteaux remplace ces cercueils-lits.

          Dans l’ermitage de saint Eloi, Montfort continue la formation des soeurs et des postulantes, met la dernière main à la règle de la Sagesse et, une fois son travail achevé, le soumet à Sœur Trichet. La fin intérieure de la règle est l’acquisition de la Divine Sagesse, les sœurs exerceront la charité “ en soignant et en guérissant les pauvres incurables ”. Il laisse la possibilité de maintenir la supérieure en charge par une élection de trois ans en trois ans ; il conseille aussi que la supérieure se choisisse une bonne amie qui l’avertira charitablement de ses défauts et à laquelle les autres soeurs pourront facilement exposer leurs plaintes. La Sainte Vierge est la Supérieure et la Mère de toute la communauté et il met en garde contre “ les faux dévots qui, sous le manteau de la Mère, crucifient et déshonorent le Fils. ”  Ses règles, à l’épreuve du temps, se révéleront solides. 

             Les premières vocations arrivent : Soeur de la Croix, Sœur de l’Incarnation, Sœur saint Michel. L’hôpital de la Rochelle est en difficulté, deux sœurs y sont dépêchées mais Montfort reste très présent et Marie-Louise se fait vertement reprendre pour avoir décidé de sa propre initiative une vêture ; il ponctue cette première année de la Sagesse par le cadeau d’un livre qu’il dédie aux sœurs “ en ce dernier de l’an ”. S’agit-il de l’amour de la Sagesse éternelle ou du secret de Marie ? : “  Voici un livre fait pour vous… Ne vous impatientez pas de mon absence. Moins j’aurai de part à cet établissement, plus il réussira. ”  Il suit de près la vie spirituelle des sœurs mais il veut les habituer à se passer de lui.

             Montfort meurt le 28 avril ; les sœurs perdaient leur soutien matériel et spirituel, celui qui était leur phare. Monseigneur de Champflour, très affecté par la perte de celui qu’il appelait “ le meilleur prêtre de mon diocèse ” se fit plus présent. Il acheta une maison où 400 élèves purent entrer ;  33 (les 33 années de la vie du Christ) seront formées en profondeur. Ainsi se passent à La Rochelle encore deux années et demi.

De la Rochelle à Poitiers :

             Au lendemain des fêtes de Noël, changement de décor. Madame Trichet, bravant l’hiver, débarque par coche à l’hôpital et annonce  que l’hôpital de Poitiers la réclame ; elle serait dans les meilleures conditions pour y fonder un noviciat ; après que madame Trichet eut arraché le consentement de l’évêque de haute lutte, il ne restait plus qu’à liquider l’œuvre enfin florissante ; la communauté se coupe, les deux rochelaises restent provisoirement. Catherine, sœur Marie-Louise et Soeur saint Joseph partent. Comment expliquer une décision aussi rapide ? Pour Marie-Louise, Poitiers représentait son éveil spirituel, sa rencontre avec Montfort, sa réussite à l’hôpital ; elle est accueillie avec chaleur et pourra réaliser dans l’hôpital même “ l’établissement des filles de la Sagesse avec le noviciat et la formation. ” Le bureau impose dans les clauses la nomination de la supérieure par l’hôpital et le don à celui-ci de la moitié de la dot des novices ; pour la congrégation, c’est une impasse car la Sagesse serait fixée sous la double dépendance des finances et du pouvoir. Marie-Louise tient bon face à ses exigences.

Saint Laurent sur Sèvre :

          Un disciple de Monfort lui suggère alors Saint Laurent sur Sèvre, lieu de la mort du Père de Montfort et de son tombeau. Madame de Bouillé qui avait été guérie par la prière de Montfort et qui habite au château de la Machefolière à Saint-Laurent sur Sèvre se propose d’aider la cause de la Sagesse. C’est un trait de lumière dans le gouffre noir où se débat Marie-Louise. Elle monte dans sa chambre pour demander au Saint-Esprit son inspiration et a la réponse que son cœur désirait. Madame de Bouillé était la fille de l’ancien maire de Poitiers, elle présente sa requête à Monseigneur qui finit par donner son consentement ; le marquis de Magnanne, veuf, fort de 30 000 livres de rente s’est joint au projet ; la paroisse prend l’engagement d’accueillir les Filles de la Sagesse pour enseigner gratuitement les petites fille et soigner les pauvres malades : “ une maison est achetée, une petite chapelle va être bâtie. ”

            Là encore, des ordres sont donnés pour empêcher son départ de l’hôpital, elle était si nécessaire :  “ des gardes sont mis à toutes les portes pour l’empêcher d’en sortir ”. L’intendant l’envoie chercher : “  De la part du roi, je vous défends de sortir de cet hôpital. ”. Le convoyeur envoyé pour guider Marie-Louise dans son premier voyage à cheval piaffe pour précipiter le départ. Elle argue qu’il s’agit de la gloire de Dieu et part enfin seule, laissant les deux sœurs, à cheval , à travers les champs à perte de vue, avec son guide ; elle traverse le Poitou et le bocage, 117 kilomètres de sentiers rocailleux.

               Au bout de la route, lui apparaît enfin le village où elle vient pour semer et faire croître un grand arbre dont elle n’imagine pas le faîte et l’envergure. La maison achetée se révèle une vielle maison composée de plusieurs galetas et masures sans meubles, ni linge ; les lits avaient plutôt l’air de lits de camp avec des draps et une couverture faite de plusieurs morceaux d’étoffe ; les bancs étaient quelques tisons de fagots, des écuelles et assiettes de grosse terre, des fourchettes et cuillères de bois et de pauvres lumignons complétaient l’ameublement. Le gros morceau de pain noir servi au terme du voyage était aussi difficile à mâcher qu’à avaler et digérer. ces inconvénients continueront plusieurs années.

           Catherine Brunet (sœur de la Conception), sœur saint-Joseph et la propre sœur de Marie-Louise, Françoise Trichet, les rejoignent. Françoise prendra l’habit sous le nom de Sœur Séraphique ;  “ dans la maison longue ”, on improvise des lits, des tables, des sièges il y a donc trois professes et une novice ; un petit oratoire est installé dans un galetas décoré d’images en papier, une cloche sonne les exercices depuis le lever à 4 heures jusqu’au coucher à 9 heures. Dans la maison rudimentaire, glaciale ou torride, la vie austère s’instaure. Elle sont soutenues par l’abbé Triault qui se sentait “ réservé par Dieu pour aider et soutenir les Filles de la Sagesse. ”

            Soeur Marie-Louise veut faire de ce lieu une communauté fondatrice, un établissement de fondation. Seules, deux soeurs pour visiter les malades et pour y faire l’école sont attachées à la maison. Sous l’impulsion de Marie-Louise  le rayonnement et l’essor des Filles de la Sagesse s’étend. Elle se consacre aux fondations dans la ligne prévue par Louis-Marie de Montfort : hôpitaux, écoles, maisons de charité ; la plupart des maisons de charité seront fondées avec deux sœurs seulement au lieu de trois nécessaires pour un rythme humain.

           Marie-Louise est essentiellement maîtresse de novices qu’elle traite comme des plants tendres qui ne font encore que d’être transplantées et qui se sentent encore dans la terre du monde, dont elle ne font que d’être tirées. Elle est attentive à ne pas devancer l’action de la grâce mais se défie des fausses mystiques. Avec un discernement charismatique, elle dit à l’une ou l’autre :

“- Pensez que vous n’avez rien de plus à craindre que vous-même.
– J’ai expérimenté que j’ai toujours plus gagné par la patience et la douceur que je n’aurais fait autrement.
– Vive Jésus, vive sa Croix, ma très chère fille, souvenez vous du beau nom que vous portez qui est celui du Calvaire. Vous ne devriez pas être un moment sans être ornée de la chère Croix et vous devriez en faire tous les jours vos plus chers délices.
– Le courage avec lequel vous soutenez l’épreuve vous assure par avance un degré distingué de mérite et de gloire. ”
          Dix ans avant sa mort, elle nomme une maîtresse spéciale des novices et la guidera dans ses fonctions de “ première maîtresse ” tout en gardant humblement l’emploi de “ seconde maîtresse ” . Elle poursuit en même temps à cadence accélérée les fondations multiples qui nécessitent de longs voyages.

          A Rennes, en 1724, une maison est reprise qui devient une école modèle accueillant des orphelines pensionnaires. La Rochelle pose problème : Les deux rocheloises étaient rentrées dans leur famille, l’une vêtue d’un pauvre habillement faisait l’école aux petites filles c’était une fondation tout à fait indépendante, spontanée, qui pouvait devenir “ schismatique. ” Après avoir emprunté 10 écus, sœur Trichet chevauche vers la Rochelle, rencontre les sœurs  comme si de rien n’était, loue l’arrangement du couvent, le nombre des soeurs et, par la douceur, en deux mois, gagne le cœur et l’esprit des Filles de La Sagesse qui ne peuvent porter ce nom sans être unies à celles de saint-Laurent. La prise en charge de l’hôpital a lieu sur de nouvelles bases. Catherine Brunet et un missionnaire de monsieur de Montfort font de cet hôpital un modèle qui sera propagé à Niort, Saint-Lô, Valognes. A L’ile de Ré, deux sœurs s’occupent de l’éducation et des pauvres.

        Épuisée, Marie-Louise, tombe malade. A peine remise, c’est la nouvelle de la mort de Catherine Brunet à la Rochelle. La fondation de Niort se révèle pleine d’embûches, elle fut appelée “ le tombeau des Filles de la Sagesse ” tant il y a de décès. Pour la première fois, un hôpital masculin est pris en charge : l’hôpital du chateau d’Oléron laissées par les filles de Monsieur Vincent ; les filles de la Sagesse  soignent les jeunes recrues parties pour les guerres coloniales et victimes du scorbut et font bien des conversions ; après la mort de Marie-Louise, de grands hôpitaux maritimes seront pris en charge , Brest, Cherbourg, Toulon.

        Sa santé subit toujours des chocs sévères mais, suivant la prophétie de monsieur de Montfort, elle devait fonder l’hôpital de Poitiers avant sa mort ; cela ne se fera qu’en 1748 ; l’asile des pénitentes, l’asile des incurables s’y adjoindront. Une autre série de chantiers concernait les petites communautés dans les villes ou villages où deux sœurs assuraient un labeur écrasant. Grâce à la disposition de l’école en gradins, une seule sœur assurait l’instruction d’une soixantaine d’élèves de 7 à 15 ans, 5 heures par jour, arrachant les enfants aux ténèbres de l’ignorance scolaire et religieuse. Les patentes épiscopales ou royales établissaient juridiquement chaque maison. Du vivant de Marie- Louise, le cap fut franchi de plus de 100 sœurs et de 30 fondations.

Ses dernières années :

             A la fin des années 1740, elle est obligée de partager ses responsabilités nommant une maîtresse des novices, soeur Honorée, et une assistance générale, sœur Florence, âgée de 40 ans, d’une grande fraîcheur d’esprit ; elle visite les fondations de Vendée, du Poitou, d’Aunis, de Saintonge.

             Au seuil de ses 67 ans, elle sent l’usure ; lors d’un dernier voyage, elle part à cheval par les mauvais chemins visiter les 18 communautés pendant 4 mois ; ce sera son dernier périple. Elle agit alors par son rayonnement, ses lettres courtes et simples. Elle dirige de loin. A Saint-Laurent, elle est présente au noviciat, forme les institutrices et enseigne la pharmacie. Elle vit de la présence de Marie réfère tout à Montfort et surtout à Dieu. Elle va jusqu’à se choisir une sœur qui la commande en ce qui concerne sa conduite personnelle et continue l’effrayante rigueur d’ascèse qui était celle de Montfort et des personnes ferventes de son temps à base de disciplines ou autres instruments de pénitence. Par cet abandon, elle recherche la Sagesse, c’est-à-dire Jésus-Christ, le Verbe incarné.

         En 1755, commence une grande épreuve : une coterie se forme qui se veut rénovatrice, on ironise sur ses initiatives qui étaient le sel de la maison. A-t-elle encore son bon sens ?  Marie-Louise en  souffre beaucoup : “ Quand je vois cette pauvre maison, cela me fait saigner le cœur. ”  Le nouveau supérieur général élu, le Père Besnard, lui-même, la fait mettre à genoux en pleine assemblée pour lui faire réprimande pour une chose qu’elle n’a pas commise. Il finit par connaître les complots iniques formés contre elle. La paix bannie depuis près de deux ans revient enfin.

        Elle confie à son père spirituel la voie où Dieu la conduit. Elle se veut victime du silence, (adorer le silence de Dieu qu’il a gardé pendant une éternité et le silence de Jésus au Saint-Sacrement,) victime de l’obéissance, victime de la Croix intérieure et extérieure : “ Mon père, traitez-moi comme la dernière des novices, mais une novice qui a un besoin infinie d’être éprouvée en tout : point de ménagement, s’il vous plaît, agissez à mon égard comme Dieu vous l’inspirera. ” Le père Besnard collabore à l’achèvement des constitutions ; elles sont prêtes pour la retraite de l’été 1758. Elle devient la doyenne de la Congrégation et soupire : “ Oh, ma chère Sagesse, pourquoi me laissez vous languir si longtemps sur la terre ? ”

          Le 4 décembre, c’est l’accident : en sortant de sa chambre, elle heurte du pied un morceau de bois, tombe et se démonte l’épaule ; alors que 5 ou  6 personnes doivent la tenir, l’os déboité est remis dans la rotule par le chirurgien. Elle choisit elle-même, pour la soigner, une novice dont elle connaissait le peu d’habileté et de vigilance mais c’est une escalade de douleur et Marie-Louise avoue : “ Mon bon Jésus me favorise de sa Croix. ”  Elle n’est plus occupée que de la pensée de l’éternité et du désir de voir son Dieu.

           Elle commence à circuler de sa chambre à la chapelle et célèbre dans cet état Pâques, le 15 avril ; quelques jours après elle ressent un point de côté une fièvre très violente, elle reçoit le viatique. Elle est déjà toute à son bien-aimé Jésus ; les colloques se poursuivent avec Jésus, Marie, le Père de Montfort :

“ Venez donc , mon cher Jésus, paradis de mon âme,
Ma chère bonne Mère, ma bonne Marie tant aimée ! Ce n’est pas moi qui suis la supérieure de cette maison, c’est vous !
Cher Père de Montfort, je suis une de vos filles, j’irai vous voir sous peu…J’ai toujours désiré mourir entre Jésus et Marie.”
      Elle trace le signe de Croix avec la statue de la Vierge sur le cercle de ses filles agenouillées et murmurant, Mon Seigneur et mon Dieu, elle meurt à 8 heures du soir, le même mois, le même jour, à la même heure, dans le même lieu que Montfort et tenant dans ses mains la même statue de la Vierge, 43 ans après lui qui était mort à 43 ans. Elle a presque 75 ans, le deuil est général. Elle est ensevelie à côté du fondateur.

        On attendit la canonisation du Père de Montfort pour engager la cause de Mère Marie-Louise : après une guérison exceptionnelle instantanée, complète, définitive, inexplicable scientifiquement de Sœur Rosa de la Sagesse entrée chez les Filles de la Sagesse à Saint-Laurent-sur-Sèvre. Deux neuvaines de prières avaient été effectuées selon les intentions des soeurs et  de la malade. L’authenticité du miracle est reconnu et elle est béatifiée le 16 mai 1993.

 

Epilogue :

                 Ce n’est pas par hasard que Montfort a voulu très vite cette communauté féminine et qu’il lui a donné le nom qui incarne son intuition primordiale. Montfort, s’appuyant sur le livre de la Sagesse, le moins commenté de la Bible, considère la Sagesse comme un secret à découvrir, un mystère, un idéal inaccessible. Il perçoit que la sagesse désigne Jésus-Christ, verbe incarné. C’est plus précisément la sagesse incarnée et crucifiée que le signe de la Croix manifeste jusqu’au bout dans le prolongement de l’Incarnation réalisée par Marie.

            Le point commun de ces deux signes, c’est l’engagement de l’amour de Dieu pour le salut des hommes. Ce qui caractérise cet engagement et cet amour c’est qu’il est folie d’après le chapitre 1 de l’Épître aux Corinthiens ; cette Sagesse contredit celle du monde, parce qu’elle est l’expression de l’amour seul. Le propre de l’amour, c’est de se donner, c’est de se perdre. Cette doctrine est extrêmement concrète ; c’est ce qu’il a cherché à incarner en vivant comme un pauvre parmi les pauvres. C’est cette effrayante, radicale mais évangélique spiritualité que Marie- Louise a voulu vivre depuis la rencontre de ses 17 ans par son insertion parmi les pauvres et par son ascèse corporelle et spirituelle. Elle a laissé la place totale à Dieu seul, à l’amour unifiant qu’est Dieu.

            Montfort l’a incarné prophétiquement de manière souvent provocante, inacceptable pour le monde et l’établissement ecclésiastique. Marie-Louise a su le vivre avec discrétion, modestie, sagesse, rondeur qui contraste avec l’anguleux Montfort au physique comme au spirituel. Il est mort sans avoir réalisé vraiment aucune fondation, c’est Marie-Louise qui, en tâtonnant, a trouvé le lieu providentiel de la fondation, qui l’a réalisée avec un vécu terriblement dépouillé.

             L’homme exerce des pouvoirs bâtisseurs, la femme les incarne dans la durée intérieure, en assure la continuité : c’est en ce sens que le bienheureuse Marie-Louise Trichet fut cofondatrice de la Sagesse. C’est cette vie rayonnante et efficiente que reconnaît sa béatification. Montfort a été le grain qui meurt ; Marie- Louise l’a fait fructifier 10 pour 1. Elle est le vécu intégral du don de soi à Dieu et aux hommes.         



BEATIFICAZIONE DI UN MARTIRE MISSIONARIO 
E DI TRE RELIGIOSE APOSTOLE DELL’AMORE DI CRISTO


OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica Vaticana - Domenica, 16 maggio 1993


“Acclamate a Dio da tutta la terra” (Sal 66, 1).

1. Il salmo responsoriale dell’odierna liturgia costituisce un gioioso invito alla lode. Dice il Salmista: “Venite e vedete le opere di Dio, mirabile nel suo agire sugli uomini” (Sal 66, 5). Il riferimento è anzitutto all’esodo: la liberazione del popolo eletto dalla schiavitù d’Egitto e l’intervento salvifico operato in suo favore nel passaggio del Mar Rosso.

Si tratta di un motivo tipicamente pasquale. Dalla Pasqua dell’antica Alleanza la liturgia passa all’Alleanza nuova stipulata nel sangue di Cristo: “Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio” (1 Pt 3, 18). Ecco, Fratelli e Sorelle, il nuovo “esodo”, così come lo presenta l’apostolo Pietro, che esclama: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori” (1 Pt 3, 18). In questo tempo pasquale giunge a noi rinnovato e insistente l’annuncio di Pietro, primo tra i testimoni del Mistero pasquale di Cristo.

2. In questo medesimo Tempo, la liturgia torna frequentemente anche alle parole pronunciate da Cristo alla vigilia della sua morte in Croce. Parole pre-pasquali, che la Chiesa rilegge nella luce della Pasqua. Prima della morte e risurrezione di Cristo, esse erano annuncio e promessa. Ora, dopo la Pasqua, la Comunità dei credenti – come narrano gli Atti degli Apostoli – riconosce la realtà della salvezza: le promesse si sono adempiute. Ecco il tempo per gioire delle parole prima ascoltate e custodite nella memoria degli apostoli e dei discepoli del Risorto. Quant’è mirabile il modo in cui esse si sono verificate! Cristo assicura ai suoi: “Non vi lascerò orfani, ritornerò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (Gv 14, 18-19).
Io vivo, perché sono nel Padre mio; anche voi vivrete, perché siete in me e io in voi (Gv 14, 20).

3. Durante il tempo di Pasqua, in modo particolare, la Chiesa intera è chiamata a riconoscere e sperimentare le opere mirabili che Dio compie tra gli uomini (Sal 66, 5), specialmente in coloro che “amano Cristo” in maniera eroica accogliendo senza riserve i suoi comandamenti e osservandoli fino in fondo (cf. Gv 14, 21). Dio stesso ama questi suoi figli con singolare predilezione, e viene a loro: il Padre e il Figlio prendono dimora in essi mediante lo Spirito Santo. A quanti sono stati pienamente disponibili alla sua parola, il Figlio ha rivelato se stesso e il Padre, poiché ama con un amore particolare coloro che lo amano.

Oggi, carissimi Fratelli e Sorelle, la Chiesa ha la gioia di proclamare “beati” quattro di questi discepoli, così disponibili alla parola del Signore da ricevere in se stessi la pienezza dell’amore del Padre e del Figlio.

Ecco i loro nomi: Maurice Tornay, Marie-Louise de Jésus Trichet, Colomba Gabriel, Florida Cevoli. Essi provengono da vari Paesi, da diversi popoli. Davvero in essi e per essi “tutta la terra acclama il Signore” (cf. Sal 66. 1).

4. Pour répondre généreusement à l’appel de Dieu, Maurice Tornay découvre qu’“ il faut aller jusqu’au bout ”, vivre l’amour héroïquement. L’amour de Dieu n’éloigne pas des hommes. Il pousse à la mission. Dans l’esprit de sainte Thérèse de Lisieux, Maurice Tornay n’a qu’un désir: “ Conduire les âmes à Dieu ”. Dans l’esprit de son Ordre, où chacun risque sa vie pour arracher des hommes à la tempête, il demande à partir au Tibet pour gagner des hommes au Christ.

Il commence par se faire Tibétain avec les Tibétains: il aime ce pays, qui devient sa seconde patrie; il s’attache à en apprendre la langue, afin de mieux communiquer le Christ. Comme le bon Berger qui donne sa vie pour ses brebis, Maurice Tornay aime son peuple, au point de ne jamais vouloir l’abandonner.

Frères et Sœurs, implorons l’Esprit Saint. L’Église et le monde ont besoin de familles qui, comme la famille Tornay, soient des creusets où les parents transmettent à leurs enfants les appels du Christ à la vie chrétienne, sacerdotale ou religieuse. Rendons grâce pour les germes d’espérance dans la terre d’Asie. La mission et la passion du Père Tornay, et de ses prédécesseurs des Missions étrangères de Paris et des Chanoines du Grand Saint–Bernard, portent des fruits, silencieusement, dans la lente maturation. On ne peut que se réjouir du dialogue respectueux entre les moines tibétains et les moines catholiques, pour découvrir Celui qui est la voie, la vérité et la vie. Des vocations se lèvent, comme en témoigne l’ordination récente d’un élève du bienheureux; des chrétiens poursuivront l’œuvre du Père Tornay qui souhaitait instruire les enfants et les conduire à la sainteté; car seule une vie sainte mérite d’être vécue.

5. L’Évangile nous a fait entendre les paroles de Jésus: “ Si quelqu’un m’aime, il gardera ma parole ”.  Garder la parole du Christ, Sagesse éternelle de Dieu, rester fidèle à ses commandements, c’est apprendre, comme l’a fait Mère Marie–Louise Trichetà l’école de saint Louis–Marie Grignion de Montfort, à méditer la richesse infinie de sa présence et de son action dans le monde.

Marie–Louise de Jésus s’est laissée saisir par le Christ, elle qui a recherché passionnément l’alliance intérieure de la sagesse humaine avec la Sagesse éternelle. Et le déploiement naturel de ce lien d’intimité profonde, ce fut une action passionnément dévouée aux plus pauvres de ses contemporains. L’adoration de la Sagesse du Père, incarnée dans le Fils, porte toujours à servir quotidiennement ceux qui n’ont rien pour plaire aux yeux des hommes, mais qui demeurent très chers au regard de Dieu.

Ce matin, Frères et Sœurs, rendons grâce au Seigneur pour la fondation de la grande famille religieuse des Filles de la Sagesse, fruit de la sainteté personnelle de saint Louis–Marie et de la bienheureuse Marie–Louise de Jésus. Leur éminente charité, leur esprit de service, leur aptitude à conserver, comme la Vierge Marie, “ toutes choses en leur cœur ”,  nous sont désormais données en exemple et en partage.

6. Quando una persona si rende disponibile interamente al soffio dell’amore di Dio, viene coinvolta in una “avventura” spirituale, che sfugge ad ogni umana previsione. La sua anima come vela s’apre al vento dello Spirito e Dio può spingerla secondo gli imperscrutabili disegni della sua provvidenziale Misericordia.

Così è stato per Madre Colomba Gabriel, che già dalla prima adolescenza pronunciò il suo “sì” pieno e sincero a Cristo, decisa a “non anteporre nulla al suo amore”, secondo, l’insegnamento del grande Padre Benedetto. Lo Spirito Santo, attraverso la via della sofferenza, la distaccò dalla terra d’origine, la condusse a lasciare tutto e a ricominciare da capo. In lei, infatti, il Signore aveva posto un carisma speciale: il dono dell’apostolato attivo della carità, da innestare sul tronco contemplativo della regola benedettina.

Com’è attuale, Madre Colomba, la missione da te vissuta e trasmessa alle tue Figlie! Oggi più che mai le nuove generazioni hanno bisogno di guide che siano testimoni fedeli di Dio: esse vanno alla ricerca di persone che chiamino alla vita con la voce del Cristo vivente. I giovani domandano – magari in modo implicito – educatori veri, animati da un profondo senso di maternità e paternità spirituale, né possessiva né dimissionaria, ma liberante con la forza della verità e dell’amore, con quella forza dolcissima che Dio solo può donare.

7. Un profondo desiderio di piena conformazione alla volontà di Dio caratterizzò anche l’intera vita di consacrazione della Beata Florida Cevoli, formata alla scuola spirituale di Santa Veronica Giuliani. Animata dallo Spirito di Verità, che conduce i credenti ad interiorizzare la Parola di Dio trasformando e santificando dall’interno la loro esistenza, la nuova Beata, nel suo ufficio di Abbadessa, seppe vivere con stile evangelico il suo compito, come vera serva delle Consorelle. Con l’esempio trascinò l’Ordine delle Clarisse Cappuccine alla generosa osservanza della regola francescana, in modo speciale per quel che riguarda la povertà, l’austerità e la semplicità della vita.

La riservatezza della clausura e il desiderio del raccoglimento in Dio non le impedirono tuttavia di accogliere e condividere i problemi della società circostante. L’intimità spirituale rese anzi maggiormente convinto ed efficace il suo interessamento, come testimonia sia la corrispondenza che tenne con alcuni personaggi influenti del suo tempo, sia l’autorevole mediazione da lei offerta per la pacificazione della popolazione di Città di Castello.

L’espressione “Iesus amor, fiat voluntas tua”, con cui costantemente iniziavano le sue lettere, ben riassume il senso profondo dell’intera sua esistenza, totalmente orientata all’amore di Gesù crocifisso e al servizio dei fratelli.

8. “Tutta la terra acclama il Signore”. Oggi, carissimi, una grande gioia si diffonde in questa Città, nella Roma di Pietro e di Paolo, e si espande fino alle regioni e ai Paesi d’origine dei Beati, da cui essi sono entrati nel mistero della Comunione dei Santi.

Ecco, essi hanno adorato il Signore, Cristo, nei loro cuori (1 Pt 3, 15). Nella potenza di Cristo, sono stati sempre pronti a rispondere a chiunque ha domandato ragione della speranza che era in loro (1 Pt 3, 15), della speranza che tutti ci unisce in quanto popolo messianico della Nuova ed Eterna Alleanza.

Siate benedetti, Fratelli e Sorelle, oggi proclamati Beati, per la gioia pasquale dell’odierna domenica. Voi avete dato questa grande gioia alla Chiesa mediante la testimonianza della vostra vita. Cristo ha vissuto in voi. Per vostro mezzo, Cristo viene oggi a noi e ci ripete: “Non vi lascerò orfani” (Gv 14, 18).

Vieni, Signore Gesù, e resta con noi!

© Copyright 1993 - Libreria Editrice Vaticana


Beata Maria Luisa di Gesù Trichet Cofondatrice


Poitiers, Francia, 7 maggio 1684 – Saint-Laurent-sur-Sèvre, Vandea, 28 aprile 1759

La beata francese Maria Luisa di Gesù Trichet, suora professa cofondatrice della Congregazione delle Figlie della Sapienza, fu primo membro dell'ordine e poi superiora generale. Giovanni Paolo II la beatificò il 16 maggio 1993.

Martirologio Romano: Nel villaggio di Saint-Laurent-sur-Sèvre in Francia, beata Maria Luisa di Gesù Trichet, vergine, che vestì come prima associata l’abito della Congregazione delle Figlie della Sapienza, che governò con saggezza. 

Se il santo fondatore delle “Figlie della Sapienza”, Luigi Maria Grignion di Montfort, fu l’artefice della costituzione della Congregazione, in cui profuse il suo carisma, la beata Maria Luisa di Gesù Trichet, ne fu la reale organizzatrice e autentica cofondatrice, perché resse da sola per 43 anni, la responsabilità e la diffusione della benemerita Istituzione religiosa. 

Maria Luisa Trichet, nacque a Poitiers in Francia, il 7 maggio 1684, quarta degli otto figli di Giuliano Trichet procuratore e Francesca Lecoq, genitori di grande fede, rettitudine e bontà. 

In famiglia ricevette una solida educazione cristiana e culturale; a sette anni fu mandata dai genitori come alunna esterna, alla scuola retta dalle Figlie di Notre Dame a Poitiers, dove rimase fino ai 13 anni, ricevendo l’istruzione primaria per le ragazze di quel tempo; dalle suore acquisì una profonda devozione alla Madonna e una sensibilità caritativa. 

A 17 anni, Maria Luisa Trichet incontrò il futuro santo, padre Luigi Maria Grignion di Montfort (1673-1716), fondatore nel 1705 dei Sacerdoti Missionari della Compagnia di Maria, che allora era cappellano dell’Ospedale Generale di Poitiers. 

Fu un incontro di particolare grazia spirituale per Maria Luisa e che sarà determinante per il futuro della sua vita; padre Grignion divenne il suo confessore e visto la naturale disposizione della giovane a consacrarsi a Dio, le propose nel frattempo, di entrare immediatamente al servizio dell’ospedale. 

Superando le difficoltà frapposte dai genitori, Maria Luisa riuscì a farsi ammettere come aiutante della superiora delle suore; nel 1702, sempre più desiderosa di farsi religiosa, fece una breve esperienza fra le Canonichesse di Sant’Agostino a Chatellerault, uscendone però per motivi di salute. 
Ritornata a Poitiers, riprese ad essere guidata da padre Luigi Grignion di Montfort, il quale aveva in animo di fondare una Congregazione religiosa femminile, e ispirato, vedeva in Maria Luisa la persona basilare della nuova comunità. 

Ma i tempi non sembravano ancora maturi, per cui non ne parlava alla giovane, rassicurandola soltanto che sarebbe stata una religiosa. 

Ma col trascorrere del tempo, Maria Luisa avvertiva insistentemente il desiderio di entrare in convento e ripetutamente lo chiedeva al confessore. Padre Luigi Maria, acconsentendo alla fine, quasi per scherzo le disse: “Vieni a vivere in Ospedale”; era una proposta sconcertante, difficile e inconcepibile a quel tempo, specie per lei, figlia della ricca borghesia. 

Maria Luisa non si fece troppi scrupoli e decise di aderire a quell’invito, solo che le difficoltà sorsero dall’amministrazione dell’ospedale, che non poteva assumere altre governanti; allora lei con gesto coraggioso, si rivolse al vescovo per una lettera di presentazione, utile per entrare nell’ospedale in “qualità di povera”, e per servire i poveri. 

Con questo stratagemma, nel gennaio 1703 entrò all’Ospedale di Poitiers, accolta dal cappellano Montfort, che la introdusse nel cenacolo “Sapienza”, un’associazione da lui creata, che comprendeva una dozzina di povere ricoverate molto virtuose, che vivevano la spiritualità della Sapienza, tema trattato con amore dal Montfort. 

E lì, in quell’ambiente di miseria e di difficoltà per lei, Maria Luisa Trichet, si preparò, guidata dal cappellano, nella preghiera e al servizio della carità, alla missione di cofondatrice preparata per lei. 

Il 2 febbraio 1703, ricevette come prima suora, l’abito della nuova Istituzione, le “Figlie della Sapienza”, l’abito era di grossolana stoffa grigia, con l’aggiunta di due importanti elementi, il crocifisso sul petto e la corona di grossi grani al fianco, per non dimenticare mai Gesù e Maria. 

Modificò altresì il suo nome in Maria Ludovica di Gesù; quell’abito della nascente Congregazione, lo portò da sola per 10 anni, senza una compagna; furono anni di duro lavoro, di costante adesione alla volontà di Dio, spesso non chiara, vissuta però sempre con viva fede, superando difficoltà ed ostacoli enormi. 

Furono dieci anni di solitudine, di attesa e d’incertezza, dove lavorava con zelo e gesti di carità, ostacolata dalle gelose governanti e dal 1705, privata anche dell’aiuto del Fondatore, che dovette lasciare l’Ospedale a causa di intrighi. Maria Luisa di Gesù, ebbe la consolazione di una compagna solo nel 1714, con la venuta di Caterina Brunet (Suora della Concezione). 

Un anno dopo, nel 1715, dietro insistenza del Montfort, Maria Luisa lasciò per sempre Poitiers e si trasferì con la consorella Caterina Brunet, a La Rochelle, per fondare una scuola per ragazze; e a La Rochelle, sorse la prima comunità delle Figlie della Sapienza, con l’aggiunta di due nuove aderenti Maria Regnier (Suora della Croce) e Maria Valleau (Suora dell’Incarnazione). 

Nel frattempo il fondatore, dopo aver consultato suor Maria Luisa, compose la Regola della Congregazione, fatta approvare dal vescovo diocesano, il 10 agosto 1715. 

Ma l’ancor giovane Fondatore Grignion di Montfort, ad appena 43 anni, morì il 28 aprile 1716, lasciando madre Maria Luisa sola responsabile della nascente Congregazione e del suo sviluppo. 

Nel 1719, la superiora lasciò La Rochelle, cercando di fondare una Casa madre nella sua città natale di Poitiers, ma il tentativo fallì, allora si trasferì a Saint-Laurent-sur-Sèvre in Vandea, sempre con l’intento di fondare la Casa Madre e il Noviziato. 

Non mancarono difficoltà da affrontare, ma con coraggio le superò tutte e nel giugno 1720, riuscì finalmente a formare una piccola comunità, nella cosiddetta “Maison longue”, riuscendo man mano a trasformare la fragile comunità iniziale, in una fiorente congregazione. 

Infatti due anni dopo, il 16 dicembre 1722, furono ammesse a professare i voti quattro novizie, nel contempo venivano aperte altre Case. 

Nei 23 anni, dal 1725 al 1748, la cofondatrice si impegnò in prima persona, in tutta una serie di fondazioni di Case, con lo scopo primario di servizio ai più poveri; che ricordava con l’esempio alle sue suore, che l’imitavano a loro volta nello zelo. 

Non si può non ricordare la casa di Niort, fondata nel 1729, dove compì atti di eroismo e di carità, tali da essere denominata spontaneamente dai derelitti, “Madre-Gesù”; anche le sue suore si prodigarono per quei poverissimi, sino a dare la vita stessa; parecchie di loro morirono di stenti, tanto che fu detto: “Niort, tomba delle Figlie della Sapienza”. 

Madre Maria Luisa di Gesù, governò da sola la Congregazione per 43 anni, fondò una trentina di Case, che si svilupparono e moltiplicarono dopo la sua morte; piccole comunità di suore, per l’educazione dei bambini poveri, visite e cura degli ammalati, mensa per i mendicanti, assistenza ai poveri reclusi. 

Assisterono e curarono nell’Isola di Oléron, soldati e marinai ammalati,; per queste impegnative esperienze, le Figlie della Sapienza ebbero affidato il governo di grandi ospedali marittimi della Francia, seguendo il motto della fondatrice “Bisogna che ami Dio nascosto nel tuo prossimo!”. 

Non mancarono a lei, le sofferenze delle incomprensioni, anche fra le stesse sue figlie spirituali; affrontò la prova con un vero amore della Croce. 

La sua instancabile quarantennale opera, fu sempre appoggiata dai successori di Grignion di Montfort, i superiori dei Missionari della Compagnia di Maria (Monfortani), a cui è affidata la direzione spirituale delle suore. 

Incredibilmente, madre Maria Luisa di Gesù Trichet, morì nello stesso luogo, mese, giorno ed ora, della scomparsa del Fondatore, il 28 aprile 1759, a Saint-Laurent-sur Sèvre, a 75 anni, dei quali circa 60 trascorsi al servizio di Dio e per i fratelli sofferenti. 

E nella chiesa parrocchiale di Saint Laurent, fu sepolta accanto alla tomba del fondatore e da subito si diffuse la fama della sua santità. 

Negli anni della Rivoluzione Francese, l’orda rivoluzionaria travolse una cinquantina di Figlie della Sapienza; il numero delle suore si assottigliò, riprendendosi solamente nell’Ottocento, quando le attività rifiorirono e l’assistenza riprese sempre più vasta, scrivendo delle belle pagine nella storia religiosa della Francia. 

La Congregazione delle “Figlie della Sapienza”, fu approvata nel 1853 da papa Pio IX e confermata da Pio X nel 1904. Nel 1964, la Congregazione raggiunse i 5000 membri, con un’attività estesa nei 5 continenti, in una trentina di Paesi; negli anni successivi il calo di numero delle suore europee, è stato rimpiazzato con fresche leve venute dal Terzo Mondo. 

Madre Maria Luisa di Gesù Trichet, è stata proclamata Beata da papa Giovanni Paolo II, il 16 maggio 1993 a Roma.

La sua festa liturgica è il 28 aprile mentre la Congregazione delle Figlie della Sapienza la ricorda il 7 maggio. 


Autore: Antonio Borrelli



Marie Louise of Jesus. Jesus living in Mary: Handbook of the spirituality of St. Louis de Montfort : http://www.ewtn.com/library/Montfort/Handbook/Marloui.htm

Bienheureuse HANNA CHRZANOWSKA, infirmière et oblate bénédictine

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Bienheureuse Hanna Chrzanowska
Infirmière polonaise ( 1973)

Anna Chrzanowska (1902 - 1973), oblate ursuline polonaise.

Promulgation du décret relatif aux vertus héroïques, décret du 1er octobre 2015 (en italien).

Fille d'un professeur d'université née le 7 octobre 1902 dans une famille industrielle charitable et religieuse (catholique et protestante), elle fait ses études dans une école des Ursulines et aide à prendre soin des blessés lors de la révolution bolchévique. Elle fait ensuite des études d'infirmière à Varsovie et en France.

Instructrice à l'Université des infirmières puis éditrice de la revue Infirmière de Pologne, elle aide à la création de l'Association des infirmières polonaises. Elle devient membre des oblates bénédictines.

Pendant la deuxième guerre mondiale, son père meurt en camp de concentration et elle organise les infirmières de Varsovie pour les soins à domicile et pour accueillir les réfugiés.

Directrice de l'Ecole pour les soins infirmiers psychiatriques à Kobierzyn jusqu'à sa fermeture par les communistes, elle se tourne alors vers les soins aux pauvres et nécessiteux de sa paroisse.

Elle a lutté contre le cancer durant les sept dernières années de sa vie et est morte le 29 avril 1973 à Cracovie.

En polonais:

Hanna Chrzanowska, Święci i błogosławieni, (Saints et bienheureux de l'archidiocèse de Cracovie)
Hanna Chrzanowska 
- (précurseur des soins infirmiers de famille), Alexander Jędrysik, thèse écrite sous la direction de Grazyna Franek, (document pdf)

Hanna Chrzanowska - sumienie pielęgniarek, (Hanna Chrzanowska - infirmière de conscience), Niedziela, tygodnik katolicki, (Dimanche, hebdomadaire catholique)
"je ne suis pas venu pour être servi mais pour servir"




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Pologne: le cardinal Amato préside la béatification d’Hanna Chrzanowska, infirmière

La béatitude des miséricordieux
Les infirmières, les infirmiers, les malades aussi ont une nouvelle amie « au ciel »: le cardinal Amato a en effet présidé la béatification de l’infirmière polonaise, amie de Karol Wojtyla, Hanna Helena Chrzanowska(1902-1973), laïque, oblate bénédictine, ce samedi 28 avril 2018, à Carcovie (Pologne). Il a salué en elle un modèle du rapport avec le malade.
Le cardinal Angelo Amato, préfet de la Congrégation pour les causes des saints a en effet présidé la messe, au cours de laquelle il a souligné comment la nouvelle bienheureuse se « penchait sur les malades », et combien on apprend d’elle « à se pencher sur les pauvres, à prendre soin de ceux qui ont besoin de réconfort, de soutien, d’encouragement, car ils sont nombreux, sont petits, abandonnés, exilés , faibles, marginalisés », rapporte L’Osservatore Romano du 29 avril.
La charité envers tous
On en voit certains « tous les jours sur nos routes, mais beaucoup sont cachés dans leurs misérables maisons, malades, pauvres, seuls, sans soutien », a fait remarquer le cardinal italien dans son homélie.
« Par le travail de ses enfants, l’Eglise, a-t-il dit, va à la rencontre » des personnes dans le besoin, « donnant  aide et protection avec sacrifice et générosité ». Il a exhorté les Polonais à « continuer à manifester de la charité envers tous, spécialement envers nos malades » afin que « chaque jour, ils reçoivent un signe d’attention, un signe d’encouragement et un geste de soutien ».
A travers la bienheureuse Hanna, « l’Eglise célèbre la créativité de la charité chrétienne qui ouvre ses bras, comme Jésus le Bon Samaritain, pour accueillir, protéger, et les soigner les malades, les souffrants, les faibles », a insisté le cardinal Amato.
La béatitude des miséricordieux
Il a rappelé qu’à l’occasion des obsèques de la bienheureuse, en 1973, le cardinal Karol Wojtyla a prononcé son éloge funèbre en disant, ému: « Je te remercie, Hanna, toi qui as vécu parmi nous, et qui as été pour nous tous l’incarnation des Béatitudes du Christ, en particulier de celle qui dit « heureux les miséricordieux ». »
Elle était devenue infirmière par motivation « philanthropique, à partir de sa conversion, en 1932 ». Elle a vécu cette profession « comme un véritable apostolat chrétien, de présence salvifique de la croix du Christ auprès des malades ».
Elle nourrissait sa vie de foi « par la prière, la communion et l’adoration eucharistique, des retraites, la prière du chapelet ». Et, entant qu’oblate bénédictine, elle a « vécu avec enthousiasme et joie le charisme de la prière liturgique et du travail professionnel auprès des malades ».
« Son service était à côté des malades, en qui elle reconnaissait la présence du Christ », a fait observer le cardinal Amato: « Et même aux infirmières elle a proposé une formation à la fois professionnelle et spirituelle ».
Elle rappelait à tous « l’espérance du bonheur éternel au paradis et sa foi dans la providence divine réveillait à la vie et à l’enthousiasme », si bien que, même « dans une atmosphère de douleur et de souffrance, elle réussissait toujours à apporter un rayon de lumière et de joie ».
Même pas peur
Pour elle, le patient était « le bien suprême » à approcher « comme un frère et une sœur » et sa profession d’infirmière « était une véritable vocation, un appel d’en haut pour le bien des pauvres » et elle donnait « généreusement aux autres son temps, son intelligence, sa culture, collaborant activement avec ceux qui étaient soucieux de soulager et d’améliorer les conditions des malades ».
Elle en est même arrivée à « vendre ses bijoux pour acheter des médicaments pour les pauvres ». Et elle « ne voulait ni remerciements ni reconnaissance ».
Elle montrait une attention et une compréhensions spéciale pour les familles de malades chroniques, avec le souci aussi de leur vie spirituelle et sacramentelle », leur procurant aussi l’aide d’un prêtre.
Même sous l’occupation communiste, elle « n’a pas caché sa foi » et « elle ne s’est pas plainte des moqueries et des injustices » subies, et aucune menace n’a réussi à l’empêcher de s’approcher des sacrement régulièrement.
Mais c’est en raison de ses convictions religieuses qu’elle « a été privée du poste de directrice de l’école d’infirmières ». Mais elle n’avait pas peur « des pressions du parti » et elle « défendait courageusement sa foi, organisant régulièrement des séminaires pour les malades », en dépit des interdictions.
Et surtout, a conclu le cardinal, « elle n’avait honte d’aucun service rendu aux malades: elle se retroussait les manches et travaillait avec humilité ».
Reconnaissance du miracle
Un miracle obtenu par son intercession a été reconnu par le pape François le 7 juillet 2017,  ce qui ouvrait la voie à sa béatification.
Les funérailles d’Hanna Chrzanowska ont été célébrées à Cracovie par le cardinal Karol Wojtyła, futur pape Jean-Paul II, qui a dit notamment : « Nous remercions Dieu pour cette vie qui avait un tel sens, qui nous a laissé un témoignage si clair, si clair … Que ta récompense soit le Seigneur Lui-même, que ton service rayonne parmi nous et nous apprenne à tous, sans cesse, comment servir le Christ et le prochain. »
Hanna Chrzanowska, la fille du professeur Ignacy Chrzanowski, était née le 7 octobre 1902, à Varsovie. Ses grands-parents maternels étaient des protestants évangéliques, tandis que les grands-parents paternels étaient catholiques. La famille était connue pour sa charité et une grande implication religieuse.
Ecole universitaire
Hanna obtint son diplôme d’études secondaires chez les Sœurs ursulines de Cracovie. En 1922, elle entreprit des études à l’École des sciences infirmières nouvellement ouverte à Varsovie et elle utilisa sa bourse pour compléter ses études en France.
De 1926 à 1929, elle travailla comme instructrice à l’École universitaire des infirmières de Cracovie. De 1929 à 1939, elle publia le mensuel « L’Infirmière polonaise » et elle participa aux travaux de l’organisation de l’Union catholique polonaise des infirmières et infirmiers en 1937.
Après le déclenchement de la guerre en 1939, Hanna arriva à Cracovie. Son père fut déporté avec les autres professeurs dans un camp de concentration où il mourut. Son frère, Bogdan Chrzanowski, mobilisé en 1939, fut assassiné à Kozelsk.
Hanna se dévoua à des activités de bienfaisance au sein du Comité d’assistance civique, présidée par l’archevêque Adam Stefan Sapieha (qui ordonna prêtre Karol Wojtyla), puis elle travailla en soignant des réfugiés et des personnes déplacées. Elle organisa pour eux l’hébergement, les repas, s’occupa particulièrement des enfants et des juifs. Hanna essayait de placer les orphelins dans les familles.
Après la guerre
Pendant ce temps, sa vie spirituelle s’approfondissait. Elle était principalement centrée sur l’Eucharistie et l’aide du prochain dans l’esprit de l’Évangile.
Avec la fin de la guerre et l’ouverture de l’École universitaire des sciences infirmières à Cracovie, elle travailla comme directrice des soins infirmiers et sociaux en mettant l’accent sur les cours de préparation des étudiants pour soigner les malades chez eux.
Pendant une courte période, elle travailla comme directrice de l’école des soins infirmiers psychiatriques à Kobierzyn. Après la fermeture de cette école par les autorités communistes, Hanna, dont l’attitude religieuse était un obstacle pour eux, fut forcée de prendre sa retraite anticipée.
Encore pleine de force et connaissant bien la situation des patients qui restaient chez eux, Hanna organisa les soins pour les malades chroniques et dans les zones abandonnées de la paroisse de Cracovie, avec la pleine approbation des autorités de l’Église. Les infirmières, les amis, les étudiants et les religieuses l’aidaient dans son activité.
On la voyait souvent plongée dans la prière dans l’église des Carmes, située à proximité de son appartement. Avec beaucoup de tact, elle essayait d’aider les patients souffrant de maladies spirituelles : elle appelait des prêtres pour célébrer la messe dans la maison du patient qui le désirait.
Depuis 1966, Hanna souffrait d’un cancer, et elle s’est éteinte le 29 avril 1973: ce sera demain, dimanche 29 avril l’anniversaire de sa « naissance au Ciel ».
Le pape polonais pour ami
Les funérailles d’Hanna ont donc été célébrées par le cardinal Karol Wojtyła, futur saint pape Jean-Paul II. Il est revenu à Cracovie spécialement pour cela, alors qu’il participait à une réunion de la Conférence des évêques polonais. Un grand nombre de patients en fauteuil roulant ont voulu accompagner leur protectrice jusqu’au cimetière. Le cardinal Wojtyła l’a remerciée en disant: « Nous te remercions, Hanna, d’avoir été parmi nous, d’avoir été comme tu as été, avec ta grande simplicité, cette chaleur intérieure ».
Un premier décret, concernant les vertus héroïques d’Hanna, avait été promulgué par le pape François le 1er octobre 2015.
Avec Marina Droujinina

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Pologne: Hanna Chrzanowska, infirmière et apôtre des malades

La béatitude des miséricordieux



Le pape François a évoqué, après le Regina Caeli, de ce dimanche 29 avril 2018, place Saint-Pierre, en présence de quelque 30 000 visiteurs, la béatificationde Hanna Chrzanowska: « une fidèle laïque » qui « a été proclamée bienheureuse hier, à Cracovie »
« Elle a consacré sa vie à guérir les malades en qui elle voyait le visage de Jésus souffrant. Rendons grâce à Dieu pour le témoignage de cet apôtre des malades et essayons d’imiter son exemple », a dit le pape.
Un miracle obtenu par son intercession a été reconnu par le pape François le 7 juillet 2017,  ce qui ouvrait la voie à sa béatification.
Les funérailles d’Hanna Chrzanowska ont été célébrées à Cracovie par le cardinal Karol Wojtyła, futur pape Jean-Paul II, qui a dit notamment : « Nous remercions Dieu pour cette vie qui avait un tel sens, qui nous a laissé un témoignage si clair, si clair … Que ta récompense soit le Seigneur Lui-même, que ton service rayonne parmi nous et nous apprenne à tous, sans cesse, comment servir le Christ et le prochain. » Il a salué en elle la béatitude vécue des « miséricordieux ».
Hanna Chrzanowska, fille du professeur Ignacy Chrzanowski, était née le 7 octobre 1902, à Varsovie. Ses grands-parents maternels étaient des protestants évangéliques, tandis que les grands-parents paternels étaient catholiques. La famille était connue pour sa charité et une grande implication religieuse.
Ecole universitaire
Hanna obtint son diplôme d’études secondaires chez les Sœurs ursulines de Cracovie. En 1922, elle entreprit des études à l’École des sciences infirmières nouvellement ouverte à Varsovie et elle utilisa sa bourse pour compléter ses études en France.
De 1926 à 1929, elle travailla comme instructrice à l’École universitaire des infirmières de Cracovie. De 1929 à 1939, elle publia le mensuel « L’Infirmière polonaise » et elle participa aux travaux de l’organisation de l’Union catholique polonaise des infirmières et infirmiers en 1937.
Après le déclenchement de la guerre en 1939, Hanna arriva à Cracovie. Son père fut déporté avec les autres professeurs dans un camp de concentration où il mourut. Son frère, Bogdan Chrzanowski, mobilisé en 1939, fut assassiné à Kozelsk.
Hanna se dévoua à des activités de bienfaisance au sein du Comité d’assistance civique, présidée par l’archevêque Adam Stefan Sapieha (qui ordonna prêtre Karol Wojtyla), puis elle travailla en soignant des réfugiés et des personnes déplacées. Elle organisa pour eux l’hébergement, les repas, s’occupa particulièrement des enfants et des juifs. Hanna essayait de placer les orphelins dans les familles.
Après la guerre
Pendant ce temps, sa vie spirituelle s’approfondissait. Elle était principalement centrée sur l’Eucharistie et l’aide du prochain dans l’esprit de l’Évangile.
Avec la fin de la guerre et l’ouverture de l’École universitaire des sciences infirmières à Cracovie, elle travailla comme directrice des soins infirmiers et sociaux en mettant l’accent sur les cours de préparation des étudiants pour soigner les malades chez eux.
Pendant une courte période, elle travailla comme directrice de l’école des soins infirmiers psychiatriques à Kobierzyn. Après la fermeture de cette école par les autorités communistes, Hanna, dont l’attitude religieuse était un obstacle pour eux, fut forcée de prendre sa retraite anticipée.
Encore pleine de force et connaissant bien la situation des patients qui restaient chez eux, Hanna organisa les soins pour les malades chroniques et dans les zones abandonnées de la paroisse de Cracovie, avec la pleine approbation des autorités de l’Église. Les infirmières, les amis, les étudiants et les religieuses l’aidaient dans son activité.
On la voyait souvent plongée dans la prière dans l’église des Carmes, située à proximité de son appartement. Avec beaucoup de tact, elle essayait d’aider les patients souffrant de maladies spirituelles : elle appelait des prêtres pour célébrer la messe dans la maison du patient qui le désirait.
Depuis 1966, Hanna souffrait d’un cancer, et elle s’est éteinte le 29 avril 1973: ce sera demain, dimanche 29 avril l’anniversaire de sa « naissance au Ciel ».
Le pape polonais pour ami
Les funérailles d’Hanna ont donc été célébrées par le cardinal Karol Wojtyła, futur saint pape Jean-Paul II. Il est revenu à Cracovie spécialement pour cela, alors qu’il participait à une réunion de la Conférence des évêques polonais. Un grand nombre de patients en fauteuil roulant ont voulu accompagner leur protectrice jusqu’au cimetière. Le cardinal Wojtyła l’a remerciée en disant: « Nous te remercions, Hanna, d’avoir été parmi nous, d’avoir été comme tu as été, avec ta grande simplicité, cette chaleur intérieure ».
Un premier décret, concernant les vertus héroïques d’Hanna, avait été promulgué par le pape François le 1er octobre 2015.
Avec Marina Droujinina

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Hanna Chrzanowska, de l’écoute à la sainteté dans le monde hospitalier


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Cette infirmière récemment déclarée bienheureuse a changé le monde de la santé en Pologne. A l’occasion de la journée Mondiale des Pauvres, qui a lieu ce dimanche 18 novembre, le Pape François écrivait : « Pour reconnaître leur voix, nous avons besoin du silence de l’écoute 1) ». A n’en pas douter, la vie d’Hanna Chrzanowska illustre ce propos  de manière magistrale : l’écoute de la souffrance et un regard constant sur les personnes soignées ont dilaté sa vie pour lui donner une grande fécondité. Entretien avec Kamila Róg, infirmière et future volontaire de Points-Cœur au Brésil. 

 Qui était la bienheureuse Hanna Chrzanowska ?
La réponse à cette question n'est pas facile du tout. Le contexte historique et culturel de la Pologne du XX° siècles dans lequel elle a grandi et vécu peuvent nous aider à découvrir les multiples visages de la bienheureuse Hanna Chrzanowska (1902-1973), première infirmière laïque béatifiée en avril par le pape François. 
Hanna Chrzanowska est née le 7 octobre 1902 à Varsovie. Elle vient d'une famille riche, son père Ignace Chrzanowski, est un célèbre professeur de littérature. Quand Hanna a 8 ans, la famille déménage à Cracovie, où le professeur Chrzanowski reprend la chair de l'Université Jagellon. Elevée dans une maison où l'on attachait beaucoup d'importance à la charité, elle suit, après l'obtention de son baccalauréat, un bref cours d'infirmière pour aider les victimes de la guerre. Mais c’est sans toute sa tante Zofia qui lui transmit son amour pour ce métier. Fondatrice d’un hôpital pour enfants à Varsovie, elle l’emmène tôt sur le chantier de construction, où, plus tard, à l'âge de 12 ans, elle est traitée pour dysenterie. Comme nous l'apprennent ses notes personnelles, cet événement aura un fort impact sur l'enfant, en particulier les soins prodigués par une infirmière Madame Aniela. 
En 1920, elle commence ses études de philologie polonaise, qu'elle interrompt lorsqu'elle apprend l'ouverture de l'école d'infirmières à Varsovie, première du pays. A partir de ce moment, Hanna Chrzanowska se consacre aux soins infirmiers. A la fin de ses études, elle obtient des bourses en France et en Belgique, où elle approfondit ses connaissances, notamment dans le domaine des soins sociaux. En tant qu'infirmière, elle travaille comme institutrice à l'École universitaire des infirmières et hygiénistes de Cracovie. Elle édite le premier magazine professionnel infirmier en Pologne "Pielęgniarka Polska". Elle publiera par la suite de nombreux ouvrages dans le domaine des soins infirmiers. Elle participe activement à la préparation de la "Loi sur les soins infirmiers" adoptée par le parlement. Elle prend part à la création de l'Union catholique des infirmières polonaises. Lorsque la Seconde Guerre mondiale éclate, elle se porte volontaire au sein du Comité de tutelle polonais à Cracovie où elle s'implique fortement dans les soins aux réfugiés, aux prisonniers et aux personnes déplacées. Elle accorde une attention toute spéciale aux enfants orphelins, dont beaucoup de juifs, pour qui elle trouve des familles d'accueil. Cette expérience de la guerre et de la souffrance sont un moment privilégié qui rapproche Chrzanowska de Dieu, auprès de qui elle cherche soutien, découvrant la puissance de la prière et de l'Eucharistie. Après la guerre, Hanna enseigne les soins infirmiers sociaux à l'École universitaire de sciences infirmières et d'obstétrique. Elle obtient une bourse d'études aux États-Unis, où elle a approfondi ses connaissances.
En 1957, elle devient directrice de l'école des soins infirmiers psychiatriques de Kobierzyn. Devant les problèmes de nombreuses personnes malades – seules, abandonnées et handicapées, privées de tout type de soins, elle décide d'organiser une assistance infirmière professionnelle, basée sur les structures de l'Eglise et indépendante du service de santé de l'Etat, alors inefficace. Elle publie un article dans le Tygodnik Powszechny intitulé « Le monde n'est pas vide », présentant le sort des patients anonymes couchés à la maison sans soins élémentaires. La réponse est immédiate. Les bénévoles se portent volontaires pour travailler et l'argent afflue, ce qui permet d'acheter les ressources médicales de première nécessité. 

C'est ainsi que s’organisent les premiers soins infirmiers paroissiaux, avec l’aide, notamment, du Père Karol Wojtyła et du recteur de la Basilique sainte Marie, le Père Ferdinand Machay. Avec le soutien des autorités ecclésiastiques, ainsi que de nombreux collaborateurs et bénévoles (infirmières, religieuses, religieux, prêtres, médecins, professeurs et étudiants), elle fonde des centres de soins infirmiers paroissiaux à Cracovie et dans tout l'archidiocèse. Elle organise ainsi des retraites pour ses patients, qui leur redonnent la joie de vivre et la force dont ils ont besoin pour porter la croix quotidienne. 
Grâce à ses efforts, la coutume de célébrer la messe au domicile du malade et les visites des malades lors des visites pastorales se répandent peu à peu. A la demande du Cardinal Karol Wojtyła, Paul VI lui rend hommage avec la médaille Pro Ecclesia et Pontifice. Oblate de l'abbaye de Tyniec depuis 1956, sa vie spirituelle est imprégnée de l’esprit bénédictin. En servant les malades et les souffrants tout au long de sa vie, elle réalise de plus en plus clairement que c’est le Christ lui-même qu’elle sert en eux. Elle meurt  à Cracovie le 29 avril 1973 et sera béatifiée 45 ans plus tard à Cracovie. 

Quel est son enseignement pour les hommes d’aujourd’hui ?

L'église a élevé Hanna Chrzanowska au rang de Bienheureuse. Par sa vie, elle montre de façon très concrète que la sainteté commence ici et maintenant, pour tout le monde, quel que soit son l’âge et l’état de vie. Elle n’est pas née avec un don spécial lui permettant de reconnaître le Christ dans la personne souffrante. Elle a commencé à comprendre ce mystère au fil du temps, cherchant des réponses au sens de la souffrance, qui ne manquait pas dans sa vie et dans son entourage. Elle ne s'est pas arrêtée à la surface, elle a cherché un sens toujours plus profond. "Cherchez et vous trouverez" (Mt7,7). 
Sa conversion a eu lieu vers 30 ans. A partir de là, Dieu est vraiment devenu la source de ses activités quotidiennes. En Pologne, Hanna Chrzanowska est considérée comme la deuxième « Mère Teresa de Calcutta ». On pourrait même penser qu’il était plus facile à Mère Teresa d’être sainte, tant étant grande la misère à Calcutta. Quelques décennies plus tard, la Bienheureuse Hanna montre que l’essentiel est d’épouser les circonstances. La souffrance est vraiment partout si nous y sommes sensibles et si nous voulons la voir. 
Lors de ses funérailles, le Cardinal Karol Wojtyła a dit :  « Nous te remercions, Madame Hanna, d'avoir été parmi nous… d'avoir été parmi nous une incarnation des Béatitudes du Sermon sur la montagne, surtout de celle-ci: « Heureux les miséricordieux ».

 « C'est un chemin exigeant, mais à la portée de tous, disait le pape François. Pour accomplir les œuvres de miséricorde, il n'est pas nécessaire d'aller à l'université et d'obtenir un diplôme. Nous pouvons tous faire des œuvres de miséricorde. Il suffit que chacun d'entre nous commence à se poser la question : que puis-je faire aujourd'hui pour aider mon voisin dans le besoin ? » 

Pendant la guerre, elle aide les victimes. Après la guerre, il n'y a plus de victimes, mais des réfugiés, des personnes déplacées, des orphelins et des veuves. Lorsqu'elle enseigne à l'université, elle n'est pas seulement une professeure pour les étudiants, mais aussi une éducatrice et une mère. Puis elle constate la solitude des personnes âgées. Elle voit les besoins immédiats et ne passe pas son chemin (Lc 10,31-32). La souffrance, en soi une épreuve pour l'être humain, on ne peut pas l’affronter seul. Mais dans la découverte que la souffrance est un mystère et que le visage de Jésus du Calvaire est en chaque personne souffrante, nous pouvons persévérer avec amour et joie dans le service et la présence auprès des personnes souffrantes. Compatir, et non se lamenter. 
Comment son exemple illumine-t-il votre expérience d’infirmière ? 

Souvent quand je dis que je suis infirmière, la réaction est la suivante: « Ça doit être un dur labeur ». Ce à quoi je réponds sans hésiter: « Oui, c'est vrai, mais en ce qui me concerne, je ne peux pas imaginer ce travail sans la foi en Dieu et la possibilité de le rejoindre dans mon prochain. Hanna Chrzanowska est la première infirmière laïque béatifiée. C'est un modèle dans la vocation d’infirmière. C'est pourquoi je suis personnellement reconnaissante à Dieu pour le don de sa vie, elle est pour moi une confirmation, très concrète que dans mon travail, j'aide Celui qui souffre par excellence, qu'il y a quelque chose de plus qu’aller et revenir du travail. C'est comme si elle montrait vers quoi s’orienter dans les soins infirmiers, ce qui est le plus important. On l’appelait « sœur de notre Dieu », à l'exemple de saint Frère Albert – « frère de notre Dieu ». Hanna est pour nous un modèle, mais aussi, comme le disait le cardinal Marcharski, « la conscience du corps infirmier ». Il existe un grand risque, et c'est malheureusement plus qu’un risque, de s’habituer à la souffrance. Avec le roulement des infirmières, les gardes de 12 heures, le stress, la confrontation difficile avec les familles, les problèmes de tempérament, la tentation est grande de devenir insensible. 
La Bienheureuse posait souvent cette question: « Le malade est-il le premier ? ». « Sommes-nous satisfaits du niveau de service offert aux malades par les infirmières ? Pourquoi (…) les malades ont-ils peur des hôpitaux ? Pourquoi les malades quittent l'hôpital négligés ? Pourquoi (…) la vieille dame malade n'a-t-elle pas été lavée une seule fois à l'hôpital et s’est elle-même frottée pour ne pas attraper d’escarres? Pourquoi est-ce que ça arrive ? Est-ce simplement parce qu'il y a peu d'infirmières ? N'y a-t-il pas d'infirmières assises en service qui pensent à autre chose qu’aux malades ? (….) Je suis bien consciente du fait que les circonstances sont parfois difficiles à ce moment-là. Nous savons tous très bien qu'il existe une sorte d’anesthésie sociale ».

Les gens qui ont connu personnellement la Bienheureuse parlent souvent d'elle en utilisant le terme à la fois affectueux et respectueux en polonais de "tante". D'où vient-il ?

Hanna Chrzanowska a consacré son temps non seulement aux malades et à la souffrance, mais aussi comme formatrice et éducatrice et a passé beaucoup de temps avec des jeunes auxquels elle n’est pas restée indifférente. Elle a compris que l'enseignement d’une matière seule ne suffit pas, mais qu'il est tout aussi important de parler du « sujet » des soins, qu’il s’agit du service authentique à un autre être humain ; que doivent être pris en compte non seulement les besoins de santé, mais aussi les besoins spirituels ; que le souci doit être constant du respect de la dignité humaine. 
Sans jugement, elle enseigna pas à pas aux étudiants à faire face aux situations les plus difficiles, celles qui humainement nous dépassent, surtout lorsque l’on est jeune et inexpérimenté. C'est précisément pour cette raison – une façon d’entrer en relation chaleureuse et pleine d’humour- qu'elle a pu les rassembler autour d'elle dans différentes activités. Comme le père Karol Wojtyla se faisait appeler « oncle », Hanna Chrzanowska est devenue la « tante » de ces jeunes. 
Peu à peu, elle  est devenue une autorité pour eux. Elle savait que pour servir pleinement son prochain, il fallait susciter une nouvelle attitude, former le cœur. Voilà une chose qui fait probablement défaut dans le monde d'aujourd'hui, y compris dans le domaine des soins infirmiers, tant au niveau de la formation qu'après, sur le lieu de travail. Il nous manque de véritables  »autorités ». Hanna fut la première à organiser des retraites pour ses élèves et les personnes impliquées dans le travail avec les malades. Elle faisait aussi des conférences. Non seulement elle enseignait, mais surtout elle éduquait. Sans cesse, elle redonnait le sens. 
Pour illustrer cette implication, voici un extrait des Mémoires d'Helena Matoga, l'une de ses élèves : « La veille de Noël (…), pour une jeune fille de seize ans, qui pour la première fois était loin de chez elle, cela devait être l'un des moments les plus difficiles. La maison et la famille lui manquaient terriblement. La discipline stricte de l'école d'infirmières de Cracovie renforçait encore le sentiment de manque de chaleur familiale (…). Helena descendit. Elle ouvrit la porte de la salle à manger et resta stupéfaite. Dans le coin était dressé un sapin de Noël étincelant de lumières. Sur le seuil Mme Chrzanowska, en tenue de fête, lui prit la main (…). Mme Chrzanowska s'est approchée de chacune de nous, s'est assise et a parlé avec chacune d'entre nous. Il n'y avait pas d'autre enseignant présents, juste elle (…) ».

Propos recueillis et traduits par Clément Imbert

Blessed Hanna Helena Chrzanowska


Profile

Lay woman in the diocese of KrakówPoland. She was the daughter of Ignacy Chrzanowski, a university professor, and Wanda Szlenkier, and while their industrialist and land-owning families had a tradition of charity, religious involvement at home was low since one side of the family was Catholic, the other Protestant. She attended an Ursuline high school. Helped care for soldiers wounded and injured in the Bolshevik revolution, then began studiesat the School of Nursing in WarsawPoland in 1920studied in France on a scholarship, and worked with members of the American Red Cross.

She became a nurse in a time when the profession was not as respected as today, and became a leading light in the field in her region. Instructor of the University School of Nurses and Hygienists in Kraków from 1926 to 1929Editor of the monthly publication Nurse Poland from 1929 to 1939. Worked to help form the Catholic Association of Polish Nurses in 1937. Member of the Oblates of the Order of Saint Benedict. During World War II, where she lost her father to the concentration camps, Hanna organized nurses for home care in Warsaw, and helped feed and resettle war refugees. Following the war she became head of a nursing home where, in addition to the administrative duties, she cared for the residents and worked with nursingstudents. Director of the School of Psychiatric Nursing in Kobierzyn, Poland until the Communists closed it. She then moved into nursing the poor and neglected in her own parish. Fought with cancer the final seven years of her life.

Born

Venerable

Hanna Chrzanowska – 1902-1973

Hanna Chrzanowska was born October 7th 1902 in Warsaw, into a family who had rendered great services to the academic, cultural and nursing life of Poland. Her father Ignacy Chrzanowski, a renowned professor of Polish literature, came from a family of landowners. Her mother Wanda, neé Szlenker, came from a wealthy Lutheran family of Warsaw industrialists. Her mother’s sister, Zofia Szlenkier founded a children’s hospital in Warsaw and became a director of the Warsaw School of Nursing. Both families were renowned for their extensive charity and philanthropic work.

In 1910, Hanna Chrzanowska’s parents moved to Kraków where Professor Chrzanowski took the chair of Polish Literature at the Jagiellonian University. In Kraków Hanna attended a high school run by Ursuline sisters where she graduated with distinction. Having left school she enrolled onto a Red Cross course in order to help nurse victims of the Polish-Bolshevik war. In December 1920 she commenced studies at the Jagiellonian University. Upon hearing about the establishment of a new school of nursing in Warsaw, she abandoned her university course and immediately enrolled in the school of nursing, in order to fulfil her dream of becoming a nurse.

Having graduated from the school in 1924, she was awarded scholarships to France and Belgium, where she became acquainted with community nursing. During the years 1926-1929, she worked as an instructor at the University School of Nursing in Kraków. From 1929 to 1939 she also edited a nursing monthly – Polish Nurse – the first such professional nursing journal in Poland. At this time she was living in Warsaw. She published numerous professional articles and also made successful attempts at literary works, some of which were semi-autobiographical. She took keen interest in the activities of the Polish Association of Professional Nurses and was its Vice-chair for many years. She also actively participated in preparing the first Nursing Act of 1935. She also contributed to the formation of the Catholic Union of Polish Nurses, in 1937.

The outbreak of the Second World War brought numerous painful experiences for Hanna. On October 2nd 1939, her aunt Zofia Szlenkier died in the battle for Warsaw. On November 6th her father was arrested as part of Sonderaktion Krakau, and along with other professors, he was deported to Sachsenhausen concentration camp, where he died shortly afterwards in January 1940. In the spring of 1940 Hanna’s only brother Bohdan, a Soviet POW, was murdered in the Katyń woods by Soviet troops. In spite of these tragic experiences, she did not lose hope. Already at the beginning of the war she went back to Kraków and volunteered to work with the Polish Welfare Committee, dedicating all of her skills and powers to taking care of refugees, prisoners and displaced persons. She took special care of orphans, including Jewish children, trying to find them foster families and safe shelters. She even organised summer-camps outside of Kraków for youngsters and established food and milk banks for starving children. She worked tirelessly, frequently risking her health and life. The experiences of the atrocities of the war had a significant influence on the development of her spiritual life. It became a time of seeking God’s support; a time of discovering the need for deep personal prayer and appreciating the meaning of the Eucharist. This time of intense spiritual growth was accompanied by the formation of a truly gospel inspired heroic love of her neighbour.

After the war, Hanna Chrzanowska resumed work in the Kraków School of Nursing as the head of the department of community nursing. Meanwhile she was offered a scholarship to the USA to broaden her knowledge and understanding of community and home nursing. For several years she lectured on community nursing and gave lectures on community health to nursing teachers in Warsaw. As an instructor and tutor she always put a strong emphasis on educating young nurses in a spirit of authentic service to the sick, treating patients with dignity and paying attention not only to their physical health, but also to their spiritual needs. In 1957, she was fired from her post and given the position of director of the Psychiatric School of Nursing in Kobierzyn, outside of Kraków. One year later the school was closed down and she took early retirement.

During all of her professional life Hanna did not conceal her religious beliefs or her attachment to Christian values, even during the darkest days of Stalinist communism. On the contrary, she manifested clear and credible testimony to her vibrant faith. Such an attitude prompted respect and recognition, especially among her students and colleagues but provoked aversion and repressive measures on the part of communist authorities.

Retirement did not mean rest for Hanna. She knew from personal experience the numerous healthcare needs of the people in Kraków – some of whom were friends and relations – but many more who were lonely, abandoned, elderly, or disabled and chronically sick, who were deprived of any kind of care. Following God’s inspiration, she decided to organise for them professional nursing care, based on church structures and independent of the inefficient socialist health care system. Having developed the idea, she turned to Father Karol Wojtyła, later bishop of Kraków (now St Pope John Paul II), for advice. He in turn pointed her in the direction of Father Machay from the Basilica of the BVM, in the old town square, who gave his full approval of her plan to be implemented in his parish. Parish nursing in Kraków was established. Having received the moral support of the church authorities, Hanna proceeded to organise parish nursing not only in Kraków but within the whole archdiocese.
Endowed with a charismatic personality, she gathered around her a wide group of associates and volunteers including nurses, religious sisters, priests, seminarians, physicians, professors and students. With the help of her volunteers she organised holidays and retreats for her house-bound patients, which helped them rediscover the joys of life and gave them strength to bear their daily cross. Thanks to her efforts, the custom of celebrating the Holy Mass in the home of the sick became popularised, as well as the custom of pastoral visits to the homes of the sick and housebound. For her nurses and volunteers she also organised retreats and delivered regular conferences at which she would explain her nursing philosophy of spiritual care. She worked closely with Cardinal Karol Wojtyła, in all areas of work concerning the sick. As a result of his recommendation she was awarded the medal ‘Pro Ecclesia et Pontifice’ by Pope Paul VI.

Hanna’s interior prayer life and practical nursing spirituality was profoundly influenced by Benedictine spirituality – and in 1956 she became an oblate of Tyniec Abbey. While caring for the sick and those who suffered, she gradually came to realise that she was serving Jesus Christ himself.
After suffering from a recurrance of cancer, Hanna died in Kraków on Sunday morning the 29th April 1973. The funeral Mass and ceremony in Rakowiecki Cemetery was conducted by Cardinal Karol Wojtyła. In the homily he said: We thank you Miss Hanna that you were among us… an embodiment of Christ’s beatitudes from the sermon on the Mount, especially the one saying – ‘Blessed are the merciful’. Those who knew Hanna well all testify that she heroically obeyed the Greatest Commandment of all – to love God with all her heart and her neighbour.

In 1995 nurses from the Catholic Association of Nurses and Midwives submitted a request to Cardinal Franciszek Macharski to open Hanna’s canonisation cause. The Cardinal who once said of Hanna that she was the conscience of the nursing profession, responded positively to their request and Hanna’s cause was formally opened November 3rd 1998. It was the first time that a professional group had petitioned the Church to canonise one of its members! On 7th July 2017, Pope Francis I declared that a miracle attributed to the Venerable Servant of God had prepared the way for her beatification.

Prayer

God, who in a special way called your servant Hanna Chrzanowska to the service of the sick, poor and abandoned, grant that she who answered your call with all her heart, should be counted among the saints while encouraging us with her example to bring help to our neighbours. Through her intercession grant us the grace… for which we pray in faith and hope. Through Jesus Christ our Lord. Amen. Our Father… Hail Mary… Glory be…

Please keep us informed about graces obtained through the intercession of Blessed Hanna Chrzanowska at the Postulator’s Office: Parafia Sw Mikolaja, 31-034 Krakow, Kopernica 9


Colours of Fire: The Life of Hanna Chrzanowska
Geraldine Bereziuk Lowrey
Who was Hanna Chrzanowska? She was a nurse. But this statement is to miss the point. She was a nurse who lived her life to the fullest, becoming Director of Nursing at the Warsaw School of Nursing in 1929. Hanna is also the first registered nurse to be considered for sainthood in the Roman Catholic Church.

“Colours of Fire, The Life of Hanna Chrzanowska” by Gosia Brykczynska (Wparkspublishing @aol.com) is the biography of a Polish woman who was born into privilege, yet used those privileges to help the sick, infirm, and needy often at considerable risk to herself and her livelihood.

Hanna’s parents, Ignacy Chrzanowski and Wanda Szlenkier, had ties to Poland’s upper crust. On her father’s side she was related to Henryk Sienkiewicz, the Polish writer famously known for winning the Nobel literary prize for Quo Vadis, the fictional portrayal of early Christendom.

Her mother’s family was Lutheran and known as wealthy Warsaw entrepreneurs and philanthropists. Hanna, an exuberant, inquisitive child learned about charity work and service to one’s neighbor through the examples set by her relatives. Her maternal grandfather established a technical school for young artisans. Her maternal grandmother helped set up a health center for the poor children of Warsaw; her maternal aunt, Zofia Szlenkier, was known for her philanthropy. In 1913 she founded and endowed a children’s hospital in Warsaw named after Hanna’s grandparents, Szpital Imienia Marii i Karola (The Mary and Charles Hospital).

Although Hanna’s childhood was spent sheltered from the more troublesome aspects of life she was quick to notice the wants and needs of others. Hanna suffered from poor health most of her life, mainly respiratory and immune system deficiencies. For these reasons she spent a lot of time in and out of hospitals and sanatoria throughout Europe. As a child, she noticed a boy in the hospital with her. His clothes were so shabby they were thrown away. The boy had no clothes to wear home. Hanna arranged to present the boy with a new set of clothes. She did not do this anonymously, but rather chose to take part in this work from start to finish. This would characterize Hanna’s approach to nursing.

Brykczynska, the author, serves up tidbits of Hanna’s experiences before, during, and after World War II. Hanna enjoyed almost everything associated with nursing. Before admittance to nursing school, she volunteered at a clinic for six months. She was assigned bookkeeping duties, which did not appeal to her. She preferred working directly with people. As such, Hanna was instrumental in creating community nursing. Rather than just serving the needs of hospital patients, nursing would be extended to meet the needs of the homebound, elderly, and infirm.

During the years prior to WWII, Hanna became more spiritual and committed to her Christian faith. The war saw many avenues to educational pursuit closed. Hanna merely threw herself into work with the Polish Welfare Committee as a liaison between the Krakow branch and the German authorities.

Hanna had to be careful of her every step which was monitored by the occupying Germans. All Polish religious and cultural observances were prohibited. Christmas, with its beautiful traditions of the oplatek and the Nativity display were not allowed. Nursing students, saddened, made their way into the lifeless, hospital dining room – only to find Hanna smiling and greeting everyone warmly, dressed in traditional Polish garb.

The tables were set and a lighted tree and Nativity scene were placed in an alcove. Hanna encouraged her students to quickly change out of uniform and begin celebrating the traditional Wigilia feast. Had her actions been discovered, she, her students, and even the school might have suffered greatly. But these were the risks Hanna took.

Hanna was also on friendly terms with Cardinal Karol Wojtyla, now St. John Paul II. He was the main celebrant at Hanna’s funeral in
1973.

The biography’s title is taken from Hanna’s own words: “Let us not just think about fighting evil…can’t we also shout about goodness?…what I have observed are not just shades of a phantom. I see it all so clearly in the vivid colours of fire!”

Hanna described herself as a nurse, an ordinary person. Perhaps this better describes Hanna Chrzanowska; “A saint is an ordinary person who does extraordinary things.”



Blessed Hanna Chrzanowska – a Lay Nurse Raised to the Altars

The First Person from the Circle of Karol Wojtyła Was Beatified

For the first time in history, a lay nurse was beatified. A Polish woman, Hanna Chrzanowska, who died in 1973, was announced blessed this Saturday, April 28, at the World Sanctuary of Divine Mercy in Krakow.
Hanna Chrzanowska organized a unique system of parish home care over chronically ill, which covered hundreds of people living in a communist country in conditions extremely degrading human dignity. The care system was based on professional nurses supported by nuns, students, the family and neighbors of the sick. In this way, Chrzanowska also became a pioneer of hospices in Poland. Clerics and priests were also involved in the help, which allowed them to have a close contact with poor, sick and needy people.
Hanna Chrzanowska, in her youth distant from the Catholic faith, experienced a deep conversion before the Second World War. A home-based care over chronically ill began in 1957. Organizing this system of care, she worked closely with the priest, and later Bishop, Archbishop and Cardinal, Karol Wojtyła, a future Pope, Saint John Paul II. She was under his strong spiritual influence, as evidenced by the preserved correspondence between them. During the funeral of Chrzanowska, Cardinal Wojtyła emphasized that she was the incarnation of Christ’s blessings, “especially the one which says Blessed are the merciful.” As a pope, he already told the postulator of the process of beatification of Chrzanowska: “This is a very important matter. Watch it.”
Sister of our God
The first person from the circle of Karol Wojtyła was beatified.
“She was always very close to my heart”, said St. John Paul II during the meeting with the Szlenkier family – relatives of Hanna Chrzanowska, a lay nurse who was beatified this Saturday, April 28, in Cracow.
She worked closely with Karol Wojtyła in the years 1957-1973, and with their unique personalities, they had positive impacts each upon the other.
For Wojtyła, Chrzanowska was a living incarnation of the content of the Second Vatican Council: a lay person, a high-class professional, who draws from the depths of Christian spirituality, living in close relationship with Christ and practically realizing this relationship through her service to the sick. Thanks to Chrzanowska, the Archdiocese of Cracow had a well-developed system of the service of active love through parish care over the sick. It included hundreds of people confined to beds, abandoned, poor and neglected. Hanna Chrzanowska introduced Wojtyła into this world by contacting him with the whole depth of human misery, while at the same time teaching a practical approach to the sick people so that they felt real care and help.
In turn, Wojtyła became a spiritual authority for Hanna Chrzanowska, before whom she discovered the greatest secrets of her soul, as evidenced by the preserved correspondence between them.
There are several ongoing processes of beatification of people related to the Pope, who made the proclamation of a universal vocation to holiness one of the priorities of his pontificate. Two candidates for altars come from Poland: Jan Tyranowski, a tailor, who introduced young Wojtyła into the secrets of interior life, and Jerzy Ciesielski, husband and father of the family, one of the members of the youth milieu around Wojtyła, so-called Uncle Karol’s Family. In France, the trial of prof. Jérôme Lejeune, genetics and defenders of life, who worked closely with John Paul II in 1978-1994. Hanna Chrzanowska is the first beatified from the circle of the people close to St. John Paul II.
Courtesy of BP KEP
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Pope Francis on April 29, 2018, recognized Hanna Chrzanowski, declared blessed on April 28, 2018, in Krakow.
“Yesterday Hanna Chrzanowska, lay faithful who dedicated her life to the care of the sick, in whom she saw the face of suffering Jesus, was proclaimed Blessed in Krakow,” the Pope said after praying the Regina Coeli with the crowds in St. Peter’s Square. “We thank God for the witness of this apostle of the sick and let us make an effort to imitate her example.”
APRIL 30, 2018 12:08WOMEN AND MEN OF FAITH


Hanna Chrzanowska’s ‘Blessed’ Witness to Charity

A look at the holy life of an upcoming beata.

Filip Mazurczak

Hanna Chrzanowska, a Polish nurse who will be beatified April 28, was devoted to her vocation attending to the sick and suffering.

Like St. Francis of Assisi, Chrzanowska came from a privileged aristocratic family but decided to devote her life to the suffering souls in her midst. Her father, Ignacy, was a professor of Polish literature at the Jagiellonian University in Krakow, while her mother founded a children’s hospital and was the director of the Warsaw School of Nursing.

Her parents were known for their charitable work, as Pawel Zuchniewicz’s Polish-language biography Siostra naszego Boga (“Our God’s Sister”) relates. The prominent Catholic journalist’s memoir details a life of Christian charity.

Chrzanowska decided to become a nurse in 1920 during the Polish-Bolshevik War, when she helped war invalids and attended a nursing course offered by the American Red Cross. In 1939, Poland was invaded by Nazi Germany and the Soviet Union. Along with other professors from the Jagiellonian University, Ignacy Chrzanowski was deported to the Sachsenhausen Nazi concentration camp. Meanwhile, Hanna’s brother Bogdan was among the Polish reserve officers shot by the Soviets in Katyn.

After the invasion of Poland, Archbishop Adam Stefan Sapieha of Krakow formed the Civic Committee for Social Aid. Undeterred by her family’s losses, Hanna became an active member, according to the World Federation of the Catholic Medical Associations, helping to organize hiding places for Jewish orphans fleeing the Krakow Ghetto and secure new homes for Polish refugees coming from Warsaw after the city’s nearly complete destruction in 1944. After the war, Chrzanowska went to New York on a one-year stipend to study nursing. Upon returning, she published books and articles on family nursing and taught in nursing schools. She also started to organize annual retreats for health care professionals to the Marian Shrine of Jasna Gora in Czestochowa, much to the chagrin of Poland’s postwar communist government.

By the 1950s, Chrzanowska had settled in Krakow. Although before the war the Catholic Church in Poland played a leading role in charitable work (as it does today), under communism the atheistic regime sought to curb that role. Yet she defied the authorities and established a system of “parish nursing” in Krakow. Later, her friend Teresa Strzembosz would develop a similar system in Warsaw. By the 1970s, most parishes in Krakow participated in this system.

Parish nursing was a response to the fact that there were many sick, suffering people within a parish’s borders requiring medical attention, but their plight was invisible to most. Chrzanowska’s collaborators would come to the homes of these people and not only attend to their medical needs, but also clean their homes (many such patients were greatly neglected) and offer them company and friendship.

Initially, Chrzanowska worked alone. Eventually, nuns would help her, and, later, she succeeded in encouraging a growing army of university students from the student ministry at St. Anne’s Collegiate Church to volunteer and come to sick parishioners’ homes.

Chrzanowska stressed that volunteers would be obliged to form a close bond with those under their care and see them regularly. Her work and Christian charity has been detailed in Tygodnik Powszechny, a Polish Roman Catholic weekly magazine, by Father Adam Boniecki, who cooperated with her when he was in charge of the student ministry at St. Anne’s Collegiate Church.

Chrzanowska responded to all with love, even in the most difficult cases, according to the Polish version of the Aleteia website. Once, for example, she was called to attend to a paralyzed 93-year-old woman with a hole in her forehead, which was the result of cancer.

In developing parish nursing in Krakow, Chrzanowska was motivated, above all, by her faith. She was particularly drawn to the Benedictine charism of work and prayer, becoming a Benedictine oblate.

Reading the Vatican II document Lumen Gentium, which speaks of the role of the laity in the Church, greatly inspired Chrzanowska in engaging laypeople to actively seek out the sick and suffering.

She found a kindred spirit in Cardinal Karol Wojtyła, the future Pope John Paul II, who was then the archbishop of Krakow, who asked her to give a speech on the role of the laity in the Church during the synod he held to implement the Council’s teaching in his archdiocese.

With Chrzanowska’s help, Cardinal Wojtyła would visit dozens of sick Cracovians, preferably those in the most desperate conditions, in their homes each year.

Chrzanowska reached out to all the sick, Catholic and non-Catholic alike, exhibiting charity to all while not proselytizing. However, the loving Christian witness of Chrzanowska and her helpers led to many conversions.

For example, Sister Serafina, a nun who closely worked with her, attended to an atheist mathematics professor suffering from rheumatism, according to Zuchniewicz’s book.

“When will you start converting me?” he would ask sarcastically.

Over time, however, he became so impressed with her love and kindness that he had a conversion and asked to confess to a priest before his death. “There’s Kant’s philosophy, and there’s the philosophy of the Gospel,” he proclaimed.

Eventually, the nurse’s helpers and the sick they attended to formed a community. An annual retreat was held for the sick in Trzebinia; its participants looked forward to it all year.

When Hanna Chrzanowska died in 1973, the Carmelite basilica was crowded with mourners for her funeral Mass. The church was filled with wheelchairs with the many sick people to whom Chrzanowska gave hope, as well as the students and nuns who cared for them.

The funeral Mass was celebrated by Cardinal Wojtyła, who also gave the homily. In it, the future pope said: “Thank you, Hanna, for being with us. You are the embodiment of the Sermon on the Mount, especially the blessing that says: ‘Blessed are the merciful.’”

Although when most Catholics hear the word “vocation” they think of priests and members of religious orders, Hanna Chrzanowska shows that laypeople also have a vocation and that it can be no less heroic or saintly.

Filip Mazurczak writes from New York
SOURC

Beata Anna Chrzanowska Oblata benedettina


Varsavia, Polonia, 7 ottobre 1902 – Cracovia, Polonia, 29 aprile 1973

Hanna Helena Chrzanowska, nata a Varsavia in Polonia il 7 ottobre 1902, era di famiglia in parte cattolica, in parte protestante. Durante la guerra tra Polonia e Russia, si prese cura dei soldati feriti e comprese che quella doveva essere la sua missione: nel 1929 iniziò gli studi da infermiera, approfonditi in Francia e Belgio. Nel 1937 contribuì a fondare l'Associazione delle Infermiere Cattoliche Polacche, consolidata vent’anni più tardi. Nel corso della seconda guerra mondiale aiutò in vario modo i rifugiati e gli sfollati, con particolare attenzione ai bambini orfani. Terminato il conflitto, studiò negli Stati Uniti. In seguito, anche con la collaborazione di don Karol Wojtyla, poi papa Giovanni Paolo II, istituì un servizio parrocchiale infermieristico a domicilio. Nel 1957 divenne Oblata benedettina del monastero di Tymiec, impegnandosi ancora di più a cercare il volto di Gesù nei malati. Colpita a sua volta da un tumore, morì il 29 aprile 1973 a Cracovia. È stata beatificata il 28 aprile 2018 a Cracovia, sotto il pontificato di papa Francesco. I suoi resti mortali sono venerati nella chiesa di San Nicola a Cracovia, mentre la sua memoria liturgica cade il 28 aprile, giorno anniversario della beatificazione e vigilia di quello della sua nascita al Cielo.

I primi anni

Hanna Helena Chrzanowska nacque il 7 ottobre 1902 a Varsavia, in Polonia. Suo padre, Ignacy Chrzanowski, professore di Letteratura polacca, proveniva da una famiglia di proprietari terrieri. Sua madre, Wanda Szlenker, era invece figlia di industriali e di confessione protestante. Una sorella della madre, Zofia Szlenker, aveva fondato un ospedale pediatrico a Varsavia ed era stata direttrice della Scuola Infermieristica di Varsavia.

Hanna fu battezzata nella chiesa parrocchiale di Sant’Adalberto a Wązownia, residenza estiva dei suoi nonni materni. Prima di lei, i genitori avevano avuto un altro figlio, Bohdan.

Nel 1910 la famiglia si trasferì a Cracovia perché il padre aveva ottenuto la cattedra di Storia della letteratura presso l’Università Jagellonica. Hanna cominciò a studiare in una piccola scuola privata, tenuta dalla signorina Stanisława Okołowiczowa, in via Pańska. Dal 1917 al 1920 fu allieva del liceo delle Orsoline: si diplomò col massimo dei voti.

Il sogno di diventare infermiera

Appena terminati gli studi, s’iscrisse a un corso della Croce Rossa, per curare le vittime della guerra tra Polonia e Russia. Lì incontrò per la prima volta Stella Tylska, un’infermiera americana. Contribuì allo sforzo bellico anche raccogliendo vestiti e cibo dai cittadini di Cracovia. L’impegno infermieristico divenne più concreto quando venne destinata a un’unità di chirurgia.

Nel dicembre 1920 s’iscrisse alla facoltà di Filosofia dell’Università Jagellonica. Tuttavia, lasciò l’università non appena seppe che, a Varsavia, era stata fondata una nuova scuola per infermiere, guidata dall’americana Helen Bridge. Conseguì il diploma nel giugno 1924: subito dopo, ottenne delle borse di studio che la portarono in Francia e in Belgio.

Impegno sul campo e sulla stampa

Dal 1926 al 1929 fu istruttrice nell’Istituto Universitario d’Infermieristica a Cracovia. Dal 1929 al 1939, tornata a Varsavia, collaborò al mensile «Pielȩgniarka Polska» («L’Infermiera Polacca»), la prima rivista professionale per infermiere in Polonia. Traduceva articoli dalla stampa straniera, ma ne produceva anche di propri, da sola o in collaborazione.

Dal 1931 al 1933 fu vicedirettrice della Scuola Infermieristica di Varsavia. Nel 1935 collaborò a preparare la legge che regolava l’attività delle infermiere in Polonia. Tre anni più tardi, insieme a Teresa Kulczyńska, scrisse il manuale «Zabiegi Pielȩgniarskie» («Tecniche Infermieristiche»), che fu ristampato più volte. 

Oltre a quest’attività, portava avanti anche quella più propriamente letteraria. Sotto lo pseudonimo di Agnieszka Osiecka, nel 1934 diede alle stampe il romanzo «Niebieski Klucz» («La Chiave del Paradiso»), mentre nel 1938 pubblicò un altro romanzo, «Krzyż na piasku» («Una croce nella sabbia»). Sempre nel 1938, vide pubblicate alcune sue poesie sulla rivista letteraria «Myśl Narodowa».

Durante la seconda guerra mondiale

Lo scoppio della seconda guerra mondiale causò ad Hanna numerose sofferenze. Il 2 ottobre 1939, durante la battaglia di Varsavia, sua zia Zofia morì. Il 6 novembre, suo padre fu arrestato nell’ambito della Sonderaktion Krakau, ovvero un’operazione con cui l’esercito tedesco intendeva sterminare gli intellettuali polacchi. Insieme ad altri professori della Jagellonica e di altre università, fu deportato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, dove morì poco dopo, nel gennaio 1940. Nella primavera del 1940, infine, suo fratello Bohdan, fatto prigioniero di guerra dalle truppe sovietiche, fu ucciso nei boschi di Katyń.

Pur in mezzo a quelle prove, Hanna non perse la speranza e non si chiuse in sé. All’inizio della guerra era già tornata a Cracovia e si era offerta volontaria per dedicare tutte le sue competenze all’assistenza di rifugiati, prigionieri e persone senza casa.

Si prese particolarmente cura dei bambini orfani, anche di quelli ebrei: cercò di trovare loro delle famiglie che li accogliessero e dei rifugi sicuri. Per risollevare i giovanissimi, organizzò dei campi estivi fuori Cracovia e promosse banche alimentari per i bambini che morivano di fame. Il suo impegno era instancabile, a rischio della propria vita e della propria salute.

Per Hanna il tempo della guerra fu necessario per scoprire nella sua vita la presenza di Dio. Intensificò la preghiera personale e riconobbe il significato dell’Eucaristia. In quel modo, la sua attività filantropica divenne ancora più pervasa da una genuina carità cristiana.

Insegnante per le giovani infermiere

Terminato il conflitto, riprese a lavorare presso la Scuola Infermieristica di Cracovia, come responsabile del dipartimento d’infermieristica di comunità. Nel 1946 fu inviata negli Stati Uniti: grazie a una borsa di studio promossa dall’UNRRA (Amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza e la riabilitazione), si dedicò all’approfondimento dell’infermieristica a domicilio.

Tramite il Ministero della Salute, dal 1947 al 1949 tenne lezioni sull’infermieristica di comunità, nell’ambito della formazione permanente per le infermiere qualificate. Di pari passo e fino al 1950, insegnava tecniche per l’infermieristica comunitaria a Varsavia.

Nelle sue lezioni, metteva sempre un forte accento sull’educare le giovani infermiere in spirito di autentico servizio ai malati. Le invitava a trattare i pazienti con dignità e le avvertiva di stare attente non solo alla loro salute fisica, ma anche ai loro bisogni spirituali.

Un esame di coscienza per le infermiere

Tra gli scritti di Hanna è stato trovato uno schema per l’esame di coscienza, destinato alle infermiere. Diviso in cinque sezioni, presenta una serie di domande che spaziano dal rapporto con le colleghe e con i medici a quello con i cappellani ospedalieri, dal modo con cui considerare una vita nascente a rischio, a quello con cui trattare gli scarti della società. Tutto questo senza trascurare la preghiera, la frequenza ai Sacramenti e l’unione con Dio anche sul posto di lavoro.

L’articolo 2 della sezione I costituisce il programma di vita che Hanna si era sempre data: «Il mio lavoro non è solo la mia professione, ma anche la mia vocazione. Comprenderò questa vocazione se penetrerò e assimilerò le parole di Cristo: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”».

Oblata bendedettina e conferenziera

A partire dal 1951, Hanna cominciò a frequentare l’abbazia benedettina di Tyniec, fuori dalla città di Cracovia. Diventata vicedirettrice della Scuola Infermieristica di Cracovia nel 1951, quattro anni più tardi cominciò una serie di conferenze religiose e di ritiri spirituali dedicati alle infermiere.

Nel 1957, dopo vent’anni di lavoro, diede vita all’Associazione delle Infermiere Polacche. Prese attivamente parte all’associazione in quanto direttrice della sezione di Storia dell’Infermieristica a Cracovia. Nello stesso anno, divenne Oblata benedettina dell’abbazia di Tyniec.

Sempre nel 1957, Hanna fu licenziata dalla Scuola Infermieristica. Le fu offerto il posto di direttrice della Scuola Psichiatrica d’Infermieristica di Kobierzyn, ma un anno dopo l’istituto fu chiuso. Dovette quindi andare in pensione anticipata, con la paga di un’insegnante.

Un aiuto da don Wojtyła

Incapace di restare a riposo, cercò un nuovo modo per spendere le sue doti a servizio dei malati. La sua esperienza l’aveva portata, anche con l’apporto della spiritualità benedettina, a cercare in ciascuno di essi il volto di Gesù sofferente. Inoltre, era consapevole che molte persone, a Cracovia, fossero sole, abbandonate, anziane, disabili o affette da malattie croniche. Il sistema sanitario del regime socialista le sembrava inefficiente per tutti quei malati.

Di conseguenza, decise di organizzare un sistema di assistenza domiciliare professionale, appoggiandosi alle strutture della Chiesa. Si rivolse quindi a don Karol Wojtyła, viceparroco della parrocchia di San Floriano, per un consiglio.

Il servizio infermieristico parrocchiale

Il futuro arcivescovo di Cracovia, poi cardinale, Papa col nome di Giovanni Paolo II e Santo, la indirizzò a sua volta a don Ferdynand Machay, arciprete della basilica dell’Assunzione della Beata Vergine Maria, nella città vecchia. Lui le diede piena approvazione affinché nella sua parrocchia venisse impiantato quel servizio. Ottenuto il sostegno delle autorità ecclesiastiche, Hanna organizzò il servizio infermieristico parrocchiale non solo nella città di Cracovia, ma in tutta la diocesi.

I volontari appartenevano a ogni ceto sociale e stato di vita: infermiere, suore, sacerdoti, seminaristi, medici, professori e studenti. Col loro aiuto, Hanna organizzò vacanze e ritiri per i pazienti, in modo da aiutarli a riscoprire le gioie della vita e dare loro la forza di portare ogni giorno la propria croce.

Andava a Messa tutti i giorni, perciò riteneva che anche le persone costrette a letto dovessero ricevere quel beneficio. Grazie a lei, divenne usuale la celebrazione della Messa nelle case dei malati, insieme alla visita da parte dei parroci. Continuò poi a formare i volontari con le sue conferenze, nelle quali spiegava i principi della cura anche dal punto di vista spirituale. 

Riconoscimenti pubblici

Fu anche insignita di molte onorificenze. Nel 1957 le fu conferito un premio dal governo polacco per il suo lavoro nel Servizio Sanitario. Il 21 dicembre 1965, poi, ottenne la croce «Pro Ecclesia et Pontifice», che le fu assegnata dal Beato papa Paolo VI grazie alla mediazione di monsignor Wojtyła. Il 17 dicembre 1971, infine, ricevette dal governo la Croce degli Ufficiali dell’Ordine della Polonia Restituta.

La malattia e la morte

Nel 1963, però, ad Hanna era stato diagnosticato un tumore. Tre anni più tardi, si sottopose a un’operazione chirurgica e al trattamento coi raggi X, presso il dipartimento di Ginecologia nell’Ospedale dell’Università di Cracovia. Morì a Cracovia, il 29 aprile 1973: quell’anno era la seconda domenica dopo Pasqua.

Il cardinal Wojtyła celebrò i suoi funerali. Nell’omelia affermò: «Hanna, ti ringraziamo perché tra noi sei stata,con la tua grande semplicità, con questa pace interiore, e con questo calore interiore, un’incarnazione delle beatitudini di Cristo dal discorso della Montagna, specialmente di quella che dice: “Beati i misericordiosi”».

I suoi resti mortali furono sepolti nel cimitero di Rakowiecki. Il 6 aprile 2016 sono stati riesumati e, dopo la ricognizione canonica, traslati nella cripta della chiesa di San Nicola a Cracovia. Il 4 aprile 2018 sono stati prelevati dalla cripta: la cassetta di rame che li conteneva è stata sistemata in un sarcofago di alabastro, dono dell’Associazione Cattolica delle Infermiere e delle Ostetriche polacche. Il sarcofago è stato quindi collocato nella chiesa di San Nicola, sotto l’altare su cui è esposto un quadro dell’incoronazione della Vergine.

La causa di beatificazione fino al decreto sulle virtù eroiche

Nel 1995 le socie dell’Associazione Cattolica delle Infermiere e delle Ostetriche polacche trasmisero una richiesta all’arcivescovo di Cracovia, il cardinal Franciszek Macharski, per aprire la causa di beatificazione di Hanna. Il cardinale, che aveva dichiarato che Hanna era la coscienza della professione dell’infermiera, rispose positivamente alla richiesta. Era la prima volta che un gruppo professionale si rendeva attore di un procedimento canonico.

Il 28 aprile 1997 la Santa Sede rilasciò il nulla osta per l’avvio della causa per l’accertamento dell’eroicità delle virtù cristiane da parte di Hanna. L’inchiesta diocesana, aperta il 3 novembre 1998, si concluse nel 2003 e fu convalidata l’11 gennaio 2008. 

La “Positio super virtutibus”, consegnata nel 2011, è stata esaminata dai Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi il 27 novembre 2012. Anche i cardinali e i vescovi della stessa Congregazione hanno emesso a loro volta parere positivo.

Il 30 settembre 2015, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui Hanna Chrzanowska poteva essere dichiarata Venerabile.

Il miracolo per la beatificazione

Come possibile miracolo per ottenere la sua beatificazione è stato preso in esame un caso avvenuto nel 2001 a Cracovia. Una donna sessantaseienne, Zofia Szlędy-Cholewińska, aveva avuto un’emorragia cerebrale unita a un lieve infarto del miocardio, che produssero una paralisi a entrambe le gambe e a una mano. Le sue condizioni erano così compromesse da impedire un intervento chirurgico, quindi la donna fu portata in terapia intensiva.

A quel punto, perse conoscenza, mentre i medici mantenevano le sue attività vegetative sotto controllo. Se anche si fosse ripresa, il suo corpo avrebbe mantenuto i segni della paralisi e lei sarebbe andata incontro a continui ricoveri.

All’improvviso, la paziente riaprì gli occhi: non solo parlava normalmente, ma riusciva anche a muovere gli arti che erano stati paralizzati. Fu tenuta sotto osservazione ancora per qualche tempo, ma alla fine fu dimessa completamente guarita.

Il giorno in cui la donna aveva avuto l’attacco cardiaco, una sua amica infermiera, membro dell’Associazione Cattolica delle Infermiere e delle Ostetriche, aveva partecipato alla Messa mensile nella quale si pregava per chiedere la beatificazione di Hanna Chrzanowska. L’infermiera chiese alle sue consocie e colleghe d’iniziare una novena di preghiera per la guarigione della sua amica. Zofia raccontò in seguito che, durante il coma, aveva visto proprio Hanna sorriderle e dirle che sarebbe andato tutto bene.

L’inchiesta sul miracolo e la beatificazione

Gli atti dell’inchiesta diocesana sull’asserito miracolo sono stati convalidati il 21 maggio 2010. In seguito ai pareri positivi della Consulta medica, dei Consultori teologi e dei cardinali e dei vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui la guarigione di Zofia Szlędy-Cholewińska era da considerare inspiegabile, completa, duratura e ottenuta per intercessione della Venerabile Hanna Chrzanowska.

Il rito della beatificazione è stato celebrato il 28 aprile 2018 presso il Santuario della Divina Misericordia a Cracovia-Łagiewniki. A presiederlo, in qualità d’inviato del Santo Padre, il cardinal Angelo Amato. La sua memoria liturgica, per la diocesi di Cracovia, è stata fissata al 28 aprile, giorno anniversario della beatificazione e vigilia di quello della sua nascita al Cielo.


Autore: Emilia Flocchini


Saint AUGUSTIN SCHOEFFLER, prêtres de la Société des Missions étrangères et martyr

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Saint Augustin Schoeffler

Martyr au Tonkin ( 1851)

Voir sa biographie sur le site des Missions étrangères de Paris.

Augustin Schoeffler, né le 22 novembre 1822 à Mittelbronn, fit ses études à Pont-à-Mousson, puis à Nancy. Il entra dans la congrégation des prêtres des Missions étrangères de Paris. En 1847, il partit pour la mission du Tonkin occidental, travailla plusieurs années et fut décapité pour la foi à Son Tay, le 1er mai 1851. Il a été béatifié le 27 mai 1900 et canonisé le 19 juin 1988. 

Le saint patron du Grand Séminaire de Lorraine est un jeune prêtre missionnaire originaire de Mittelbronn, dans l'Est lorrain, qui fut martyrisé au Tonkin en 1851: Saint Augustin Schoeffler. C'est une belle figure dans l'histoire de notre Eglise, qui représente certainement un exemple à imiter pour les séminaristes. (diocèse de Metz)

Des internautes nous signalent:

- au diocèse de Metz, depuis quelques années, Saint Augustin Schoeffler et ses compagnons sont fêtés le 25 novembre.

-Missionnaire Lazariste né 22-11-1822 Mittelbronn (57) décédé 01-05-1851 Son-Tay (tête tranchée pour la foi Catholique) déclaré Vénérable 24-09-1857 par Pie IX déclaré Bienheureux 07-05-1900 par Léon XII déclaré Saint 19-06-1988 par Jean-Paul II.

Au 1er mai au martyrologe romain:

À Son-Tay au Tonkin, en 1851, saint Augustin Schoeffler, prêtre de la Société des Missions étrangères de Paris et martyr. Né à Mittelbronn en Lorraine, il fut envoyé dans la mission du Tonkin occidental, et, après trois ans de ministère, il fut fait prisonnier, puis, sur l'ordre de l'empereur Tu Duc, il fut décapité au champ dit des Cinq arpents, recevant ainsi la grâce du martyre qu'il avait demandé à Dieu.
Martyrologe romain
«Les chrétiens ne détrônent pas les rois, même dans les temps de persécution. Vous apprendrez ce qu'est leur fidélité si vous régnez un jour»



Louis Stienne. Statue d'Augustin Schoeffler église Notre-Dame de l'Assomption à Phalsbourg


Saint Augustin Schœffler, Martyr

Né le 22 novembre 1822, Augustin Schoeffler était l’aîné de six enfants d’un instituteur de Mittelbronn, alors dans le diocèse de Nancy. À cette époque, l’instituteur était, en même temps, secrétaire de mairie et chantre à l’église. Comme il semblait doué pour les études, son père le mit en pension chez son oncle, curé d’Arraye, où il fit sa première communion. De là, il entra au petit séminaire de Pont-à-Mousson, car, s’il envisageait volontiers d’imiter son oncle, il lui fallait encore apprendre le français ; de fait, sa langue maternelle était l’allemand. Cependant, il termina ses études au collège de Phalsbourg, ville natale de son père.

Augustin entra au grand séminaire de Nancy, en novembre 1842, où il fut nommé « préfet de chœur ». Puis il rentre au Séminaire des Missions Étrangères. Il fut ordonné prêtre le 29 mai 1847 et reçut sa mission pour le Tonkin. Le 18 novembre, il embarqua à Anvers à destination de la procure des missions d’Extrême-Orient. Juste avant le départ, il reçut des nouvelles concernant sa mission : la persécution venait de reprendre en Cochinchine et au Tonkin.

Dans ce contexte, Schoeffler pénétra clandestinement dans sa mission du Tonkin. Il fallut d’abord se déguiser en Chinois : la moitié du crâne rasé, une queue de cheveux postiches, une longue robe de toile grise fendue de chaque côté. Le jeune missionnaire était heureux de découvrir sa seconde patrie et s’émerveillait de la foi des chrétiens, et des risques qu’ils prenaient pour y demeurer fidèles. Il assimila rapidement la langue et, au bout de six mois, fut capable d’entendre les confessions et de prononcer quelques courtes instructions. Ainsi put-il accompagner son évêque dans sa tournée pastorale. Il était stupéfait de l’ampleur des foules qui se rassemblaient pour la circonstance. Il donna ensuite de ses nouvelles au supérieur du grand séminaire de Nancy : « Depuis que le roi Tu Duc est monté sur le trône de ses ancêtres, notre sainte religion a vu ses jours s’améliorer. Nous nous tenons à moitié cachés, à moitié à découvert. Les mandarins connaissent la présence d’Européens dans leur préfecture, mais ils semblent fermer les yeux. On dirait que l’on voudrait donner la liberté de religion et que l’on n’ose encore ».

L’évêque l’envoya dans la province de Son Tây, au nord-ouest de la mission, c’est là que Jean-Charles Cornay avait subi le martyre quatorze ans plus tôt. Schoeffler arriva dans son nouveau district début 1851. Il était le seul Européen avec huit confrères vietnamiens et quinze mille chrétiens. Dans les montagnes, il y avait des populations aborigènes qui n’avaient jamais entendu parler de l’Evangile. « C’est ici que j’espère mourir », écrivit-il à l’abbé Stricher, un ami de Lorraine.

Mais les édits du nouvel empereur sont clairs : « Les prêtres européens seront jetés dans les abîmes de la mer ou des fleuves. Les prêtres vietnamiens, qu’ils foulent ou non la croix, seront coupés par le milieu du corps. Quiconque dénoncera un prêtre européen recevra huit taëls d’argent. Ceux qui auront caché un prêtre européen seront coupés par le milieu des reins et jetés au fleuve ».

Dès son arrivée au Tonkin, Schoeffler avait écrit : « Le petit coup de sabre serait-il réservé à quelqu’un d’entre nous ? Quelle grâce ! Jusqu’ici je n’ai osé la demander ; mais maintenant, chaque jour au saint Sacrifice, j’offre mon sang à Jésus pour celui qu’il a versé pour moi ».

Dénoncé au chef de canton, Schoeffler fut arrêté en mars 1851, lors de la proclamation de l’édit impérial.

Schoeffler comparut devant le gouverneur de la province de Son Tây, comme Cornay quatorze ans auparavant. Il subit un interrogatoire au sujet de son identité et le motif de sa présence au Vietnam. On lui demanda s’il savait qu’il était interdit d’y prêcher le christianisme sous peine de mort. Il répondit qu’il le savait. On lui enjoignit de marcher sur la croix. Il refusa. Un deuxième interrogatoire n’apporta rien de plus. Le gouverneur n’avait plus qu’à adresser son rapport à l’empereur. Schoeffler fut donc enfermé, chargé de la cangue, dans la prison des condamnés à mort.

Le 11 avril, la sentence impériale revint de la capitale : « Les lois de l’empire défendent très sévèrement la religion de Jésus. Cependant le sieur Augustin, prêtre de cette religion, a osé pénétrer clandestinement dans Nos États pour la prêcher en secret, séduire et tromper le peuple. Arrêté, il a reconnu la vérité du fait, il a tout avoué. Que le sieur Augustin ait la tête tranchée sur-le-champ et jetée dans le fleuve ».

Le 1er mai 1851, le martyr, entouré de l’imposante force armée et de la foule, s’agenouilla et pria un moment. À la demande du bourreau, qui semblait plus ému que lui, il se dénuda le torse et se laissa lier les mains dans le dos. Il leva les yeux au ciel et dit : « Ce que vous avez à faire, faites-le vite ». Quand cymbales et tambours retentirent, le bourreau abattit son sabre.

Après le départ des soldats, on revit ce qui s’était passé treize ans plus tôt après l’exécution de Jean-Charles Cornay : de nombreuses personnes – chrétiennes ou non – s’approchèrent pour tremper des morceaux de coton dans le sang du martyr. On vit même un mandarin récupérer une tunique blanche éclaboussée de sang : elle avait été placée par ses soins sur le lieu de l’exécution. Il reçut plusieurs coups de rotin en châtiment de cette manifestation indigne d’un fonctionnaire de l’empire, mais il emporta chez lui la tunique.

En exécution de la sentence, des soldats jetèrent la tête du martyr dans le fleuve Rouge. Elle ne fut jamais retrouvée. Le corps fut inhumé sur place, selon la loi, dans un cercueil que les chrétiens avaient préparé. Deux jours plus tard, ils l’exhumaient discrètement et allaient le réinhumer dans un village chrétien.

Augustin Schoeffler mourut à l’âge de 29 ans, trois ans après son arrivée dans sa mission du Tonkin. Il fut le premier missionnaire victime de la deuxième vague de persécution du Vietnam, menée par l’empereur Tu Duc, qui fera encore plus de victimes que la première, celle de Minh Mang.

Le décret d’introduction pour sa cause de Béatification est daté du 24 septembre 1857. Le bref de Béatification est signé parle pape Léon XIII le 7 mai 1900, et les solennités furent célébrées le 27 du même mois, à Saint-Pierre de Rome. Sa fête a été transférée du 20 juin au 6 mai en 1960.

Augustin Schoeffler, patron des séminaristes du diocèse de Nancy depuis 1900, a été canonisé le 16 juin 1988 par le pape Jean-Paul II. Il est aussi le patron du séminaire interdiocésain de Lorraine.

[1] Béatifié sous Léon XIII en 1900, canonisé par Jean-Paul II en 1988

die 6 maii
ante CR 1960 : die 20 iunii
SANCTI AUGUSTINI SCHÆFFLER
Martyris
Duplex (CR 1960 : III classis)

Ant. ad Introitum. Is. 18, 2 et 3

Ite, Angeli velóces, ad gentem convúlsam, ad pópulum terríbilem : omnes inhabitatóres orbis, cum elevátum fúerit signum in móntibus, vidébitis. (T.P. Allelúia, allelúia.)

Ps. 46, 2.
Omnes gentes, pláudite mánibus : jubiláte Deo in voce exsultatiónis.
V/.Glória Patri.
Oratio.

Beáti Mártyris tui Augustíni nos, Dómine, præclára fídei exempla in tuo servítio ita confírment : ut fidéles usque ad mortem inveníri mereámur.
Lectio Isaíæ Prophetæ.
66, 18-20

Hæc dicit Dóminus : Vénio ut cóngregem, cum ómnibus gentibus et linguis, et vénient, et vidébunt glóriam meam. Et ponam in eis signum, et mittam ex eis qui salváti fúerint, ad gentes in mare, in Africam, et Lýdiam, tendéntes sagíttam ; in Itáliam et Grǽciam, ad ínsulas longe, ad eos qui non audiérunt de me, et non vidérunt glóriam meam. Et annuntiábunt glóriam meam géntibus : et addúcent omnes fratres vestros de cunctis géntibus donum Dómino, ad montem sanctum meum Jerúsalem.
Graduale. Zach. 1, 10

Isti sunt, quos misit Dóminus, ut perámbulent terram.

V/. Luc. 9, 6 Egréssi circuíbant, evangelizántes et curántes ubíque.
Allelúia, allelúia. V/. Is. 26, 2. Aperíte portas, et ingrediátur gens justa, custódiens veritátem.
Post Septuagesimam, ommissis Allelúia et versu sequenti, dicitur
Tractus. Ps. 20, 3-4

Desidérium ánimæ eius tribuísti ei : et voluntáte labiórum eius non fraudásti eum.

V/. Quóniam prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis.

V/. Posuísti in cápite eius corónam de lápide pretióso.
In missis tempore paschali omittitur graduale, et eius loco dicitur :

Allelúia, allelúia. V/. Is. 26, 2. Aperíte portas, et ingrediátur gens justa, custódiens veritátem.
Allelúia. V/. Is. 52, 10. Vidérunt omnes fines terræ salutáre Dei nostri. Allelúia.
+ Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

10, 34-42.

In illo tempore : Dixit Jesus discípulis suis : Nolíte arbitrári quia pacem vénerim míttere in terram ; non veni pacem míttere, sed gládium. Veni enim separáre hóminem advérsus patrem suum, et fíliam advérsus matrem suam, et nurum advérsus socrum suam : et inimíci hóminis, domestici ejus. Qui amat patrem aut matrem plus quam me, non est me dignus. Et qui amat fí-lium aut fíliam super me, non est me dignus. Et qui non áccipit crucem suam, et séquitur me, non est me dignus. Qui invénit ánimam suam, perdet illam ; et qui perdíderit ánimam suam propter me, invéniet eam. Qui récipit vos, me récipit : et qui me récipit, récipit eum qui me misit. Qui récipit Prophétam in nómine Prophétæ, mercédem Prophétæ accípiet ; et qui récipit justum in nómine justi, mercédem justi accípiet. Et quicúmque potum déderit uni ex mínimis istis cálicem aquæ frígidæ tantum in nómine discípuli : amen dico vobis, non perdet mercédem suam.
Ant. ad Offertorium. Ps. 53, 8, 9

Voluntárie sacrificábo tibi : et confitébor nómini tuo, Dómine : quóniam ex omni tribulatióne eripuísti me. (T.P. Allelúia.)
Secreta.

Beáti Mártyris tui, Augustíni intercessióne, quǽsumus, Dómine, Ecclésiæ tuæ commendétur oblátio ; cujus et prædicatiónibus et exémplis illustrátur.
Ant. ad Communionem. Apoc. 22, 1 et 2

Ostendit mihi Angelus flúvium aquæ vitæ, procedéntem de sede Dei et Agni, et lignum vitæ áfferens fructus duódecim, ad sanitátem géntium.(T.P. Allelúia.)
Postcommunio.

Per sacrifícium, Dómine, quod in honórem beáti Mártyris tui Augustíni majestáti tuæ obtúlimus, præcónes evangélicos multíplica et confírma : ut vera fides ubíque lúceat ; et magnificetur in géntibus nomen tuum.


le 6 mai
avant 1960 : le 20 juin
SAINT [1] AUGUSTIN SCHŒFFLER
Martyr
Double (1960 : IIIème classe)

Introït
Allez, rapides messagers, vers le peuple révolté, vers le peuple terrible. Vous tous qui peuplez la terre, quand on élèvera le signe du salut sur la Montagne, regardez ! (T.P. Alléluia, alléluia.)
Peuples de l’univers, faites éclater vos applaudissements, acclamez Dieu par vos cris de joie.
Collecte
Seigneur, que le merveilleux exemple de fidélité à votre service que nous donne le bienheureux Martyr Augustin, nous aide à demeurer fidèles jusqu’à la mort.
Lecture du Livre d’Isaïe le Prophète.
Voici la parole du Seigneur : Je viens pour réunir les hommes de toute race et de toute langue ; ils viendront et ils verront ma gloire. Et je les marquerai d’un signe et j’enverrai certains de ceux qui seront sauvés vers les païens du littoral, vers les tireurs d’arc d’Afrique et de Lybie, en Italie, en Grèce, vers les îles lointaines, vers ceux qui n’ont pas entendu parler de moi et n’ont point vu ma gloire. Et ces messagers annonceront ma gloire aux païens et ils amèneront des frères venus de toute la terre, comme un don au Seigneur, vers ma Montagne sainte, Jérusalem.
Graduel

Voici ceux que le Seigneur a envoyés pour parcourir la terre.
V/. Ils s’en allèrent marchant, prêchant la bonne nouvelle et opérant partout des guérisons.
Allelúia, allelúia. V/. Ouvrez les portes pour laisser entrer le peuple saint qui garde la vérité.
Après la Septuagésime, on omet l’Alléluia et son verset et on dit :
Trait
Vous lui avez accordé le désir de son cœur et vous ne l’avez point frustré de la demande de ses lèvres.
V/. Car vous l’avez prévenu des plus douces bénédictions.
V/. Vous avez mis sur sa tête une couronne de pierres précieuses.
Aux messes pendant le temps pascal, on omet le graduel et à sa place on dit :

Allelúia, allelúia. V/. Ouvrez les portes pour laisser entrer le peuple saint qui garde la vérité.
Alléluia. V/. Tous les confins de la terre verront le salut de notre Dieu. Alléluia !
Lecture du Saint Evangile selon saint Mathieu.
En ce temps-là, Jésus dit à ses disciples : Ne croyez pas que je sois venu apporter la paix sur la terre : je ne suis pas venu apporter la paix, mais le glaive. Oui, je suis venu séparer l’homme de son père, la fille de sa mère, la belle-fille de sa belle-mère : on aura pour ennemis les gens de sa propre maison. Celui qui aime son père ou sa mère plus que moi n’est pas digne de moi ; celui qui aime son fils ou sa fille plus que moi n’est pas digne de moi ; celui qui ne prend pas sa croix et ne me suit pas n’est pas digne de moi. Qui veut garder sa vie pour soi la perdra ; qui perdra sa vie à cause de moi la gardera. Qui vous accueille m’accueille ; et qui m’accueille accueille Celui qui m’a envoyé. Qui accueille un prophète en sa qualité de prophète recevra une récompense de prophète ; qui accueille un homme juste en sa qualité d’homme juste recevra une récompense d’homme juste. Et celui qui donnera à boire, même un simple verre d’eau fraîche, à l’un de ces petits en sa qualité de disciple, amen, je vous le dis : il ne perdra pas sa récompense.
Offertoire

De grand cœur je t’offrirai un sacrifice et je rendrai grâces à ton Nom, Seigneur, car tu m’as délivré de toutes mes épreuves. (T.P. Alléluia.)
Secrète

Nous vous prions, Seigneur, d’agréer l’offrande de votre Église, grâce aux prières du bienheureux Martyr Augustin, qui l’a illustrée par sa prédication et ses exemples.
Communion

L’Ange me montra le fleuve d’eau vive sortant du trône de Dieu et de l’Agneau, et l’arbre de vie qui donne douze fois du fruit pour la guérison des païens. (T.P. Alléluia.)
Postcommunion

Seigneur, par le sacrifice que nous avons offert à votre divine Majesté, en l’honneur du bienheureux Augustin, multipliez et fortifiez les missionnaires de l’Évangile, afin que la vraie foi rayonne en tout lieu et que votre Nom soit loué par tous les peuples.



Louis Stienne. Statue d'Augustin Schoeffler église Notre-Dame de l'Assomption à Phalsbourg
Photographie de G.Garitan

PARCOURS DE ST AUGUSTIN SCHOEFFLER

Augustin SCHOEFFLER né le 22 11 1822 à MITTELBRONN, décédé le 01 05 1851 à SON TÂY .

Béatifié en mai 1900, Augustin SCHOEFFLER a été déclaré « Saint » le 19 juin 1988 par le pape Jean- Paul II.


Augustin SCHOEFFLER  est né le 22 novembre 1822 à MITTELBRONN, village de Lorraine.

Il  est fils d’Antoine SCHOEFFLER né en 1799 à PHALSBOURG et de Madeleine HEIMROTH.
Son père, d’abord instituteur à, s’installe en 1844 à Phalsbourg où il prend en gérance une auberge fréquentée par les ouvriers du Chemin de Fer. Il meurt le 22 mai 1847, âgé de 49 ans au moment de l’ordination à Paris de son fils Augustin.
Madeleine, la mère d’Augustin revient alors à MITTELBRONN où elle meurt le 17 février 1864 à l’âge de 63 ans.

Augustin est germanophone, dès l’âge de 6 ans, il est confié à son oncle Charles SCHOEFFLER, prêtre, qui lui apprend le français.

Au cours de sa jeunesse, il séjourne à ARRAYE ET HAN, à BETTBRONN et St LOUIS où son oncle est successivement curé.

Augustin a entre 11 et 19 ans et c’est durant ces années que s’éveille sa vocation sacerdotale et missionnaire.

Augustin fait sa première communion  le 13 avril 1834 à BETTBRONN.

En 1837, il commence ses études au Petit Séminaire de Pont à Mousson.

 Le 4 novembre 1842, Augustin entre au Grand  Séminaire de Nancy.

Le décès de son oncle Charles SCHOEFFLER survenu le 3 mars 1843 affecte fortement Augustin.

Le 1er juin 1844, Augustin est tonsuré au Grand Séminaire de Nancy avec 23 autres séminaristes, il est   sous-diacre le 6 mars 1846 et reçoit le diaconat le 6 juin de la même année.

Après cette ordination diaconale, Augustin ne peut obtenir de ses parents l’autorisation de partir pour  les missions. Devant  ce refus inflexion,  une grave décision s’impose au séminariste.

Début octobre 1846, le jeune diacre fait ses adieux à sa famille comme s’il se rendait au Grand  Séminaire de Nancy pour la dernière année de préparation à la prêtrise, il charge alors un ami prêtre de prévenir ses parents qu’ils ne le reverraient plus parce qu’il part pour les missions.

Ce n’est  que trois semaines plus tard, dans une lettre adressée à ses  parents qu’Augustin explique sa décision (lettre 24-18 octobre 1846) mais sa famille ne répond plus à ses lettres.

Augustin est maintenant au Séminaire des Missions Etrangères, 120 rue du Bac à Paris. Il manque d’argent. Dans une lettre à sa tante Elise il écrit : « je vous dirai franchement que je suis pauvre, 30 sous font toute ma fortune mais j’aime cette pauvreté car ce doit être ma vie » ( lettre 32- 29 décembre 1846)

Augustin est ordonné prêtre le 29 mai 1847. Il célèbre sa première messe le dimanche de la Sainte Trinité en l’église St François Xavier des Missions Etrangères. « Le plus beau jour de ma vie » écrit-il.

Le 18 septembre 1847, il quitte Paris pour Anvers et embarque à bord de l’Emmanuel pour une mission à TONKIN. Le naufrage du navire en rade d’Anvers reporte le départ pour l’Asie au 18 novembre 1847.

Quatre mois plus tard, Augustin arrive à SINGAPOUR ou il séjourne une quinzaine de jours avant d’embarquer sur le Prince Albert pour HONG KONG (mai 1848) puis MACAO. Une barque chinoise va le transporter à LA-FOU et de là au TONKIN où il arrive au mis de juillet 1848.

Après un temps consacré à l’apprentissage de la langue annamite, Augustin parcourt l’ANNAM et le TONKIN  pour visiter les communautés chrétiennes qui lui sont confiées. Le vicariat très étendu compte 120000 chrétiens. La mission s’étend sur sept provinces dans lesquelles œuvrent six missionnaires et cinquante prêtres indigènes.

Augustin est très vite épuisé par le surcroît de travail, le peu de sommeil, le régime alimentaire et le climat auquel  il n’est pas habitué. Sa santé est mauvaise et Cô-Dong , ainsi baptisé par ses frères tonkinois, a souvent recours à la médecine annamite.

Dans le même temps  la répression contre les chrétiens s’amplifie et un édit du mandarin met à prix la tête des missionnaires.

En 1849, au cours d’une tournée pastorale avec son évêque, Mgr Pierre RETORD, Augustin échappe de peu aux soldats du mandarin.

En 1850, une épidémie de choléra fait de nombreux morts dans la province où se trouve Augustin,
il est atteint par la maladie mais guérit.

En février 1851, un édit interdit aux missionnaires européens de prêcher la religion chrétienne.

Après avoir échappé plusieurs fois à la capture, au mois de mars 1851, sur dénonciation, Augustin est arrêté par les soldats du mandarin de SON TÂY.

 Reconnu coupable de « parcourir le royaume pour y prêcher la religion, séduire et tromper le peuple », il est décapité au sabre le 1er mai 1851 devant les soldats et le peuple assemblés.

Augustin est alors âgé de 29 ans.

Des soucis matériels, familiaux ajoutés aux nombreux deuils qu’a connus Augustin  donnent une tonalité parfois amère à ses lettres mais elles expriment la vie, les préoccupations, les idées, les préjugés et les projets d’un jeune homme marqué par sa terre natale, sa famille, l’Eglise et la société de son temps, à la recherche de Dieu et de sa vocation.




Augustin Schoeffler

Prêtre, Martyr, Saint


1822-1851

« Les chrétiens ne détrônent pas les rois, même dans les temps de persécution. Vous apprendrez ce qu’est leur fidélité si vous régnez un jour »
Né le 22 novembre 1822, Augustin Schoeffler était l’aîné de six enfants d’un instituteur de Mittelbronn, enMoselle.  À cette époque, l’instituteur était, en même temps, secrétaire de mairie et chantre à l’église.  À l’école, le jeune Augustin a laissé le souvenir d’un garçon doux et réaliste.  Comme il semblait doué pour les études, son père le mit en pension chez son oncle, curé d’Arraye, où il fit sa première communion.  De là, il entra au petit séminaire de Pont-à-Mousson, car, s’il envisageait volontiers d’imiter son oncle, il lui fallait encore apprendre le français ; de fait, sa langue maternelle était l’allemand. Cependant, il termina ses études au collège de Phalsbourg, ville natale de son père, où celui-ci était revenu, et assurait la comptabilité de plusieurs commerces.  Progressivement, la douceur d’Augustin laissa place « à une attitude fière reflétant plutôt une énergie non exempte d’une certaine rudesse ». Après un discernement, dans le but de savoir s’il devait être militaire ou prêtre, il déclara à sa sœur : « Quand je serai curé, tu viendras gouverner ma maison ».
C’est ainsi qu’Augustin entra au grand séminaire de Nancy, en novembre 1842, où il fut nommé « préfet de chœur » et dirigea son affaire d’une main de maître, toutefois sa douceur d’enfant réapparaissait lorsqu’il s’agissait de soutenir des séminaristes en difficulté.
En mars 1846, il écrivit à l’un de ses anciens condisciples devenu vicaire à Phalsbourg : « Très cher ami, vous m’avez dit que mon père avait l’intention de m’écrire sa façon de penser, et j’attendais toujours cette lettre afin de vous en faire part.  J’ai beau attendre, elle ne vient pas…  J’ai bien d’autres souffrances à attendre, et même je suis heureux d’avoir ce retard de la part de mes parents, car cela ne fera que fortifier de plus en plus ma vocation.  Veuillez donc passer encore une fois chez nous, et après avoir de nouveau un peu sondé le terrain, donnez-moi des nouvelles le plus tôt qu’il vous sera possible ».
Alors que le supérieur du séminaire avait formulé un avis positif quant à sa requête, l’évêque, ainsi que les Pères du Séminaire des Missions Étrangères tardaient à répondre, c’est pourquoi il poursuivit : « Je n’ai pas encore reçu non plus de réponse de Paris, je ne sais pourquoi on tarde si longtemps :  voilà déjà plus de quinze jours que M. le supérieur a écrit cependant… ».
Finalement, le Conseil des Pères de Paris et l’évêque de Nancy finirent par donner leur accord.  Il dut alors faire face à un refus familial.  Augustin retourna à Phalsbourg après avoir été ordonné diacre le 9 octobre 1846, il y prononça un sermon remarqué. Il dit ensuite à ses parents qu’il allait à Mittelbronn faire un pèlerinage à l’église où il avait été baptisé et partit pour Paris, laissant à un ami prêtre la mission d’informer sa famille de ses projets. 
Au séminaire des Missions Étrangères, il apprit que deux de ses tantes avaient entrepris des démarches auprès du supérieur pour le  retenir en France.  Ce à quoi il répondit : « Je ne me sens nul goût pour le ministère de notre France :  il est trop mort, et, au bout de deux ans, je serai un homme perdu à jamais.  Mon caractère veut de l’activité ».
Puis, il s’adressa  à son ancien directeur de Nancy : « Généralement on désire plus les missions où il y a encore quelque persécution à craindre, par conséquent la Chine sourit plus que l’Inde ; mais pourvu que l’on soit là où le bon Dieu vous appelle, c’est l’unique chose nécessaire ».
Il fut ordonné prêtre le 29 mai 1847 et reçut sa mission pour le Tonkin.  Le 18 novembre, il embarqua à Anvers à destination de la procure des missions d’Extrême-Orient.  Juste avant le départ, il reçut des nouvelles concernant sa mission :  la persécution venait de reprendre en Cochinchine et au Tonkin.
D’UN EMPEREUR À L’AUTRE
La traversée de L’Emmanuel commença par une tempête, et se poursuivit heureusement jusqu’au détroit de la Sonde, à partir duquel on veilla à éviter les rencontres de pirates malais, pour s’achever à Singapour après cent dix-neuf jours de navigation.  En ce lieu, on le transborda sur Le Prince Albert à destination de Hongkong, où Schoeffler et ses six compagnons débarquèrent fin avril 1848.  La procure des missions venait d’être transféré de Macao vers la jeune colonie britannique toute proche.
Après la mort de l’empereur Minh Mang, en 1840, l’Église du Vietnam ― l’empire issu de la réunion des royaumes de Cochinchine et du Tonkin – connaissait un répit relatif sous le règne de Thiêu Tri.  Aucun des édits contre les chrétiens n’avait été abrogé, mais le nouvel empereur mit moins de zèle à les faire appliquer.  Lorsqu’en 1843, le capitaine de corvette Favin-Lévêque se présenta à Tourane (Danang) afin de négocier les bases d’un traité commercial entre la France et le Vietnam, il fut prévenu que cinq missionnaires français étaient détenus à Huê, depuis deux ans, et condamnés « à mort avec sursis ». Avant d’engager les négociations, il exigea leur libération, « ne pouvant traiter qu’avec un souverain ami ». Les cinq rescapés lui furent donc remis à condition qu’il les emmenât.  En 1847, de nouvelles négociations eurent lieu, qui furent menées par le commandant Lapierre. Averti que ses deux corvettes devaient êtres coulés pendant les conversations à terre, il prit les devants, tira sur les jonques de guerre qui le cernaient déjà, et hissa les voiles avant de se retirer. C’était plus qu’il n’en fallait pour que la persécution plus ou moins assoupie ne reprenne avec la même violence que sous le règne de Minh Mang. On promit trente barres d’argent à quiconque apporterait aux autorités la tête d’un étranger. Et comme il n’y avait pas d’autres étrangers au Vietnam que les missionnaires français et dominicains espagnols, de nombreux mandarins s’inquiétèrent : tout cela ne pourrait qu’amener de nouveaux malheurs. En 1848, l’empereur Thiêu Tri mourut. La succession posa problème et révéla l’existence de clans à la Cour de Huê, car c’est le second fils de l’empereur défunt qui fut reconnu comme héritier, au préjudice de l’aîné. Le nouvel empereur, Tu Duc, était un jeune homme de dix-neuf ans. On ignorait tout des intrigues qui l’avaient porté sur le trône. C’est dans ce contexte que Schoeffler pénétra clandestinement dans sa mission du Tonkin.
Il fallut d’abord se déguiser en Chinois : la moitié du crâne rasé, une queue de cheveux postiches, une longue robe de toile grise fendue de chaque côté ; ensuite, embarquement sur une jonque de contrebandiers chinois, cabotage tout au long de la côte du Guandong jusqu’à Lafou, village chrétien tout proche de la frontière tonkinoise. En ce lieu, changement de costume, pour revêtir un turban, une tunique fendue de calicot noir et un large pantalon de toile blanche. Schoeffler écrivit alors à ses anciens supérieurs :
« Me voici arrivé à la terre promise : je suis au comble de mes vœux. Ce n’est pas cependant sans avoir traversé bien des difficultés.  J’ai dû me dérober aux espions des mandarins, fuir les pirates chinois, essuyer de telles tempêtes que je me suis cru plus d’une fois sur le point de dire adieu au monde :  ce sont là autant de tribulations par lesquelles la Providence a voulu me faire passer avant de me montrer le lieu de paix et de bonheur ».
Augustin se trouvait alors en face de son évêque, Mgr Retord, avec lequel il trouva un bon terrain d’entente. Le jeune missionnaire était heureux de découvrir sa seconde patrie et s’émerveillait de la foi des chrétiens, et des risques qu’ils prenaient pour y demeurer fidèles. Il assimila rapidement la langue et, au bout de six mois, fut capable d’entendre les confessions et de prononcer quelques courtes instructions. Ainsi put-il accompagner son évêque dans sa tournée pastorale.  Il était stupéfait de l’ampleur des foules qui se rassemblaient pour la circonstance. Il donna ensuite de ses nouvelles au supérieur du grand séminaire de Nancy :
« Depuis que le roi Tu Duc est monté sur le trône de ses ancêtres, notre sainte religion a vu ses jours s’améliorer. Nous nous tenons à moitié cachés, à moitié à découvert. Les mandarins connaissent la présence d’Européens dans leur préfecture, mais ils semblent fermer les yeux. On dirait que l’on voudrait donner la liberté de religion et que l’on n’ose encore ».
Le jeune empereur, pour marquer son avènement, avait procédé à une amnistie générale, sauf pour les condamnés à mort ferme ; d’où la libération de nombreux chrétiens, y compris plusieurs condamnés « à mort avec sursis ». Le souverain s’était fait lire les annales de l’Empire où étaient rapportés les services rendus à son arrière-grand-père Gia Long par Mgr Pigneau de Béhaine, l’illustre « évêque d’Adran », et les autres missionnaires français, à l’époque de la création du Vietnam. Reconnaissant pour les services rendus, il n’abrogea pourtant pas les édits contre le christianisme promulgués par son grand-père Minh Mang et reconduits par son père Thiêu Tri. De sorte qu’officiellement, on en était encore à la persécution. Dans ces conditions, Mgr Retord souhaitait voir augmenter le nombre de chrétiens pour « habituer » fidèles, non-chrétiens et autorités au « fait » chrétien. À cette époque, la famine et les maladies telle que la peste se développaient. Schoeffler, à son tour, fut atteint du choléra à la fin de sa tournée avec l’évêque. Mgr Retord lui administra les sacrements et le prépara à la mort. Mais Schoeffler se remit rapidement et acheva la tournée en reprenant confessions et célébration des sacrements pour les malades. Après cela, l’évêque estima qu’il pouvait laisser son jeune missionnaire voler de ses propres ailes.  Il l’envoya dans la province de Son Tây, au nord-ouest de la mission, là où le fleuve Rouge, avant d’entrer dans son delta, reçoit ses deux grands affluents : la rivière Noire à droite et la rivière Claire à gauche.
C’est là que Jean-Charles Cornay avait subi le martyre quatorze ans plus tôt. Schoeffler arriva dans son nouveau district début 1851. Il était le seul Européen  avec huit confrères vietnamiens et quinze mille chrétiens.  Dans les montagnes, il y avait des populations aborigènes qui n’avaient jamais entendu parler de l’Evangile. « C’est ici que j’espère mourir », écrivit-il à l’abbé Stricher, un ami de Lorraine.  Mais il oubliait que les montagnes étaient un repaire de brigands, ce qui rendait les mandarins vigilants.
VOUS APPRENDREZ CE QU’EST LA FIDÉLITÉ DES CHRETIENS
Nous avons vu que l’éviction du fils aîné de l’empereur Thiêu Tri au profit de son cadet Tu Duc prouvait l’existence de clans à la Cour du Vietnam. De fait, le prince dépossédé, Hoàng Bao, ne s’y résignait nullement et commençait à intriguer pour étoffer son parti.  Il fit même contacter l’évêque de la Cochinchine septentrionale, Mgr Pellerin, lui promettant la liberté religieuse, lui laissant même espérer sa conversion au christianisme.  Ce à quoi l’évêque répondit que « les chrétiens ne détrônent pas les rois, même dans les temps de persécution.  Vous apprendrez ce qu’est leur fidélité si vous régnez un jour ». La conspiration de Hoàng Bao fut découverte, les conjurés les plus influents furent décapités, et le prince, condamné à la prison à vie, s’étrangla. Le Premier mandarin accusa les chrétiens d’avoir participé au complot, et le résultat ne se fit pas attendre : les édits de Minh Mang furent reconduits et même aggravés : « Les prêtres européens seront jetés dans les abîmes de la mer ou des fleuves. Les prêtres vietnamiens, qu’ils foulent ou non la croix, seront coupés par le milieu du corps. Quiconque dénoncera un prêtre européen recevra huit taëls d’argent. Ceux qui auront caché un prêtre européen seront coupés par le milieu des reins et jetés au fleuve ».
Dès son arrivée au Tonkin, Schoeffler avait écrit : « Le petit coup de sabre serait-il réservé à quelqu’un d’entre nous ? Quelle grâce ! Jusqu’ici je n’ai osé la demander ; mais maintenant, chaque jour au saint Sacrifice, j’offre mon sang à Jésus pour celui qu’il a versé pour moi ».
Dénoncé au chef de canton, Schoeffler fut arrêté en mars 1851, lors de la proclamation de l’édit impérial.  Un prêtre vietnamien, arrêté en même temps que lui, avec un catéchiste et quelques fidèles, demandèrent de pouvoir le racheter.  Le chef des soldats proposa une grosse somme d’or et d’argent. « Je ne dispose pas d’une pareille somme, dit Schoeffler, mais mes disciples arriveront peut-être à la réunir ». Cette solution trouva l’approbation du chef des soldats, qui laissa partir les compagnons du prisonnier.  Quand Schoeffler estima qu’ils étaient assez loin et hors de danger, il pressa l’officier de le mener sans plus tarder aux mandarins.  Il avait réussi à sauver ses compagnons.
Schoeffler comparut devant le gouverneur de la province de Son Tây, comme Cornay quatorze ans auparavant. Il subit un interrogatoire au sujet de son identité et le motif de sa présence au Vietnam. On lui demanda s’il savait qu’il était interdit d’y prêcher le christianisme sous peine de mort.  Il répondit qu’il le savait. On lui enjoignit de marcher sur la croix. Il refusa. Un deuxième interrogatoire n’apporta rien de plus. Le gouverneur n’avait plus qu’à adresser son rapport à l’empereur. Schoeffler fut donc enfermé, chargé de la cangue, dans la prison des condamnés à mort. « Il ne s’est jamais plaint », observèrent ses compagnons. Un envoyé de Mgr Retord, porteur de quelques barres d’argent, lui fit passer une lettre, et obtint qu’il fût détenu dans une pièce du logement du gardien-chef ; mais il ne put lui adresser la parole : ils se regardèrent seulement. La captivité de Schoeffler s’était donc bien adoucie depuis le transfert de local, mais il restait très étroitement surveillé. Un prêtre vietnamien toutefois, prenant tous les risques, parvint à le voir, et entendit sa confession.
Le 11 avril, la sentence impériale revint de la capitale : « Les lois de l’empire défendent très sévèrement la religion de Jésus. Cependant le sieur Augustin, prêtre de cette religion, a osé pénétrer clandestinement dans Nos États pour la prêcher en secret, séduire et tromper le peuple. Arrêté, il a reconnu la vérité du fait, il a tout avoué. Que le sieur Augustin ait la tête tranchée sur-le-champ et jetée dans le fleuve ».
L’EXECUTION
Le 1er mai 1851, le gouverneur convoqua deux régiments. Toute la ville pensa à une expédition contre les brigands. En fait, il s’agissait de l’exécution d’Augustin Schoeffler. Le gouverneur voulait ainsi décourager toute tentative d’aide de la part des chrétiens. Quand on vint le chercher, le martyr manifesta une grande joie. Il jeta au loin ses sandales et emboîta le pas pieds nus à ses gardiens, tenant d’une main sa chaîne relevée pour marcher plus facilement.  Les personnes présentes manifestaient leur admiration : « C’est un héros : il va à la mort comme à une fête !  Quel bel homme, quel air de bonté !  Comment le roi peut-il faire tuer de tels hommes ! ».
Arrivé au lieu du supplice, près des murs de la citadelle, le martyr, entouré de l’imposante force armée et de la foule, s’agenouilla et pria un moment. À la demande du bourreau, qui semblait plus ému que lui, il se dénuda le torse et se laissa lier les mains dans le dos. Il leva les yeux au ciel et dit : « Ce que vous avez à faire, faites-le vite ». Quand cymbales et tambours retentirent, le bourreau abattit son sabre.
Après le départ des soldats, on revit ce qui s’était passé treize ans plus tôt après l’exécution de Jean-Charles Cornay : de nombreuses personnes ― chrétiennes ou non ― s’approchèrent pour tremper des morceaux de coton dans le sang du martyr. On vit même un mandarin récupérer une tunique blanche éclaboussée de sang : elle avait été placée par ses soins sur le lieu de l’exécution. Il reçut plusieurs coups de rotin en châtiment de cette manifestation indigne d’un fonctionnaire de l’empire, mais il emporta chez lui la tunique.
En exécution de la sentence, des soldats jetèrent la tête du martyr dans le fleuve Rouge. Elle ne fut jamais retrouvée. Le corps fut inhumé sur place, selon la loi, dans un cercueil que les chrétiens avaient préparé. Deux jours plus tard, ils l’exhumaient discrètement et allaient le réinhumer dans un village chrétien.
Augustin Schoeffler mourut à l’âge de 29 ans, trois ans après son arrivée dans sa mission du Tonkin. Il fut le premier missionnaire victime de la deuxième vague de persécution du Vietnam, menée par l’empereur Tu Duc, qui fera encore plus de victimes que la première, celle de Minh Mang.
Le décret d'introduction pour sa cause de Béatification est daté du 24 septembre 1857. Le bref de Béatification est signé par le pape Léon XIII le 7 mai 1900, et les solennités furent célébrées le 27 du même mois, à Saint-Pierre de Rome.
Augustin Schoeffler, désormais saint patron du Séminaire de Metz, a été canonisé le 16 juin 1988 par le pape Jean-Paul II. Les saints martyrs du Vietnam sont honorés le 24 novembre.



Les portraits d'Augustin

A quoi ressemblait Augustin Schoeffler ? Un débat existe à ce sujet depuis longtemps. Or il est attesté qu'il a posé pour un daguerréotype avant son départ en mission à l'automne 1847. Il écrit d'Anvers à sa tante Elise Schoeffler et à mademoiselle Klein, le 14 octobre 1847 : "Avez-vous reçu le portrait [1que je vous ai envoyé ?" Par ailleurs, des témoins affirment que l'abbé Stricher a reçu, lui-aussi, un portrait d'Augustin, sans doute à la même époque.

Cette technique inventée par Louis Daguerre, en 1837, connut une vogue rapide. Ce n'était pas encore la photographie telle que nous la connaissons : cela ne pouvait se faire qu'en studio et il fallait, au début, poser une demi-heure immobile !

Ces portraits ont été reproduits et ... retouchés après le martyre d'Augustin. Ce n'était plus un souvenir de famille, le cliché était devenu objet de vénération et il devait correspondre au goût et à l'attente du public. C'est la période d'essor, dans l'art religieux, de ce qui est désigné sous le qualificatif peu élogieux de "sulpicien". Si l'on compare le portrait d'Augustin [2], réalisé en 1847, avec celui du populaire Théophane Vénard, réalisé en 1851, on réalise pourquoi il "fallait" retoucher celui d'Augustin. La prise de vue a été faite en légère contre plongée (du bas vers le haut), ce qui donne une impression de froideur. Théophane a la tête un peu baissée et il regarde l'objectif, Augustin a les yeux tournés vers sa droite. Rapidement les retouches vont corriger la froideur en ajoutant un très léger sourire, corriger ce regard en le tournant vers le ciel.

Pour connaître le vrai visage d'Augustin, la chance est avec nous. Il n'existe pas un cliché non retouché, mais certainement au moins deux : en effet, Augustin Schoeffler a posé avec deux de ses condisciples du Séminaire des Missions Etrangères de Paris [3]. Et c'est son profil que nous voyons dans l'album des missionnaires, cliché reproduit ici. Aucun trucage, aucune retouche.

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Lorsque le chanoine Mangenot prépare sa biographie sur Augustin, il envoie à l'abbé Martin, curé de Phalsbourg, un véritable questionnaire[ 4]. On y trouve ceci :

"La photographie faite à Phalsbourg par Zanover [5reproduit-elle exactement les dimensions du daguerréotype ?

- Le portrait, la photographie faite à Phalsbourg n'a pas été faite d'après le daguerréotype, mais d'après une autre photographie : M. l'abbé Ehalt [6], qui a parfaitement connu le bienheureux, trouve que cette photographie est très ressemblante [7]. [...]

Monsieur Stricher [8avait le daguerréotype en question, mais on ne sait pas ce qu'il est devenu."

Il y a un certain flottement... Et la tante Elise n'est plus là pour donner son avis, elle est décédée à Lunéville en 1883. Le chanoine Mangenot poursuit ses recherches, sa patience s'illustrera plus tard dans l'édition du fameux Dictionnaire de Théologie Catholique. L'abbé V. F. Schoeffler, curé de Willerwald et cousin d'Augustin, lui écrit, le 16 novembre 1900 : " J'ai l'honneur de vous adresser la reproduction du Daguerréotype représentant le Bienheureux Augustin Schoeffler avec le costume annamite [9]. Le Bienheureux l'avait envoyé de Paris à Mr. l'abbé Stricher, alors vicaire à Phalsbourg. A la mort de Mr. Stricher, j'ai prié sa soeur de me céder ce daguerréotype. A trois reprises différentes, elle me l'a refusé, et au 3e refus, elle a ajouté qu'elle l'avait donné à son frère, employé dans la Savoie. Mais ce n'était que le cadre qu'elle avait donné. Par une Providence particulière, le beau-frère de Mr. Stricher, Joseph Meyer, a détaché du cadre le portrait du Bienheureux, ainsi que celui de Mr. Krick [10], et les a remis à Mr. l'abbé Marchal, curé d'Archeviller, voulant, disait-il, sauver ces deux figures. Au mois d'août de cette année, me trouvant chez Mr. l'abbé Marchal, on parlait des deux portraits du Bienheureux (l'autre était dans la possession de sa tante Elise) et je déplorais la perte de celui qui appartenait à Mr. l'abbé Stricher, tout en en faisant la description ; tout à coup, Mr. Marchal dit : Je crois que je l'ai. Il me le remit après m'avoir raconté comment il l'avait reçu.


"Avant de vous servir de cette reproduction, je vous prierai d'attendre encore quelques semaines, car j'ai fait remettre l'original à un photographe de Saverne pour la faire reproduire, et établir une comparaison. Je vous enverrai la 2e épreuve avec l'original qui sera conservé dans la bibliothèque du grand séminaire de Nancy [11].

"Quant au 1er portrait authentique que le Bienheureux avait envoyé à sa tante, je ne sais où le trouver, n'étant plus en relations avec ses nièces. Mais je l'ai fait reproduire, comme vous avez pu le voir dans la 2e édition de Mr. le chanoine Finot.

"En Lorraine, surtout à Phalsbourg, cette reproduction a été renouvelée maintes fois, et il me semble que chaque photographe y introduit un changement, presque imperceptible, il est vrai, mais ce n'est plus tout à fait le même regard inspiré de la 1ère épreuve. J'ai heureusement gardé le numéro du cliché du photographe Odinot [12], c'est le n° 32493. Si Mr. Odinot l'a conservé, vous trouverez-là le véritable portrait du Bienheureux, et je vous permets et je vous prie de le faire reproduire pour la gloire du Bienheureux.

"La ressemblance la plus frappante se trouve dans le portrait avec le costume annamite a déclaré Mr. Ehalt, son condisciple et son ami. L'autre portrait ne déclare pas assez franchement la figure osseuse [13que possédait le Bienheureux."


Ce précieux témoignage éclaire quelque peu notre problème, sans toutefois lever toutes les ambiguïtés. Il semble bien qu'Augustin ait fait parvenir, de Paris, au moins deux portraits : l'un à sa tante Elise, l'autre à l'abbé Stricher. Par contre, il est tout à fait invraisemblable qu' Augustin ait posé, à Paris, en costume annamite. Une autre lettre de l'abbé V. F. Schoeffler, datée du 29 juillet 1903, indique ceci : " Je vous envoie ci-joint un portrait du Bienh. avec costume chinois. (Le costume annamite doit être le même, suivant le dire d'un missionnaire.) C'est le P. Victor Laroche, neveu de Mr. l'archiprêtre de Sarralbe, revenu de Chine pour cause de maladie, qui m'a donné son portrait fait en Chine. Le photographe a adapté au buste la tête du martyr, et ainsi l'on a à peu près sa tenue de missionnaire, moins la barbe, la tête rasée et la mèche de cheveux [14].

"L'autre portrait avec turban [15], dont je vous ai envoyé un exemplaire, n'a d'autre valeur que celle de reproduire plus fidèlement les traits de la figure, surtout de la bouche et du menton, suivant le témoignage de son ami Mr. l'abbé Ehalt."

Nous trouvons encore un autre témoignage dans la documentation réunie par M. le chanoine Mangenot. Il s'agit d'une carte de visite, non datée, de l'abbé Ch. Pernot, vicaire à St Fiacre de Nancy qui " retourne à M. Mangenot la photographie du Bx Schoeffler. Monsieur le Curé [16a donné la même appréciation ; il y a quelque chose qui rappelle la figure du Bx, mais selon lui elle est idéalisée. Il est tenté de croire que la photographie de M. le Curé de Phalsbourg a été faite non pas directement mais d'après un dessin plus ou moins fidèle."

Nous ne pourrons pas conclure ce dossier définitivement : nous ne possédons pas le portrait avec turban, il existe des documents qui dorment dans des malles ou de vieux albums de photographies. Si cet article pouvait aider à les retrouver... Dans l'état actuel de la documentation, nous pouvons retenir :
- le premier cliché où Augustin est en compagnie de deux autres séminaristes des Missions Etrangères (il est à gauche, de profil). Voir également l'agrandissement... même s'il est de mauvaise qualité.

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- le deuxième est également indiscutable. Augustin a les mains dans les manches de sa soutane, il est sérieux, tendu, déterminé. L'épaule gauche est plus haute que la droite. Il pourrait s'agir du daguerréotype envoyé à la tante Elise ?

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- le 3e, sur carte postale, montre d'importantes différences :les épaules sont à la même hauteur, la tête est très légèrement relevée, le visage est arrondi, Augustin semble plus serein ; le tracé de la mâchoire est adouci. C'est ce cliché que l'on trouve dans la deuxième édition de la biographie par l'abbé Finot. Il n'est pas impossible qu'il s'agisse d'un autre daguerréotype ou plutôt d'un cliché retouché (mâchoire) à partir d'un autre daguerréotype. Ce serait celui envoyé à Stricher ? C'est ce cliché qui semble être à l'origine de ceux qui suivent et même du visage d'Augustin tel qu'il figure sur le tableau du martyre [17], tableau réalisé peu de temps après, au Vietnam, ce qui laisserait penser que le peintre avait un cliché... en effet, le jour du martyre, Augustin avait la barbe et ses cheveux étaient très courts comme l'indique le rapport de son évêque.

- le 4e est une image gravée avec légende en allemand reproduisant le 3e avec retouche "imperceptible". C'est la dernière avec le rabat.

- le 5e, image de piété imprimée entre 1857 et 1900 (il est "Vénérable"), gravure représentant Augustin en costume "chinois" ? : le visage est à nouveau retouché, notamment la bouche où l'on a comme un sourire obtenu en accentuant les plis de chaque côté de la bouche ; les yeux sont nettement plus tournés vers le haut ; en arrière fond des constructions orientales que l'on retrouve dans les deux clichés suivants ; attitude pieuse, avant-bras croisés sur la poitrine, main droite tenant la croix. Augustin n'a jamais ressemblé à ce portrait lorsqu'il était au Tonkin: il portait la barbe, avait la tête rasée, sauf une mèche à l'arrière du crâne...

- le 6e, image de piété, gravure imprimée à partir de 1900 ("bienheureux"), reprend le précédent avec d'importantes retouches au visage : Augustin a pris un coup de jeune.

- le 7e cliché n'a de commun avec les trois précédents que le costume ; le cliché a été retourné ; il est parent des précédents avec d'énormes retouches... c'est presque quelqu'un d'autre. On retrouve la mèche relevée et la position des cheveux autour de l'oreille. C'est une image imprimée par l'Oeuvre de la Ste Enfance : l'absence de mention "vénérable" pourrait indiquer une impression très tôt, entre 1852 et 1857.

- le 8e cliché a été imprimé avant 1900, puis l'image a été actualisée par un collage "le bienheureux" au dessus de la mention "le vénérable". La parenté est nette avec le 8e : le sens, tourné vers la droite ; le costume, avec cependant moins de plis et un col montant plus important. Le visage n'a plus qu'un lointain rapport avec les premiers clichés.

- le 9e cliché s'inspire manifestement du précédent au niveau du visage encore retouché... mais aussi de la série 5,6,7 (avant-bras croisés et arrière-fonds reprenant de façon très floue les deux bâtiments). Il s'agit d'une image plus récente que les précédentes, elle reproduit un tableau qui se trouve aux Missions Etrangères de Paris.

En résumé, mis à part le cliché de groupe (n° 1), on se trouve devant un premier ensemble (2,3,4) avec rabat, Augustin a les yeux légèrement tournés vers sa droite, mais la position des épaules indique qu'il y a deux clichés différents (2 et 3) ; puis un deuxième ensemble (5,6,), dérivant du cliché n° 3, en costume étranger, avec les bras croisés et la croix, les yeux sont davantage tournés vers le haut et un certain sourire ; le troisième ensemble (7,8) se caractérise par le renversement du cliché, le costume s'apparente à celui du 2e ensemble, mais le décor en arrière fond a disparu, l'attitude se rapproche du 1er ensemble, cependant les bras, dont on ne distingue que le haut, ne sont pas croisés. Enfin, le cliché n° 9 qui reprend un peu de chacun des autres sauf du n° 2.

Pardonnez-moi : vous avez peut-être une indigestion de détails. Essayez de vous faire une opinion par vous-mêmes en comparant les reproductions. Il ne s'agit pas d'imposer un portrait - on peut aimer les portraits idéalisés - mais d'essayer de retrouver à quoi ressemblait véritablement le jeune Augustin Schoeffler à la veille de son départ en Mission. Et il n'y a pas d'hésitation possible : seuls les clichés 1 et 2 nous donnent l'image "historique" de ce jeune homme de 25 ans. C'est effectivement un visage anguleux et non poupin, volontaire.

Ne serait-il pas judicieux de privilégier le véritable visage d'Augustin si nous voulons le rendre proche de notre temps qui apprécie de moins en moins les retouches qui trahissent en idéalisant. Osons donc retrouver - par delà les pieuses retouches - la vérité d'un homme qui part en Mission sans avoir pu faire ses adieux à ses parents, opposés à sa vocation, qui connaît, jusqu'aux derniers jours avant son départ, des manoeuvres destinées à le dissuader de partir et même des problèmes d'argent. Il n'a pas encore le sourire d'un bienheureux même s'il est très heureux de s'embarquer vers une terre connue pour être celle des martyrs.


Livres disponibles dans les bibliothèques :
  • - Abbé FINOT. - Vie et mort du Bienheureux Augustin Schoeffler : un martyr lorrain en Extrême-Orient. Metz, 1900, 2e éd., 157 p. avec un portrait.
  • - Abbé E. MANGENOT. - Le Bienheureux Augustin Schoeffler. Nancy, 1900, 105 p.
  • Disponible à l'association St Martin (Mittelbronn ; adresse p. 8)
  • - Abbé NOBLET & abbé BERLOCHER.- Un aventurier de Dieu : Augustin Schoeffler 1822-1851. Plaquette illustrée de 32 p., 1988 (2 éditions).
  • St Augustin Schoeffler : 19 juin 1988 Rome - 28 août 1988 Mittelbronn. C'était hier, souvenez-vous aujourd'hui... Plaquette illustrée, 60 p., 1988.
  • - Cassette vidéo, cartes postales, médailles...
  • - Visite de la maison natale et du musée.

  •  [1]Unique usage de ce mot dans les lettres connues à ce jour.
·       [2]Voir la première page du Bulletin des Amis de la Bibliothèque (1ère page de couverture).
·       [3]Voir la dernière page du Bulletin des Amis de la Bibliothèque (4e de couverture).
·   [4]La réponse est datée du 6 juin 1900. Archives de la Bibliothèque diocésaine de Nancy, dossiers Schoeffler.
·       [5]L'orthographe n'est pas sûre !
·       [6]Condisciple au séminaire de Nancy, il a -selon Finot p. 49-50 - reçu au moins une lettre d'Augustin. Il y a probablement une correspondance adressée à Ehalt dans les archives de l'évêché de Metz...
·       [7]Ce qualificatif est étrange. S'il s'agissait vraiment d'une photographie, la question de la ressemblance ne devrait pas se poser. On utilise ce terme pour une gravure ou un portrait robot reconstitué...
·       [8]1818-1884. Né à Arzviller de parents pauvres, ordonné prêtre à Nancy en 1846, il est nommé vicaire à Phalsbourg où il sera précieux pour essayer d'arranger les relations familiales difficiles. Il est mort en 1884, chapelain du pèlerinage qu'Augustin connaissait et aimait, celui de Bonne Fontaine. Nous connaissons onze lettres d'Augustin adressées à Stricher.
·       [9]Il ne peut s'agir que d'une adaptation et non d'un véritable cliché.
·       [10]Autre martyr, né à Lixheim, en 1819, missionnaire au Thibet où il a été assassiné en 1854. Qui pourrait retrouver ce cliché de l'abbé Krick ?
·       [11]Malheureusement ces documents ne sont pas à la bibliothèque diocésaine de Nancy.
·       [12]Célèbre photographe, rue St Dizier à Nancy ?
·       [13]C'est nous qui soulignons.
·       [14]C'est nous qui soulignons. Ce cliché est un montage.
·       [15]Publié dans la brochure en allemand d’après le livre de Finot : Ein Märtyrer aus Lothringen, Leben und Tod des seligen Augustin Schöffler, Metz, 1900, 128 p..
·       [16]L'abbé Auguste-Jean-Christophe Barbier, né en 1825, ordonné prêtre en 1849, nommé à St Fiacre en 1869. Il est un peu plus jeune qu'Augustin, mais il l'a connu au séminaire de Nancy.
·       [17]Voir la couverture du numéro 2 du Bulletin des Amis de la Bibliothèque Diocésaine (avril 1994).

Bernard Stelly



Reliquie Augustin Schoeffler
Église Notre-Dame-de-l'Assomption de Phalsbourg

Saint Augustin Schoeffler


Né le 22 novembre 1822Augustin Schoeffler était l’aîné de six enfants d’un instituteur de Mittelbronn, en Moselle. À cette époque, l’instituteur était, en même temps, secrétaire de mairie et chantre à l’église. À l’école, le jeune Augustin a laissé le souvenir d’un garçon doux et réaliste. Comme il semblait doué pour les études, son père le mit en pension chez son oncle, curé d’Arraye, où il fit sa première communion. De là, il entra au petit séminaire de Pont-à-Mousson, car, s’il envisageait volontiers d’imiter son oncle, il lui fallait encore apprendre le français ; de fait, sa langue maternelle était l’allemand. Cependant, il termina ses études au collège de Phalsbourg, ville natale de son père, où celui-ci était revenu, et assurait la comptabilité de plusieurs commerces. Progressivement, la douceur d’Augustin laissa place « à une attitude fière reflétant plutôt une énergie non exempte d’une certaine rudesse ». Après un discernement, dans le but de savoir s’il devait être militaire ou prêtre, il déclara à sa soeur : « Quand je serai curé, tu viendras gouverner ma maison ».
C’est ainsi qu’Augustin entra au grand séminaire de Nancy, en novembre 1842, où il fut nommé « préfet de chœur » et dirigea son affaire d’une main de maître, toutefois sa douceur d’enfant réapparaissait lorsqu’il s’agissait de soutenir des séminaristes en difficulté.
En mars 1846, il écrivit à l’un de ses anciens condisciples devenu vicaire à Phalsbourg : « Très cher ami, vous m’avez dit que mon père avait l’intention de m’écrire sa façon de penser, et j’attendais toujours cette lettre afin de vous en faire part. J’ai beau attendre, elle ne vient pas… J’ai bien d’autres souffrances à attendre, et même je suis heureux d’avoir ce retard de la part de mes parents, car cela ne fera que fortifier de plus en plus ma vocation. Veuillez donc passer encore une fois chez nous, et après avoir de nouveau un peu sondé le terrain, donnez-moi des nouvelles le plus tôt qu’il vous sera possible ».
Alors que le supérieur du séminaire avait formulé un avis positif quant à sa requête, l’évêque, ainsi que les Pères du Séminaire des Missions Étrangères tardaient à répondre, c’est pourquoi il poursuivit : « Je n’ai pas encore reçu non plus de réponse de Paris, je ne sais pourquoi on tarde si longtemps : voilà déjà plus de quinze jours que M. le supérieur a écrit cependant… ».
Finalement, le Conseil des Pères de Paris et l’évêque de Nancy finirent par donner leur accord. Il dut alors faire face à un refus familial. Augustin retourna à Phalsbourg après avoir été ordonné diacre le 9 octobre 1846, il y prononça un sermon remarqué. Il dit ensuite à ses parents qu’il allait à Mittelbronn faire un pèlerinage à l’église où il avait été baptisé et partit pour Paris, laissant à un ami prêtre la mission d’informer sa famille de ses projets.
Au séminaire des Missions Étrangères, il apprit que deux de ses tantes avaient entrepris des démarches auprès du supérieur pour le retenir en France. Ce à quoi il répondit : « Je ne me sens nul goût pour le ministère de notre France : il est trop mort, et, au bout de deux ans, je serai un homme perdu à jamais. Mon caractère veut de l’activité ».
Puis, il s’adressa à son ancien directeur de Nancy : « Généralement on désire plus les missions où il y a encore quelque persécution à craindre, par conséquent la Chine sourit plus que l’Inde ; mais pourvu que l’on soit là où le bon Dieu vous appelle, c’est l’unique chose nécessaire ».
Il fut ordonné prêtre le 29 mai 1847 et reçut sa mission pour le Tonkin. Le 18 novembre, il embarqua à Anvers à destination de la procure des missions d’Extrême-Orient. Juste avant le départ, il reçut des nouvelles concernant sa mission : la persécution venait de reprendre en Cochinchine et au Tonkin.
La traversée de L’Emmanuel commença par une tempête, et se poursuivit heureusement jusqu’au détroit de la Sonde, à partir duquel on veilla à éviter les rencontres de pirates malais, pour s’achever à Singapour après cent dix-neuf jours de navigation. En ce lieu, on le transborda sur Le Prince Albert à destination de Hongkong, où Schoeffler et ses six compagnons débarquèrent fin avril 1848. La procure des missions venait d’être transféré de Macao vers la jeune colonie britannique toute proche.
Après la mort de l’empereur Minh Mang, en 1840, l’Église du Vietnam – l’empire issu de la réunion des royaumes de Cochinchine et du Tonkin – connaissait un répit relatif sous le règne de Thiêu Tri. Aucun des édits contre les chrétiens n’avait été abrogé, mais le nouvel empereur mit moins de zèle à les faire appliquer. Lorsqu’en 1843, le capitaine de corvette Favin-Lévêque se présenta à Tourane (Danang) afin de négocier les bases d’un traité commercial entre la France et le Vietnam, il fut prévenu que cinq missionnaires français étaient détenus à Huê, depuis deux ans, et condamnés « à mort avec sursis ». Avant d’engager les négociations, il exigea leur libération, « ne pouvant traiter qu’avec un souverain ami ». Les cinq rescapés lui furent donc remis à condition qu’il les emmenât. En 1847, de nouvelles négociations eurent lieu, qui furent menées par le commandant Lapierre. Averti que ses deux corvettes devaient êtres coulés pendant les conversations à terre, il prit les devants, tira sur les jonques de guerre qui le cernaient déjà, et hissa les voiles avant de se retirer. C’était plus qu’il n’en fallait pour que la persécution plus ou moins assoupie ne reprenne avec la même violence que sous le règne de Minh Mang. On promit trente barres d’argent à quiconque apporterait aux autorités la tête d’un étranger. Et comme il n’y avait pas d’autres étrangers au Vietnam que les missionnaires français et dominicains espagnols, de nombreux mandarins s’inquiétèrent : tout cela ne pourrait qu’amener de nouveaux malheurs. En 1848, l’empereur Thiêu Tri mourut. La succession posa problème et révéla l’existence de clans à la Cour de Huê, car c’est le second fils de l’empereur défunt qui fut reconnu comme héritier, au préjudice de l’aîné. Le nouvel empereur, Tu Duc, était un jeune homme de dix-neuf ans. On ignorait tout des intrigues qui l’avaient porté sur le trône. C’est dans ce contexte queSchoeffler pénétra clandestinement dans sa mission du Tonkin.
Il fallut d’abord se déguiser en Chinois : la moitié du crâne rasé, une queue de cheveux postiches, une longue robe de toile grise fendue de chaque côté ; ensuite, embarquement sur une jonque de contrebandiers chinois, cabotage tout au long de la côte du Guandong jusqu’à Lafou, village chrétien tout proche de la frontière tonkinoise. En ce lieu, changement de costume, pour revêtir un turban, une tunique fendue de calicot noir et un large pantalon de toile blanche. Schoeffler écrivit alors à ses anciens supérieurs :
« Me voici arrivé à la terre promise : je suis au comble de mes vœux. Ce n’est pas cependant sans avoir traversé bien des difficultés. J’ai dû me dérober aux espions des mandarins, fuir les pirates chinois, essuyer de telles tempêtes que je me suis cru plus d’une fois sur le point de dire adieu au monde : ce sont là autant de tribulations par lesquelles la Providence a voulu me faire passer avant de me montrer le lieu de paix et de bonheur ».
Augustin se trouvait alors en face de son évêque, Mgr Retord, avec lequel il trouva un bon terrain d’entente. Le jeune missionnaire était heureux de découvrir sa seconde patrie et s’émerveillait de la foi des chrétiens, et des risques qu’ils prenaient pour y demeurer fidèles. Il assimila rapidement la langue et, au bout de six mois, fut capable d’entendre les confessions et de prononcer quelques courtes instructions. Ainsi put-il accompagner son évêque dans sa tournée pastorale. Il était stupéfait de l’ampleur des foules qui se rassemblaient pour la circonstance. Il donna ensuite de ses nouvelles au supérieur du grand séminaire de Nancy :
« Depuis que le roi Tu Duc est monté sur le trône de ses ancêtres, notre sainte religion a vu ses jours s’améliorer. Nous nous tenons à moitié cachés, à moitié à découvert. Les mandarins connaissent la présence d’Européens dans leur préfecture, mais ils semblent fermer les yeux. On dirait que l’on voudrait donner la liberté de religion et que l’on n’ose encore ».
Le jeune empereur, pour marquer son avènement, avait procédé à une amnistie générale, sauf pour les condamnés à mort ferme ; d’où la libération de nombreux chrétiens, y compris plusieurs condamnés « à mort avec sursis ». Le souverain s’était fait lire les annales de l’Empire où étaient rapportés les services rendus à son arrière-grand-père Gia Long par Mgr Pigneau de Béhaine, l’illustre « évêque d’Adran », et les autres missionnaires français, à l’époque de la création du Vietnam. Reconnaissant pour les services rendus, il n’abrogea pourtant pas les édits contre le christianisme promulgués par son grand-père Minh Mang et reconduits par son père Thiêu Tri. De sorte qu’officiellement, on en était encore à la persécution. Dans ces conditions, Mgr Retord souhaitait voir augmenter le nombre de chrétiens pour « habituer » fidèles, non-chrétiens et autorités au « fait » chrétien. À cette époque, la famine et les maladies telle que la peste se développaient. Schoeffler, à son tour, fut atteint du choléra à la fin de sa tournée avec l’évêque. Mgr Retord lui administra les sacrements et le prépara à la mort. Mais Schoeffler se remit rapidement et acheva la tournée en reprenant confessions et célébration des sacrements pour les malades. Après cela, l’évêque estima qu’il pouvait laisser son jeune missionnaire voler de ses propres ailes. Il l’envoya dans la province de Son Tây, au nord-ouest de la mission, là où le fleuve Rouge, avant d’entrer dans son delta, reçoit ses deux grands affluents : la rivière Noire à droite et la rivière Claire à gauche.
C’est là que Jean-Charles Cornay avait subi le martyre quatorze ans plus tôt. Schoeffler arriva dans son nouveau district début 1851. Il était le seul Européen avec huit confrères vietnamiens et quinze mille chrétiens. Dans les montagnes, il y avait des populations aborigènes qui n’avaient jamais entendu parler de l’Evangile. « C’est ici que j’espère mourir », écrivit-il à l’abbé Stricher, un ami de Lorraine. Mais il oubliait que les montagnes étaient un repaire de brigands, ce qui rendait les mandarins vigilants.
Nous avons vu que l’éviction du fils aîné de l’empereur Thiêu Tri au profit de son cadet Tu Duc prouvait l’existence de clans à la Cour du Vietnam. De fait, le prince dépossédé, Hoàng Bao, ne s’y résignait nullement et commençait à intriguer pour étoffer son parti. Il fit même contacter l’évêque de la Cochinchineseptentrionale, Mgr Pellerin, lui promettant la liberté religieuse, lui laissant même espérer sa conversion au christianisme. Ce à quoi l’évêque répondit que « Les chrétiens ne détrônent pas les rois, même dans les temps de persécution. Vous apprendrez ce qu’est leur fidélité si vous régnez un jour ». La conspiration de Hoàng Bao fut découverte, les conjurés les plus influents furent décapités, et le prince, condamné à la prison à vie, s’étrangla. Le Premier mandarin accusa les chrétiens d’avoir participé au complot, et le résultat ne se fit pas attendre : les édits de Minh Mang furent reconduits et même aggravés : « Les prêtres européens seront jetés dans les abîmes de la mer ou des fleuves. Les prêtres vietnamiens, qu’ils foulent ou non la croix, seront coupés par le milieu du corps. Quiconque dénoncera un prêtre européen recevra huit taëls d’argent. Ceux qui auront caché un prêtre européen seront coupés par le milieu des reins et jetés au fleuve ».
Dès son arrivée au Tonkin, Schoeffler avait écrit : « Le petit coup de sabre serait-il réservé à quelqu’un d’entre nous ? Quelle grâce ! Jusqu’ici je n’ai osé la demander ; mais maintenant, chaque jour au saint Sacrifice, j’offre mon sang à Jésus pour celui qu’il a versé pour moi ».
Dénoncé au chef de canton, Schoeffler fut arrêté en mars 1851, lors de la proclamation de l’édit impérial. Un prêtre vietnamien, arrêté en même temps que lui, avec un catéchiste et quelques fidèles, demandèrent de pouvoir le racheter. Le chef des soldats proposa une grosse somme d’or et d’argent. « Je ne dispose pas d’une pareille somme, dit Schoeffler, mais mes disciples arriveront peut-être à la réunir ». Cette solution trouva l’approbation du chef des soldats, qui laissa partir les compagnons du prisonnier. Quand Schoeffler estima qu’ils étaient assez loin et hors de danger, il pressa l’officier de le mener sans plus tarder aux mandarins. Il avait réussi à sauver ses compagnons.
Schoeffler comparut devant le gouverneur de la province de Son Tây, comme Cornay quatorze ans auparavant. Il subit un interrogatoire au sujet de son identité et le motif de sa présence au Vietnam. On lui demanda s’il savait qu’il était interdit d’y prêcher le christianisme sous peine de mort. Il répondit qu’il le savait. On lui enjoignit de marcher sur la croix. Il refusa. Un deuxième interrogatoire n’apporta rien de plus. Le gouverneur n’avait plus qu’à adresser son rapport à l’empereur. Schoeffler fut donc enfermé, chargé de la cangue, dans la prison des condamnés à mort. « Il ne s’est jamais plaint », observèrent ses compagnons. Un envoyé de Mgr Retord, porteur de quelques barres d’argent, lui fit passer une lettre, et obtint qu’il fût détenu dans une pièce du logement du gardien-chef ; mais il ne put lui adresser la parole : ils se regardèrent seulement. La captivité de Schoeffler s’était donc bien adoucie depuis le transfert de local, mais il restait très étroitement surveillé. Un prêtre vietnamien toutefois, prenant tous les risques, parvint à le voir, et entendit sa confession.
Le 11 avril, la sentence impériale revint de la capitale : « Les lois de l’empire défendent très sévèrement la religion de Jésus. Cependant le sieur Augustin, prêtre de cette religion, a osé pénétrer clandestinement dans Nos États pour la prêcher en secret, séduire et tromper le peuple. Arrêté, il a reconnu la vérité du fait, il a tout avoué. Que le sieur Augustin ait la tête tranchée sur-le-champ et jetée dans le fleuve ».
Le 1er mai 1851, le gouverneur convoqua deux régiments. Toute la ville pensa à une expédition contre les brigands. En fait, il s’agissait de l’exécution d’Augustin Schoeffler. Le gouverneur voulait ainsi décourager toute tentative d’aide de la part des chrétiens. Quand on vint le chercher, le martyr manifesta une grande joie. Il jeta au loin ses sandales et emboîta le pas pieds nus à ses gardiens, tenant d’une main sa chaîne relevée pour marcher plus facilement. Les personnes présentes manifestaient leur admiration : « C’est un héros : il va à la mort comme à une fête ! Quel bel homme, quel air de bonté ! Comment le roi peut-il faire tuer de tels hommes ! ».
Arrivé au lieu du supplice, près des murs de la citadelle, le Martyr, entouré de l’imposante force armée et de la foule, s’agenouilla et pria un moment. À la demande du bourreau, qui semblait plus ému que lui, il se dénuda le torse et se laissa lier les mains dans le dos. Il leva les yeux au ciel et dit : « Ce que vous avez à faire, faites-le vite ». Quand cymbales et tambours retentirent, le bourreau abattit son sabre.
Après le départ des soldats, on revit ce qui s’était passé treize ans plus tôt après l’exécution de Jean-Charles Cornay : de nombreuses personnes – chrétiennes ou non – s’approchèrent pour tremper des morceaux de coton dans le sang du martyr. On vit même un mandarin récupérer une tunique blanche éclaboussée de sang : elle avait été placée par ses soins sur le lieu de l’exécution. Il reçut plusieurs coups de rotin en châtiment de cette manifestation indigne d’un fonctionnaire de l’empire, mais il emporta chez lui la tunique.
En exécution de la sentence, des soldats jetèrent la tête du martyr dans le fleuve Rouge. Elle ne fut jamais retrouvée. Le corps fut inhumé sur place, selon la loi, dans un cercueil que les chrétiens avaient préparé. Deux jours plus tard, ils l’exhumaient discrètement et allaient le réinhumer dans un village chrétien.
Augustin Schoeffler mourut à l’âge de 29 ans, trois ans après son arrivée dans sa mission du Tonkin. Il fut le premier missionnaire victime de la deuxième vague de persécution du Vietnam, menée par l’empereur Tu Duc, qui fera encore plus de victimes que la première, celle de Minh Mang.
Le décret d’introduction pour sa cause de Béatification est daté du 24 septembre 1857. Le bref de Béatification est signé par le pape Léon XIII le 7 mai 1900, et les solennités furent célébrées le 27 du même mois, à Saint-Pierre de Rome.
Augustin Schoeffler, désormais saint patron du Séminaire de Metz, a été canonisé le 16 juin 1988 par le pape Jean-Paul II. Les saints martyrs du Vietnam sont honorés le 24 novembre.


Vitrail représentant le martyre d'Augustin Schoeffler, 
Église Saint-Barthélémy de Sarrebourg, Moselle


Saint Augustine Schoffler - Martyr

Saint Augustine Schoffler,

Pray for us !

Saint of the Day : May 1

Other Names : Augustus Schoffler • Agostino Schoeffler

Memorials :
• 1 May
• 2 May (France)
• 24 November as one of the Martyrs of Vietnam

Born : 22 November 1822 at Mittelbronn, Moselle, France

Died : Beheaded on 1 May 1852 at Son-tai, Tonkin, Vietnam • His head was thrown into the Song-Ka River, his body buried in a nearby village

Augustin Schoeffler (1822–1851) was a French saint and martyr in the Roman Catholic Church and a member of the Paris Foreign Missions Society. He was a priest in Lorraine who joined the Foreign Missions of Paris. He worked as a missionary to Indochina and was one of two French missionaries killed in northern Vietnam between 1847 and 1851. At the time, it was illegal to proselytize in Vietnam.

His feast day is May 1 (May 2 locally in France).

In May of 1851 in Tonkin (today northern Vietnam) a 29 year old priest of the Paris Foreign Missions Society walked gleefully towards his execution. Proselytization was illegal, and Augustin Schoeffler had been ambushed, caught red-handed and arrested. After contriving to allow some of his fellow priests to escape on the excuse that they would collect a pretend ransom, Schoeffler freely confessed to proselytization. When asked if he had been aware of the criminal nature of his activities he replied “that he knew very well, even before he left France, that the Catholic religion was strictly prohibited in that kingdom [Tonkin], but that that was the principal reason of his coming to it rather than to any other.”

And Schoeffler had certainly been busy. According to the accounting of the Vicar Apostolic, in the previous year Schoeffler had performed “two hundred baptisms of children of unbelievers, forty-one of children of Christians, and twenty-three of adults; four thousand seven hundred and seven confessions; three thousand three hundred and fifty-one communions; fifty-two administrations of the holy Viaticum; and one hundred and twenty-five of extreme unction.” [That’s actually not that many extreme unctions.  I did more than that before breakfast this morning.] Two examinations of the priest in front of the local Mandarin provided more free confession of faith, but little useful information for the authorities intent on ferreting out his network.

He spent the next month in prison. On the 4th of May he was led from the prison by “Eight soldiers, sabre in hand…preceded by two companies of fifty armed men each, half lancers and half fusiliers, who walked alternately in two lines, and two elephants formed the rear-guard.”  In front of the smiling priest and his guards as he walked to the place of execution a placard was carried which read: “He preached truly the whole charge of preaching the religion of Jesus. His crime is patent. Let Mr. Augustin be beheaded, and cast into a stream.” His kneeling request for a quick execution was denied by the mandarin who was determined to observe some formalities. Finally, at the third crash of the cymbals, the executioner swung the sword at Schoeffler‘s bare neck but “the hand of the executioner trembled. He struck three blows of his sabre on the neck of his victim, and was at length obliged to cut the flesh with a knife, in order to detach the head from the body.” [You call that gore?  Yeah, me, too.] The head was tossed into the river and several accounts indicate that there was a scrambling afterwards by native Christians to obtain anything soaked with his blood as relics.

On September 24, 1857, Augustin Schoeffler was declared Venerable by Pope Pius IX. He was beatified by Pope Leo XIII on May 7, 1900. He was made a saint by Pope John Paul II on June 19, 1988. 

The Rue St Augustin Schoeffler is located in Mittelbronn.

As of May 10, 2009 a relic of Augustin Schoeffler can be found at the Assumption Grotto Church in Detroit, Michigan. Descendants of Schoeffler's family live in the area and attend the church. 

Saint Augustin V. Schoeffler Collection

1846-1849.

Extent : .5 linear inch. 

Address : Notre Dame, Indiana 46556 

Preferred Citation

Saint Augustin V. Schoeffler Collection (ZBL), University of Notre Dame Archives (UNDA), Notre Dame, IN 46556

Scope and Content

Four letters written by Augustin Schoeffler to another priest, Louis Hoffer: an undated autograph letter; an autograph letter written in Paris, 12 November 1846; an autograph letter written in Paris, 8 September 1847, and a manuscript copy of a letter written in Hong Kong, 24 May 1848. One letter written by Abbé Nicolas Krick to an unidentified woman, 26 January 1849. One purple pouch embroidered with the monogram "VAS" (Venerable Augustin Schoeffler) in which all five letters had been kept.

Also an edition of 74 of Schoeffler's letters (January 1993) which developed into an edition of 88 letters and other works, Saint Augustin Schoeffler: lettres d'un lorrain martyr au Tonkin (1822-1851) (Paris: Missions Etrangères), edited and annotated by Bernard Stelly.
In French.

Background

Born 22 November 1822 in Mittelbronn, Lorraine, France (department 57), Augustin Schoeffler became a priest of the Diocese of Nancy. Sent to the Kingdom of Tonkin by the Paris Foreign Mission Society, he was beheaded by the Vietnamese on the first of May 1851. He was canonized in 1988.

Nicolas Krick, another missionary priest, was martyred in Tibet in 1854. Abbé Bernard Stelly is director of the Diocesan Library of Nancy.



Maison natale et statue Saint Augustin Schoeffler à Mittelbronn en Moselle. 
Photographie de Havang(nl)



Sant' Agostino Schoeffler Sacerdote e martire



Mittelbonn, Francia, 22 novembre 1822 - Sơn-Tâi, Vietnam, 1 maggio 1851

Etimologia: Agostino = piccolo venerabile, dal latino

Martirologio Romano: Presso la rocca di Sơn-Tâi nel Tonchino, ora Viet Nam, sant’Agostino Schoeffler, sacerdote della Società per le Missioni Estere di Parigi e martire, che, gettato in carcere dopo aver esercitato per tre anni il suo ministero, su ordine dell’imperatore Tự Đức, nel campo di Năm Mẫu ottenne con la decapitazione la grazia del martirio, che ogni giorno aveva chiesto a Dio. 

Di tutti i cristiani e missionari martirizzati nel Tonchino e nella Cocincina (Vietnam), Leone XIII ne beatificò 77 il 7-5-1900; S. Pio X 8 il 15-4-1906 e 34 l'11-4-1909; Pio XII 25 il 29-4-1951. Di costoro 117 furono canonizzati da Giovanni Paolo II nel 1988. Non sappiamo con certezza quando il cristianesimo fu introdotto in quei paesi la cui evangelizzazione regolare e sistematica fu iniziata nel 1627 dal P. Alessandro de Rodhes SJ. Con l'aiuto di un confratello in 3 anni egli riuscì a battezzare circa 3.000 infedeli. Per istigazione di un bonzo fu esiliato dal re, ma nel 1631 altri gesuiti riuscirono a entrare occultamente nel regno e, con l'aiuto di alcuni missionari di altri Ordini religiosi, in meno di trent'anni a convertire alla fede 200.000 pagani. 

Primo Vicario Apostolico del Tonchino (Vietnam) fu Mons. Francesco Pallu, e primo vicario Apostolico della Cocincina Mons. Pietro de La Motte Lambert. Per provvedere di missionari quelle terre pagane essi si adoperarono per fondare a Parigi il seminario delle Missioni estere. Sono molti i martiri che vi furono formati e che i papi canonizzarono. Tra loro figura anche il P. Agostino Schoefner. Egli nacque il 22-11-1822 a Mittelbonn in Lorena (Francia), e compì gli studi ecclesiastici nel seminario diocesano di Nancy durante i quali volle iscriversi al Terz'Ordine Domenicano. Non senza opposizione dei parenti, nel 1846 passò in quello delle Missioni estere di Parigi per assecondare la sua vocazione missionaria. 

Per quanto fosse disposto a recarsi in qualsiasi terra di missione, non nascose la sua preferenza per il Tonchino (Vietnam) in cui infuriava la persecuzione scatenata dal re Minh-Manh (1820-1840) e continuata da suo figlio, il re Thiéu-Tri (1840-1847). Nelle lettere che di lui ancora si conservano appare manifesto con quanto ardore bramasse di dare la vita per la fede. In una di esse si legge: "II buon Dio mi accorderà la grazia del martirio; gliela domando ogni giorno". E in un'altra: "Soffro molto, ma ai piedi della croce... Che cosa può esserci di più dolce?". 

Il 1-8-1847 il santo lasciò Parigi per Anversa. Raggiunse Hong-Kong dopo cinque mesi di navigazione. Il suo campo di lavoro fu la cristianità di La-Fou che raggiunse dopo essere riuscito a superare la frontiera settentrionale del Tonchino tra pericoli di ogni genere. Trascorse i primi mesi in quel paese studiando la lingua e cercando di adattarsi agli usi e costumi degli indigeni. Poté in seguito darsi con tutto l'ardore giovanile al sacro ministero. Nel 1849 fu di grande aiuto a Mons. Retord, ordinario del luogo, nella visita pastorale che fece a Ke-Bang. In seguito fu trasferito al distretto di Xu-Doai dove, disseminati per montagne e foreste, 16.000 cristiani attendevano ansiosi l'opera di un missionario. 

Nonostante la malferma salute raccolse tra loro abbondanti frutti di vita spirituale, tanto che il suo nome presso quei cristiani restò in benedizione. 

Il desiderio del martirio cresceva nel santo di mano in mano che, prendendosi cura delle anime, capiva che non c'è amore più grande di colui che da la vita per i fratelli. La pubblicazione dell'editto di persecuzione contro i cristiani del re Tu-Dùc (1847-1883), secondogenito di Thiéu-Tri, ravvivò le sue speranze. I mandarini erano incitati a far catturare i missionari europei perché erano ritenuti "come falsari, seduttori, barbari, tonti, sciocchi, vili..." e, per conseguire più facilmente lo scopo, venivano offerte trecento once d'argento a chi ne avesse denunciato uno. Lo stesso re il 13-2-1851 fece spedire a tutti i mandarini una circolare segreta in cui prescriveva che i missionari europei fossero annegati con una pietra al collo, e i sacerdoti annamiti segati vivi. 

In quel tempo la cristianità di Bau-Nò, nel Tonchino occidentale, era infestata da bande di briganti e di ribelli. Per opporsi alle loro scorrerie, i mandarini del distretto avevano costituito una milizia di volontari i quali, facendo finta di dare la caccia ai briganti, taglieggiavano i poveri cittadini. Il 1-3-1851 la strada tortuosa che dalle colline scendeva verso il villaggio era infestata da guardie. Pareva che attendessero al varco qualche squadra di briganti, invece, ad un segnale convenuto, essi sbucarono fuori dai cespugli per arrestare prima un sacerdote indigeno che camminava discorrendo con due giovani, quindi P. Agostino, che lo seguiva a poca distanza con allievi e catechisti. Nel mettere le mani addosso al bianco che li guardava maestoso e tranquillo, le guardie furono prese da timore e riverenza. Allora il comandante gridò loro: "Che fate? Date mano alle verghe e battete". Il missionario, che era stato tradito da una delle guide, lo interruppe, dicendo: "E perché? Io non ho mosso un passo per resistere alla vostra violenza". Dopo che fu legato, mentre le guardie si disponevano alla partenza, il loro capo si rivolse ai prigionieri e disse: "Potrei consegnarvi ai mandarini; datemi una verga d'oro, cento verghe d'argento e vi lascerò tutti liberi". 

Alla mente di P. Agostino balenò immediatamente un generoso disegno. Difatti gli rispose: "Ebbene, se volete una così grande somma per il nostro riscatto, lasciate che questi miei discepoli vadano a cercarla; io resterò in ostaggio". 

Il pagano, accecato dalla cupidigia dell'oro, rilasciò il sacerdote indigeno con gli allievi e i catechisti, ma il denaro pattuito non riuscì ad averlo perché non fu potuto trovare. Il missionario, lieto di aver salvato gli altri con il suo sacrificio, si lasciò condurre a Son-Tay non senza aver prima assicurato i fedeli che nessuno da parte sua sarebbe stato denunciato o compromesso. A Son-Tay, dopo le solite domande, il mandarino chiese al prigioniero: "Quando eravate ancora in Europa, sapevate che la vostra religione era proibita nel regno?". "Si che lo sapevo, ma volli venirvi appunto per questo", "Ditemi i luoghi in cui siete stato affinchè possa fare il mio rapporto e rimandarvi in Europa". "Mi trovo nel regno da quattro anni; sono stato in molti luoghi di cui non ricordo il nome e vado in tutti i villaggi in cui sono desiderato dagli abitanti". I mandarini, presi da insolito rispetto per il giovane sacerdote, non insistettero. Il giorno dopo provarono a indurlo all'apostasia, ma il martire fu così risoluto nel rifiuto che i giudici, considerando inutile ogni ulteriore insistenza, chiusero gli atti e ne inviarono il rapporto alla capitale. 

Tra l'altro la sentenza diceva: "Il signor Agostino è un europeo che ha avuto l'audacia di venire, malgrado il divieto che ne fanno le leggi, a percorrere le contrade di questo regno per predicarvi la religione, sedurre e ingannare il popolo: della qual cosa fu pienamente convinto nell'esame della sua causa. Secondo il decreto del re, ad Agostino si deve tagliare la testa e gettarla nelle acque del mare o dei fiumi a esempio e ritegno del popolo". 

Il capitano delle guardie riuscì ad ottenere dal mandarino che, il missionario, fosse tolto dal carcere duro e detenuto nella casa del direttore delle prigioni. Il santo poté riavere anche il denaro che gli era stato sequestrato al momento dell'arresto, e con esso provvide al suo sostentamento. Così il martire trascorreva nella meditazione e nella preghiera giorni tranquilli. Pur essendo strettamente vigilato, qualche catechista poté introdursi fino a lui e consegnargli le lettere che gli scrivevano altri missionari e gli amici d'Europa. Il sacerdote Phuong riuscì ad avvicinarlo, travestito da mercante di occhiali, confessarlo e dargli la comunione. Il santo era tanto acceso di zelo che neppure in carcere tralasciò di esercitare l'apostolato, parlando della bellezza della fede ai soldati di guardia ed esortandoli ad abbracciarla. Diceva loro: "Io mi ricorderò di voi dopo la mia morte, ma se desiderate essere felici, cercate un villaggio abitato da cristiani e convertitevi". 

Il 1-5-1851 fu condotto al luogo del supplizio scortato da un buon nerbo di soldati. Giulivo in volto, camminava con passo sicuro, salmeggiando. Appena vi giunse s'inginocchio per terra, baciò il crocifisso, si sbottonò la veste e presentò il collo al carnefice dicendo: "Sbrigatevi a fare il vostro dovere". La testa del martire fu gettata nel fiume dove non fu più possibile ripescarla. Il corpo, che era stato seppellito nel luogo stesso dell'esecuzione capitale, il giorno dopo fu trasportato di nascosto nella vicina città di Bach-Loc dove un fervente cristiano gli diede onorata sepoltura presso la propria casa. Leone XIII beatificò il martire il 7-5-1900 e Giovanni Paolo II lo canonizzò nel 1988 con altri 116 testimoni della fede nel Vietnam.

Autore: 
Guido Pettinati




Saint SACERDOS de LIMOGES, évêque

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Saint Sacerdos


Évêque de Limoges ( v. 720)


Fêté au diocèse de Périgueux, il fut évêque de Limoges et de toujours patron de la ville de Sarlat, en Périgord.

Avant l'épiscopat, il fut d'abord moine puis abbé et choisit de terminer sa vie en moine. 

Sur le site du diocèse de Périgueux, paroisse St Sacerdos.

Voir aussi: 

- site de la paroisse Saint Sacerdos en Périgord noir 

-
l'histoire de Sainte-Mondane-en-Périgord 24370.

-
site du village de Saint-Sardos (Tarn-et-Garonne):

Sacerdos naquit à Calviac (ou Calabre) en Quercy où son père Laban et sa mère Mondane, qui étaient de Bordeaux, s'étaient retirés. Laban mourut peu d'années après et laissa son fils sous la tutelle de Mondane qui lui donna une excellente éducation et les plus grands principes de religion. Elle le mit sous la discipline de Saint Capuan, évêque de Cahors qui lui conféra les ordres sacrés. Sacerdos revint alors dans sa patrie où il trouva un petit monastère pauvre, vivant d'aumône. Sacerdos fit réparer ce monastère où il prit l'habit quelques temps après et y vécut sept ans en tant que simple religieux. Après quoi, il fut élu abbé. La réputation de sa sainteté fut telle que, l'évêque de Limoges, Aggerius, étant mort, il fut unanimement élu à sa place. Sacerdos gouverna son diocèse pendant plusieurs années mais, voyant sa fin proche, souhaita mourir dans son monastère. Il n'y parvint pas mais fut quand même inhumé dans l'église du monastère. Il s'y fit depuis de nombreux miracles, mais plusieurs siècles après le monastère de Calviac est ruiné par des guerres. 

Cette abbaye est alors réunie à celle de Sarlat et le corps de Sacerdos fut aussi transporté dans cette ville qui le prit pour patron. En 1122, lors de la fondation de Saint-Sacerdos, il est déjà canonisé. Un buste-reliquaire en son honneur se trouve encore aujourd'hui dans l'église.

- Il existe dans l'église de Saint Urbain 52300, dans une paroisse du diocèse de Langres, une châsse de Saint Sacerdos avec certification (voir photo). Cette relique est exposée chaque fois que la Saint Urbain tombe un dimanche. La prochaine devrait avoir lieu en 2019.

À Limoges, en 720, saint Sacerdos, évêque. Avant l'épiscopat, il fut d'abord moine puis abbé et choisit de terminer sa vie en moine.

Martyrologe romain


Saint CATALDO de RACHAU (de TARANTO), (10 MAI), évêque

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Mosaico raffigurante San Cataldo nella Cappella Palatina di Palermo

Saint Catalde

Évêque de Tarente (VIIe siècle)

Cataldo ou Cartault...

Moine irlandais, il dirigea pendant plusieurs années une école monastique dans son pays. Parti en pèlerinage à Jérusalem, comme tant d'autres à cette époque, il s'arrêta sur le chemin du retour pour convertir à la foi chrétienne la population de la région de Tarente, revenue au paganisme après avoir été, selon la tradition, convertie par saint Pierre lui-même.

...On note un buste de saint Cartault, évêque de Tarente, compagnon de saint Savinien, martyr... (Histoire des communes de l'Yonne - Maurice Pignard-Péguet livre III - 1913 - Bibliothèque numérique icaunaise)

...Dilo fut le siège d'un monastère de Prémontrés fondé en 1135... (La chapelle Saint Cartault à Dilo diocèse de Sens-Auxerre

...L'église a été restaurée en 2002... (Tourisme Yonne

...Le 6 août 1692, la Chapelle Saint Cartault est solennellement bénite et livrée au culte. Voûtée de lambris, longue d'environ 8x5m, ouverte à l'est par deux fenêtres cette Chapelle demeurera l'église paroissiale du petit village desservi par les Prémontrés... Depuis 300 ans, cette Chapelle réservée aux paroissiens de Dilo, possède toujours son maître-autel ionique et le buste de son saint patron: St Cartault. (Eglise Saint Cartault de Dilo) 

Un internaute nous signale: saint Cartault, ami de saint Patrick - Vénéré à Sens où lui était consacrée une ancienne paroisse; vocable à Dilo (Yonne); sans doute des transferts de reliques. Il serait, avec Vincent, patron des vignerons en Auxerrois 

À Tarente en Apulie, vers le VIe siècle, saint Catalde, moine pèlerin, venu, dit-on, d'Irlande, et considéré comme évêque de cette ville.
Martyrologe romain


Statua di San Cataldo che si venera nella Basilica Cattedrale di San Cataldo di Taranto, 
realizzata da Orazio Del Monaco.

Saint Catalde a vécu au deuxième siècle, il était natif du comté de Munster en Irlande. 

Résumé de la vie des predictions et des visions dont fut favorisée Saint Catalde.

Saint Catalde a vécu au deuxième siècle, il était natif du comté de Munster en Irlande.

Catalde devint moine, il enseigna pendant plusieurs années dans une école monastique dans son pays : la grande école de Lismore. A la mort de Saint Carthag, il la dirigea.

Parti en pèlerinage à Jérusalem comme tant d'autres à cette époque, et après avoir visité les lieux saints, il reprit la route vers sa patrie.

Il s'arrêta sur le chemin du retour pour convertir à la foi chrétienne la population de la région de Tarente, dans les Pouilles, en Italie du Sud, et, peut-être en Sicile, où il constatait que la foi et la pratique chrétienne avaient subi les dommages des invasions barbares. Il décida de séjourner dans l'île pour en ré-évangéliser la population. Sa prédication avait tellement de succès qu'on le choisit comme évêque de Tarente.

On fixe en 170 l’arrivée de Saint Catalde à Tarente où il fut vite renommé pour ses miracles.

On attribue aussi à Saint Catalde une prophétie singulière touchant la destruction du royaume de Naples.

« Catalde, homme religieux et évêque de Tarente, avait apparut la nuit à un ecclésiastique de Tarente, homme vertueux et nouvellement sacré dans les ordres. Il l’avertit de chercher un livre, rempli de divins mystères, qu’il avait écrit de son vivant, et caché dans un certain endroit, et de le présenter au Roi. Mais l’ecclésiastique n’ayant point fait cas de cette apparition, Catalde parut dans ses habits pontificaux avec la mitre sur la tête, se présentant devant lui le matin, alors qu’il était seul dans l’église.

Il lui ordonna sous peine de punition, de chercher le livre dont il avait déjà parlé et de le présenter au Roi.

L’ecclésiastique rassembla le peuple de Tarente le lendemain et ils marchèrent en procession vers l’endroit indiqué.

Il déterra un livre enveloppé de lames de plomb, fermé avec des agrafes de fer.

Ce livre contenait une prédiction sur le royaume de Naples, les temps déplorables, et les calamités dont nous avons vu l’accomplissement, par une terrible expérience. »

Le roi Ferdinand fut tué au premier conflit, son fils ainé fut mit en déroute par ses ennemis et mourut en exil. Le fils cadet fut tué dans la fleur de l’âge pendant la guerre, et Fréderic, le petit fils, vit piller, brûler et saccager tout le royaume de Naples.

Saint Catalde est toujours vénéré à Tarente et à Palerme où une Eglise porte son nom. On le fête le 10 Mai. 



Statua di San Cataldo che si venera nel Duomo di San Cataldo (CL)


Prophéties

Saint Catalde, évêque de Tarente prédit :

« Un roi sortira de l’extraction et tige du lys très illustre, ayant le front élevé, les sourcils hauts, les yeux longs et le nez aquilin.

Il rassemblera de grandes armées, chassera les tyrans de son royaume, qui fuiront devant sa face pour se cacher dans les montagnes et les cavernes ; car tout aussi que l’épouse est jointe à son époux, la justice sera associée avec lui.

Jusqu’aux 40 ans de son âge, il fera la guerre avec contre les Chrétiens (hérétiques) puis subjuguera les Anglais et autres insulaires.

Les rois chrétiens lui rendront hommage.

Après quoi, il passera la mer avec des armées très nombreuses, entrera dans la Grèce et sera nommé Roi des Grecs.

Il subjuguera ensuite les Colchiens, Chypriens, Turcs et Barbares.

Il fera un édit que quiconque n’adorera le Crucifié sera mis à mort.

Il n’y aura roi qui puisse lui résister, d’autant que le bras du Seigneur sera avec lui et aura domination sur toute la terre. Cela fait, il donnera repos aux Chrétiens et à son peuple.

Puis, entrant à Jérusalem et étant monté sur le mont des oliviers, il y fera ses prières à Dieu. Et, ayant ôté sa couronne de dessus sa tête et rendu grâce à Dieu le Père, Dieu le Fils et Dieu le Saint-Esprit, avec des signes admirables, il rendra son âme à Dieu. » 



Statue de Saint Cataldo, Taranto

Saint Catald of Taranto


Also known as
  • Catald of Tarentum
  • Catald of Rachau
  • Cataldus of…
  • Cathal of…
  • Cattaldo of…
  • Cathaluds of…
  • Cathaldus of…
  • Cataldo of…
Profile

Student at the monastic school of LismoreWaterford under Saint Carthage. Later a teacher there, and then headmaster. Pilgrim to the Holy Land. On his way home a storm shipwrecked him in TarantoItaly. As he recovered, his holiness was such that he was chosen by the people to be their bishop. He lived the rest of his life in the region, teaching and caring for his parishioners. There are towns in Sicily and southern Italy named for him.

Born


Chapelle San Cataldo à Tarente

CATALDUS (Saint) Bishop (May 10) (7th century) The most illustrious of the several Irish Saints of that name. Born in Munster he became the disciple and successor of Saint Carthage in the famous School of Lismore. He is believed to have been consecrated a Bishop in Ireland. But on his return from a pilgrimage to the Holy Land, the people of Taranto in Southern Italy constrained him to accept the government of their Church. Many miracles are attributed to his intercession. He flourished early in the seventh century.

MLA Citation

  • Monks of Ramsgate. “Cataldus”. Book of Saints1921CatholicSaints.Info1 October 2012. Web. 9 May 2019. <http://catholicsaints.info/book-of-saints-cataldus/>


Chiesa di San Cataldo Palermo


Chiesa di San Cataldo Palermo

Catholic World – Saint Cathaldus of Taranto, by J F Hogan


“Me tulit Hiberne: Solymae traxere. Tarentum
Nunc tenet. Huic-ritus, dogmata, jura dedi.”

About seven hundred years before the birth of Christ a band of Spartan adventurers founded the city of Tarentum. In retaliation for the insults and wrongs that were inflicted on them at home, on account of their Parthenian origin, they conspired against their native government; but, failing to accomplish] their designs, they were driven out of Greece, and condemned, with their leader, Phalanthus, to perpetual exile. They betook themselves, in their misfortune, to the northern part of Magna Graecia, and settled by the shores of the great gulf of the Ionian Sea. After searching for a site that might prove favourable to commerce, they fixed on the isthmus that separated the large bay from the little harbour now known as the “Mare Piccolo.” There were some scattered houses already there, and as these were steadily growing into a town, the place was called after Taras the Giant, a fabulous son of Neptune, who, according to superstitious traditions, had banished fever and pestilence from the marshes around. The Parthenians took possession of the settlement, and, by their enterprise and intelligence, laid the foundations of a city which grew, in after years, to splendid proportions.

We know not how long Tarentum Lacedemonian Tarentum, as it was called by Horace preserved the simplicity of its Spartan manners; but we know that, like Sybaris, Metapontum, and the other cities of the great Grecian colony, it became famous in history for its luxury and corruption. The country around it was uncommonly fertile. The fleeces of the sheep that grazed on the banks of the Galaesus, which flows into its harbour, were of a finer texture than those of Apulia; and the “murex,” which gave to its wool the famous red-purple dye, abounded in the seas around. Its honey rivalled that of the mountain of Hymettus; and it was in the midst of the vineyards of Aulon, which rose in fertile slopes behind it, that was to be found that spot of earth that was so dear to Horace:

“Ille terrarum mlhi praeter omnes
Angulus ridet.”

These, and many other resources on sea and land, became, in the hands of the sturdy Greeks, the materials of an extensive trade, which brought with it, in the course of a century or two, a tide of wealth and prosperity that was scarcely surpassed by any other city in Southern Italy. It reached the summit of its splendour under Archytas, its famous philosopher and lawgiver, and under his wise rule assumed the proportions of a vast and magnificent city. It had its temples, its schools, its theatres, its baths, its palaces. When Plato came from Athens to visit it, its buildings displayed the classic symmetry so pleasing to the eye of the great philosopher, the ideal line of Grecian architecture, the line that evokes life, and gives a form which Plato and his disciples regarded as eternal.

The lives of the people accorded well with these outward evidences of prosperity. But from prosperity to vice the road is wide and the distance short. That road the people of Tarentum travelled, till they vied with their neighbours of Sybaris in luxury and crime. Then trouble came upon them, and they had good reason to regret the departed virtues of the race from which they sprung. In their extremity they sought the aid of the King of Epirus; but, in spite of his daring and bravery, Pyrrhus was driven back to Greece. And now one of those strange developments of fortune which sometimes mark with a touch of irony the vicissitudes of history occurred to the Greeks of Tarentum. Its foremost citizens were banished by the inexorable Consul Pacuvius, and compelled to take refuge in the very land from which their forefathers had been expelled. As unwilling as were the original Spartans to leave their native Lacedemonia, just as unwilling were their descendants to return to it. Indeed they felt this exile more keenly than if they had been driven to any other country. The poet Leonidas gave expression to the general sentiment of the exiles when he said: “I languish far from the land of Italy, and from Tarentum my country and this banishment is more bitter to me than death.”

After the defeat of Pyrrhus, the Tarentines next put their trust in Hannibal; but Hannibal, who at one time seemed to have secured the whole of Southern Italy against Home, was obliged to return to Carthage, and old Fabius “Cunctator” was entrusted with the task of chastising the Tarentines.

The city was now subjected to one of those systematic forms of pillage peculiar to the old Eoman Eepublic. Thirty thousand of its citizens were sold as slaves. Its treasures of gold and silver were transferred to Rome, where they exercised an immediate effect on the currency and money-market ‘of the empire. Its temples and theatres were despoiled of their statues and of their paintings. The superstitious old general respected only the figures of those divinities that were represented in an attitude of anger Jupiter, launching his thunderbolts against some rebel of earth or of Olympus; Apollo, piercing with his darts the children of Niobe; Perseus, despatching the Gorgon with his dagger; Hercules, trampling on the Amazon; Minerva, threatening Medusa with her spear, or changing Arachne into a spider. He gave expression in. a few pregnant but tragic words to the dispositions of Pagan Borne towards her vanquished rebels, when he said: “Let us leave to the Tarentines their irritated gods.”

From its capture by Fabius down to the early days of Christianity, Tarentum dwindled into comparative insignificance. As a part of its punishment, Brundusium was substituted for it as a port of embarcation for the East. Its trade was ruined by this unfortunate change, and it has never since recovered from the blow which shattered the very foundation of its mercantile prosperity.

Who was the first to preach Christianity to the citizens of Tarentum? At what period were they converted? Did they remain steadfast after their first conversion, or did they fall back again into paganism, and require to be rescued a second time? These are questions which are involved in great obscurity, and have given rise to a great amount of research and speculation among the native historians of Calabria. We can only give what appears to be the general conclusion at which they have arrived.

A tradition of immemorial standing seems to ascribe the first conversion of Tarentum to Saint Peter and his disciple and companion, Saint Mark. Seeing that it is held by many writers that Saint Peter paid two visits to Rome, during the second of which he suffered martyrdom, it is natural enough to suppose that, on his way to or from the East, he may have passed through Tarentum, and have preached the good tidings of Christianity to its people. However this may be, it is certain that the seeds of Christian life did not take deep root there on its first sowing, and that in the political turmoil which followed the transfer of the seat of Empire to Constantinople, its young shoots were almost completely smothered. In these disturbances Tarentum passed from Romans to Greeks, and from Greeks to Romans. It was handed about to all kinds of freebooters. For a time it was held by Belisarius for Justinian; then it was occupied by Totila and his Goths. These in their turn were expelled by the Imperial arms, and the citadel was held for the empire until the arrival of the Longobardi, whose commander, Romoald (Duke of Beneventum) got possession of the town and province.

It must be acknowledged that such stormy conditions of life were not very favourable to the spread of Christianity. No wonder, therefore, that little trace should have been found of the Christian settlement that had once been established at Tarentum when Saint Cathaldus first appeared within its walls.

That Saint Cathaldus was a native of Ireland, is a fact which cannot be seriously questioned. Indeed it is not denied by anybody worthy of a moment’s notice. It has been the constant tradition of the Church of Tarentum; and in every history of the city or of its apostle that is of Italian origin, there is but one voice as to the country from which Saint Cathaldus came. The most valuable biography of the saiat which we possess was written in the seventeenth century by an Italian Franciscan named Bartolomeo Moroni, As this work professes to be based on very ancient codices and manuscripts of the Church of Taranto, we must conclude that it contains a good deal that is accurate and trustworthy, whilst a very cursory examination is sufficient to convince us that fable and fiction have entered not a little into its composition. It tells us, at all events, that Cathaldus was a native of Ireland; that he was born at a place called Kachau according to some, at Cathandum according to others; that as a happy augury of his future mission to the half Greek, half Italian city of Taranto, his father’s name was Euchus, and his mother’s Achlena or Athena.

A good deal of discussion has been indulged in as to the identity of his birthplace. The general opinion seems to be that Kachau was the place from which he took his title as bishop, and that Cathandum was the place of his birth. This Cathandum is supposed to be identified either with “Ballycahill,” in the Ormond district of North Tipperary, and in the diocese of Killaloe, or with a place of the same name not far from Thurles, in the diocese of Cashel. As for Rachau, it is believed to be intended either for Eahan in the King’s County, where Saint Carthage had his famous monastery, and where he ruled as a bishop before his expulsion by the Hy Niall of Meath, or for one of the numerous places called Kath in the immediate neighbourhood of Lismore; or, finally, as Lanigan thinks probable, the place now called Shanraghan in Southern Tipperary and on the confines of Waterford. It is distinctly stated that the place was, at all events, in the province of Munster, and not far from Lismore. Nothing more precise can be laid down with certainty.

What does not, however, admit of the slightest doubt, is the fact that Saint Cathaldus was surrounded by spiritual and religious influences of a very special kind from his infancy upwards. These influences found in his soul a most sympathetic response, and when they had lifted the thoughts and aspirations of this fair youth above earthly things, he was sent by his parents to the neighbouring school of Lismore. This school, although it had been established only for a very short time, had already acquired widespread fame, and had attracted students from all parts of England and Scotland, and from several continental countries besides.

What a busy place this famous southern university must have been in the days of its prosperity ! When we read the account of it that has come down to us, glorified though it may be, and exaggerated, as no doubt it is, by the imaginations of its admirers, writing, some of them, centuries after its decay, and seeing it chiefly through the scholars and apostles that it produced, we cannot help being struck by the features of resemblance, and yet the strong contrast, it presents with those Grecian cities that, in far-off times, gathered to their academies and their market-places the elite of the world orators, poets, artists, grammarians, philosophers, all who valued culture or knew the price of intellectual superiority. Lismore had no spacious halls, no classic colonnades, no statues, or fountains, or stately temples. Its houses of residence were of the simplest and most primitive description, and its halls were in keeping with these, mere wooden structures, intended only to shut off the elements, but without any claim or pretense to artistic design. And yet Lismore had something more valuable than the attractions of either architecture or luxury. It possessed that which has ever proved the magnet of the philosopher and the theologian truth, namely, and truth illumined by the halo of religion. It sheltered also in its humble halls whatever knowledge remained in a barbarous age of those rules of art that had already shed such lustre on Greece and Borne., or had been fostered in Ireland itself according to principles and a system of native conception. Hence it drew around it a crowd of foreigners Saxons and Britons, Franks and Teutons, Sicambrians and Helvetians, Arvernians and Bohemians:

“Undique conveniunt proceres quos dulce trahebat
Discendi stadium, major num cognita virtus
An laudata foret. Celeres vastissima Eheni
Jam vada Teutonici, jam deseruere Sicambri.
Mittit ah extreme gelidos Aquilone Boemos
Albis, et Arverni coeunt, Batavique frequentes,
Et quicumque colunt alta sub rape Gehennas.
Non omnes prospectat Arar, Ehodanique fluenta
Helvetica; multos desiderat ultima Thule.
Certatim hi properant, diverse tramite ad urbem
Lesmoriam, juvenis primes ubi transigit annos.”

At Lismore Cathaldus edified his brethren by his extraordinary piety as well as by his great love of study. In due time he passed from the student’s bench to the master’s chair, and whilst he taught in the schools, he was not unmindful of the world’s needs. He raised a church at Lismore to the glory of God and the perpetual memory of His Virgin Mother. Frequent miracles bore testimony at this period to the interior sanctity of the young professor. So great was the admiration of the people for him that one of the princes in the neighbourhood grew jealous of his influence, and denounced him to the King of Munster as a magician, who aimed at subverting established authority and setting up his own in its place. The King accordingly sent his fleet to Lismore, where Cathaldus was taken prisoner and confined in a dungeon until some favourable opportunity should offer to have him conveyed into perpetual exile. The King, however, soon found what a mistake he had committed, and, instead of banishing Cathaldus, he offered him the territory of Rachau, which belonged to Meltridis, the Prince who had denounced him, and who was now overtaken by death in the midst of his intrigues. Cathaldus refused the temporal honours which the King was anxious to confer upon him, and proclaimed that he vowed his life to religion, and sought no other honours. He was, therefore, raised to the episcopate, and constituted the chief spiritual ruler of the extensive territory of the deceased Meltridis, whose tanist rights were made over on the church.

After Cathaldus had ruled the see of Kachau for some years, he resolved to set out on a pilgrimage to Jerusalem. He committed the care of his diocese to his neighbouring bishops, and set sail, without any retinue, for the Holy Land. It is probable that he was accompanied by hisbrother, Donatus, who afterwards became Bishop of Lupiaer now Lecce, in Calabria. In due course he reached his destination, and had the supreme happiness of kneeling at the great sepulchre, or as Tasso expresses it:

“D’adorar la Gran Tomba e sciorre il voto.”

With all the love and reverence of a pilgrim he sought out the holy places that had been sanctified by the presence of his Heavenly Master; and so great was his joy to live in these solitudes, and dwell on the mysteries of man’s salvation, amidst the very scenes in which it had been accomplished, that he earnestly desired and prayed to be relieved of his episcopal burden, and allowed to live and die in the desert in which our Lord had fasted, or in some one of the retreats that had been made sacred for ever by His earthly presence. Whilst engaged in earnest prayer on these thoughts, his soul was invaded by a supernatural light, which made clear to him that Providence had other designs about him. He accordingly started on the journey that Heaven had marked out for him; and, having been shipwrecked in the Gulf of Taranto, he was cast ashore not far from the city of which he was to become the apostle and the bishop. The cave in which he first took refuge is still to be seen in the neighbourhood of Otranto, not far from the point of the Japygian promontory.

The shipwrecked pilgrim, henceforward an apostle, soon made his way to the eastern gate of Tarentum. At the entrance of the city a blind man was to be seen, asking for assistance from those who passed by. His condition was symbolical of the darkness that prevailed within. Cathaldus addressed him, spoke to him of Christ and of the Blessed Trinity, and, as he found him amenable to Christian teaching, he instructed him in the mysteries of salvation; and whilst he imparted to him the light of grace through the Sacrament of Baptism he restored to him the light of natural vision through that supernatural power that had been vouchsafed to him. This whole circumstance was regarded as a happy omen, and as a symbol of the change to be wrought by the apostle within the city.

A parallel has sometimes been drawn between tbe condition of Taranto, when Saint Cathaldus first entered its gates, with that of Athens when it was first visited by Saint Paul. The parallel holds good in some respects, but not in all. Taranto was, to all intents and purposes, as deeply plunged in paganism as Athens was. There was scarcely a vestige left of the early religious settlement that had been made there by Saint Peter and Saint Mark, or by whoever had preached the Gospel to its people in early times. Paganism reigned supreme; but, in so far as it constituted a religion at all, it was paganism in its most corrupt and repellent form. The days of Archytas and of Pythagoras were now left far behind. The artistic splendour which had never entirely disappeared from Athens, had long since vanished from Taranto. There was no culture now, but ignorance and barbarism, the result of centuries of war and strife. With minds thus steeped in ignorance, with hearts corrupted by licence and perverted by superstition, the people of this neglected city did not offer a very encouraging prospect to the new missionary who appeared among them. His success, nevertheless, was greater than that of St. Paul at the capital of Greece. He won his way to the hearts of the people by his eloquence, his zeal, his power of working miracles; and when the prejudice entertained against his person and speech was once removed, the divine origin of the Gospel that he preached was acknowledged readily enough. We have, unfortunately, but very meagre details as to the methods of his apostolate; but we are assured, at all events, that they were so effective as to win over the whole city in a few years. Certain it is that Cathaldus was acknowledged without dispute, during his own lifetime, as Bishop of Tarentum, and that he has ever since been revered as the founder of the Tarentine Church and the patron saint of the converted city.

It is said that when the saint felt that his death was at hand, he called around him his priests and deacons and the chief men of the city, and earnestly exhorted them to remain faithful to his teaching.
“I know [he said], that when I am gone dreadful and relentless enemies shall rise up against you, and endeavour, by heretical sophistry, to tear asunder the members of the Catholic Church, and lead astray the flock which I brought together with such pains. Against these enemies of your faith and of the Christian religion, I entreat you to strengthen the minds of the people by your own firmness, ever mindful of my labours and vigils.”

The remains of the holy Bishop were committed, at his own request, to their native earth in his Cathedral Church. They were enclosed in a marble tomb, portion of which is still preserved. For some time the exact position of this tomb was unknown, but when Archbishop Drogonus of Tarentum was restoring the cathedral, in the eleventh century, the tomb was discovered. It was opened by the Archbishop, and the body of the saint was found well preserved. A golden cross had been attached to the body of the saint at the time of his burial. This also was discovered, and found to bear upon it the name of Cathaldus. The relics of the saint were then encased and preserved in the high altar of the cathedral. During the; pontificate of Eugenius III they were transferred to a beautiful silver shrine adorned with gems and precious stones. A silver statue of Cathaldus was also cast, and erected in the church. These and many other memorials of the saint are still to be seen, and are held in great veneration by the people of Taranto.

The miracles attributed to the saints of the Church are often spoken of with derision by those who regard themselves as the children of light. These, whilst they minister to their own vanity, and fancy that nature has taken them specially into her confidence, revealing her inmost secrets to their ardent gaze, sometimes succeed in deceiving others: but they deceive themselves more than all. Indeed it is almost impossible to conceive how those early saints could have succeeded in winning over to Christianity, in the space of a few years, whole cities and districts that had hitherto been steeped in vice and superstition, without the power of working miracles. When that power is once granted, the explanation of wholesale conversion becomes easy and plain. Something is necessary to strike and astonish the multitude, and when wonder and alarm have become general, half the battle is already gained.

That Saint Cathaldus possessed this power in a high degree, is testified not only in the records of his life, but still more authentically in the wholesale nature of the (Conversions that he wrought, and the unfading memory he left impressed on the city to which he ministered. The veneration for Cathaldus was not confined to Tarentum alone. It spread far and wide through Italy, Greece, and the Ionian islands. The village of Castello San Cataldo on the Ionian coast, midway between Brindisi and Otranto, perpetuates his name. Chapels dedicated to the saint, or statues erected in his honour, may be seen in many of the neighbouring towns of Calabria. The Cathedral of Taranto itself is, however, his greatest monument. M. Paul Bourget, the famous French Academician, who recently visited these southern shores, speaks of it as “la belle cathedrale Normande vouee a San Cataldo, l’apotre irlandais du pays.” It is a Norman cathedral, but many of the distinctive features of Norman architecture have given way to new designs, which make of it a curious mixture of many styles. The interior of the church, however, is very rich, many of the chapels being profusely inlaid with “pietra dura.” The shrine and statue of the saint are particularly fine. Notwithstanding the series of successive influences, and of rival civilizations that have passed over these southern lands, Greek, Roman, Byzantine, Saracen, Norman, Teuton, and later Italian, M. Bourget is impressed, and not without reason, at the indelible impress that was made upon them by his Norman countrymen.

The Cathedral of Otranto, built by Eoger Duke of Calabria, son of Robert Guiscard, still maintaining its noble severity in the midst of ruin and decay, is a proof of this time-defying impress. There is scarcely a trace to be found in any of these towns of the old Grecian or Roman monuments. They have been utterly swept away; but the Norman tower still lifts it head, defying the centuries and resting on the faultless arch that time seems powerless to disturb. To the onlooker it conveys something of the austere but truthful lesson that is inscribed within on the tomb of one of its bishops:

DECIPIMUR VOTIS. TRADUNT NOS TEMPORA. SED MORS
DELENIT CURAS. ANXIA VITA NIHIL.

This same endurance of the Norman buildings is noticed all over the province from Brindisi to Reggio. M. Bourget was particularly struck with it at Lecce, the modern capital of the “Terra di Otranto.” There, a little outside the city, Tancred had built a church, which was dedicated to Saint Nicholas and Saint Cathaldus. It is now surrounded by a large cemetery, for which it serves as a mortuary chapel. In speaking of this interesting building M. Bourget says:

“If ever I regretted not having received that special education which enables one to discern at first sight the technical value of a piece of architecture, it was long ago in England, in face of one of those great cathedrals, like Canterbury, and it was here, in view of this Norman facade. I felt that it was really fine. But such sensations, when not supported by some exact idea of their cause, remain incomplete, as when one listens to music without a knowledge of harmony, or reads verses without possessing the secret of metre. And yet I was fascinated by these two doors one in front, the other at the side; by the noble simplicity of the arch, and the elegance, still intact, of the arabesques. It is possible that I may not have been so vividly impressed, were it not that the church arose, solitary and silent, in the midst of this ‘Campo Santo,’ and that the memory of its founder, Tancred, had been inscribed on its architrave in leonine verse.”

As for Taranto itself, M. Bourget tells us that, notwithstanding some remnants of its Norman pride, it has fallen, at the present day, into utter and almost absolute decay:

“Fallen, indeed, it is [he writes]; for this modern Taranto, to which I have just paid a lengthened visit, has not even the charm of unconsoled decay, which makes of Otranto’s lonely pile something greater and more splendid than a ruin. Those who have gone to that point of Sicily which looks across towards Carthage, may remember that little hill of Selinonte, and how much more majestic its temples, shattered by an earthquake, appear now, in their total wreck, than they did when their colonnades looked out in defiance over that African sea in which the Punic galleys were arrayed. The worst decline is that which survives itself in mediocrity. Confined almost exclusively to the island that served merely as an acropolis to the ancient city, modern Taranto is built of sordid houses, which are divided by streets that seem narrower than even the narrowest calle in Venice. The people who dwell in these houses, and circulate through these oppressive passages, look pale and sickly. Living almost exclusively on fish, they are subject to many diseases, and one would look in vain among them for a single type of that grace which they know so well how to impart to the little statues in terra-cotta in which they deal so largely.”

The misery of the city itself contrasts rather strangely with the scenery of the country that stretches away towards the east. As one approaches Otranto the plain becomes a vast field of olives and of orange-trees. It reminds M. Bourget of the valley between Malaga and Bobadilla, in Spain, one of the most picturesque sights in Europe. But, through good or ill, the faith of the people of Taranto has never varied since their final conversion. They have seen many changes, from the days of Robert Guiscard to those of Napoleon; but they still adhere to the creed of the Koman Church, and of the Church of Saint Patrick and Saint Cathaldus.



Chiesa di San Cataldo Palermo

Butler’s Lives of the Saints – Saint Cataldus, Bishop of Tarentum, in Italy


He was a learned Irish monk, who was for some time regent of the great school of Lismore, soon after the death of its founder Saint Carthag. To this nursery of learning and virtue prodigious numbers flocked both from the neighbouring and remote countries. Saint Cataldus at length resigned his charge in quest of some closer retirement, and travelled to Jerusalem; and, in his return into Italy, was chosen bishop of Tarentum, not in the sixth century, as some Italian writers have imagined, much less in the second, but in the decline of the seventh. He is titular saint of the cathedral, the only parish church of the city, though it is said to contain eighteen thousand inhabitants. Saint Cataldus is counted the second bishop. Colgan gives an epitaph placed under an image of Saint Cataldus at Rome, which declares his birth, travels, and death, as follows:

Me tulit Hiberne, Solymæ traxere, Tarentum
Nunc tenet: huic ritus, dogmata, jura dedi.
Which are thus Englished by Harris in his edition of Ware’s Irish bishops:
Hibernia gave me birth: thence wafted o’er,
I sought the sacred Solymean shore.
To thee, Tarentum, holy rites I gave,
Precepts divine; and thou to me a grave.

MLA Citation
  • Father Alban Butler. “Saint Cataldus, Bishop of Tarentum, in Italy”. Lives of the Fathers, Martyrs, and Principal Saints1866CatholicSaints.Info. 11 August 2018. Web. 9 May 2019. <http://catholicsaints.info/butlers-lives-of-the-saints-saint-cataldus-bishop-of-tarentum-in-italy/>



Chiesa di San Cataldo Palermo


Among the scattered biographies of our Irish Saints, there are few that claim a deeper interest, or present a more fascinating or instructive chain of incidents than the life-tale of Saint Cataldus. And yet there is none, we venture to think, of that long line of heroic apostles whose names fill our national calendars, of whom less is known in the country of his birth.

Far away in that sunny land of Southern Italy where the white-capped waves of the Adriatic break upon the shingly beach, there is an olden city, whose domes and towers and long lines of roofs, grown russet and brown with the shadows of centuries, where the memory of Cataldus of Ireland is preserved as lovingly and as freshly as in that far-off day when its citizens chose him for their patron, and dedicated their noblest temple to his honour. This is the proud city of Tarantum or Taranto, which gives its name to the land-locked gulf of the Adriatic Sea. In its period of classic glory, it seemed to rival Imperial Rome, and in the vastness of its commerce and the fame of Tarantum’s industries and manufactures, it once vied with the famous but fated cities of Sidon and Tyre.

It is, indeed, strange in the paths of history as we trace the footprints of our wandering Irish apostles, that here in this distant foreign city we find the narratives of the life, legends, and miracles of this sixth century Saint handed down as a precious heirloom from sire to son, while at home in the land that bore him, his name and existence awaken little more than the faintest echoes of dim tradition. As our story is unfolded, this reflection – regretful thought as we may call it – cannot fail to suggest itself to our Irish readers as it does to us.

Cataldus – or Cathal, as he is styled in the terse records of our Irish manuscripts – was born in the kingdom of Mononia (our present Munster) in the latter part of the fifth century. The learned Franciscan historian, John Colgan, to whose pen and researches Ireland owes so much, fixes his birthplace in the riding of Upper Ormonde, North Tipperary. Here there is a town-land called Ballycahill, which is identified as the tribal home of his clan, and here we trace one of the faint outlines of his name to which we have just alluded. His father was a minor prince, and Cathal was the eldest and seemingly the only child of his house. Miracles or strange manifestations of the favours with which God was pleased to mark his career, from dawn to close, were vouchsafed from the hour of our Saint’s nativity.

The joy, which his birth brought his parents, was quickly turned to sadness, for a few hours after the child came into the world his mother died. However, we are told that the infant fingers of the babe, having by chance touched the lifeless corpse that lay beside it, life returned, and the young mother, whose loss was mourned, was restored to her husband and child. In connection with the infancy of our Saint, several legends are recorded. One tells us, how an aged hermit who lived in the solitude of the Galtee Mountains, on the night Cathal was born, saw a miraculous light encircle the abode of his parents as he looked down from his cell over the distant plain. Hastening to the scene, the holy man blessed the child and predicted that he was destined by God for great things. Again, we are told that while still very young, by accident, the little boy fell, and his head was dashed against a rude stone. It was believed the fall would have cost him his life, but he was left unhurt, while, like softest wax, the stone received the impress of his head. His preservation was looked on as miraculous – which no doubt it was, since, for years afterwards, water placed within the hollow of the stone was found to possess healing powers for various diseases.

Very early in his life the sanctity of the child led his parents to place him at the famous school of Lismore founded by Saint Carthage.

The fame of the schools of Ireland at that period had spread over Europe. Each would seem to have cultivated some special branch of religious or secular education. But Lismore, in the valet of the Blackwater, had become famous as embodying in its teachings what we would call a general system, providing its scholars not only with the means of acquiring knowledge of the deeper sciences of mathematics and philosophy, but also all the accomplishments and useful crafts of that day. Students flocked to it from England, Scotland, France, Germany, Spain, and even from the shores of the Aegean Sea. It was here, as we learn from history, that at a later time than the period of which we write, that Oswald, of Northumbria, perfected himself in languages and psalmody, and was, on his return home, able to interpret for his people the preachings of the foreign missionaries he brought amongst them. And to the teachings of his Irish masters in Lismore, we may doubtless attribute the sanctity and sacrifices of this holy king, which secured for him a place among the royal Saints of his own country.

Alfred the Great, too, spent years of study in the vale of the Blackwater, and from the Irish bards learned to play the harp, and interweave with its melodies those weird songs with which he charmed his Danish foes, when disguised he visited their camp and perfected the stratagem by which he won back his crown and kingdom.

But let us return to the thread of our story.

Cathal won distinctions without number in the school of Saint Carthage, and when he had completed his course was retained as a teacher, so highly were his attainments estimated. Being, however, filled with a longing to spread afar the tidings of the Gospel, after some time he returned to his native place, where many of his relatives, and other inhabitants were still plunged in superstition and paganism. Success attended his preaching on every side, and miracles seem to bless every effort of the Saint in the course of his Apostolate. For the conversion of so many souls, Cathal was filled with gratitude towards God, to whose mercy he attributed all his powers, and in thanksgiving, we are told, he built a church in Lismore, which he caused to be dedicated to the Mother of God.

Cathal, though he taught the Divine truths, and had conducted so many into the fold of the True Faith, had not yet entered the sacred Ministry. He was at this time living in his father’s home. The death of both his parents occurring within a brief period, and releasing him, as he felt, from earthly and domestic ties, the holy youth determined on disposing of his patrimony, and carrying out his desire of entering the religious state. His whole life had been a preparation for this step, and very soon the holy order of priesthood was conferred on him.

His zeal and reputation for sanctity, together with the wonder-working powers, which were accredited to him, brought such crowds around him, and coupled such praises with his name, that in his humility he determined to leave the people among whom he ministered, and who were so devoted to him.

Secretly he stole away and retraced his steps to Lismore. Here, amidst the vast concourse of monks and scholars, he hoped to escape the notice and flattery of men, and undisturbed, might devote himself more intimately to the service of God. Almost immediately on his return to the place where he had passed so many happy years, the zealous priest set about building another oratory at which he worked with his own hands. His whereabouts were however traced, and, as in the scenes he had just left, so now again, the blind, the lame, and the sorrow stricken hourly sought his aid and consolation.
It is related that at this time Cataldus, almost unconsciously, worked some of his greatest miracles. The child of a soldier who served in the army of the Prince of Desii, in whose territory Lismore was situated, was seized with a grave illness. The troubled father was advised to set out for the birthplace of the Saint and procure some water from the hollow of the stone on which the impress of Cathal’s head had remained since the accident, which had occurred in his childhood. On his return, the soldier was grieved to learn that during his absence his son had died. Hearing the Saint was at Lismore, the poor man in his frenzy took the lifeless corpse, and carrying it for many miles reached the spot where Cathal was to be found. The holy man at the time was busy digging out, as we are told, the deep foundation for his new church. Laying the body close to where the Saint was working, the soldier besought him to have pity on him, and implore God to restore his child to life. At the moment, as Cathal was casting the earth up from the deep trench a portion of the clay fell upon the lifeless form. A rosy hue at once stole over the pale cheek of the dead child. A movement of life returned to the rigid limbs, and, as if awaking from a sleep the child rose up, and was quickly enfolded in the arms of his father!

Rumour, with its myriad tongues, soon bore the tidings of this miracle far over the land. It seemed like a renewal of the Gospel wonders wrought by the shores of Galilee. And, like as with his Divine Master, the blessings, which Cataldus brought to others, were to be likewise fruitful of persecution to himself. Meltride, the Prince of Desii, was still a pagan. Urged on by the representations of his Druid priests he petitioned the King of Munster, whose vassal he was, to have the saint imprisoned, lest by his magic and seditious language he should mislead his subjects. The wily insinuation had the wished-for result. The old king yielded to the suggestions of Meltride and his wicked advisers, and ordered the holy priest to be arrested, and cast into prison.

Strange to tell, and as if in punishment of his crime, Meltride died suddenly and the aged Monarch of Munster, like the king in tragedy, could “sleep no more.” His brain was tortured with the thought of his injustice, and, moreover, he was besieged with the ceaseless demands of the people for the release of their benefactor. “Conscience makes cowards of us all,” and kings are no exception, and soon by royal mandate, the guiltless prisoner was set free.
The king, we read, not only released him, but in his effort to repair the injustice of which he had been the instrument, offered Cataldus the princedom and territory of the unhappy Meltride.

These favours the Saint declined, at the same time assuring the King of his hearty forgiveness. However, later on we learn, the bishopric of Rahan becoming vacant, Cathal was compelled to accept it, and found unexpectedly the estates of Meltride conferred by royal gift on his diocese as mensal property to provide meals for the bishop’s clergy.

This generosity abundantly proved that the King, who once cast him into prison, was indeed a generous enemy, and, better still, a penitent one. There is no longer a diocese of Rahan in Ireland, but, if we mistake not, it was the same small monastic see from which Saint Carthage was expelled by some ungrateful men of Meath. This circumstance of expulsion led to Saint Carthage founding the School of Lismore. And, by a strange coincidence, within the neighbourhood of this self-same Rahan, the Irish Jesuits have today one of their famous seats of education,  Saint Stanislaus’ Tullabeg, Tullamore, where we feel that it will be ever their pride to revive and keep green the memory of our great early Irish scholars, Carthage and Cataldus.

Some of our readers, versed in antiquities, will gather interest from this novel side-gleam of ecclesiastical story. It reveals that the first see of Carthage was, at most, but one of Abbatial jurisdiction, confined to the extent of his monastic estates. There were many such sees in Ireland; in fact, they seem to have been almost as numerous as are parishes now. Moreover, it will remind them that, after the coming of the Cistercians, in the days of the Sainted Primate Malachy of Armagh, Pope Eugenius III, the patron of Saint Bernard, made a redistribution of sees in ecclesiastical Ireland, much as we find them today.

But let us go back to Cathal and his subsequent history. Just at this time – the earlier decades of the sixth century – an anxious yearning to go forth on missions of Apostolic enterprise took possession of our Irish scholars. They seem to have been urged, in prosecuting their holy desires, by three distinct motives. Some left their country, like Romuald of Dublin (better known as Saint Rumbold of Mechelen), in order to avoid regal and worldly honours which their faithful people would feign thrust upon them. Others made sacrifice of home and country, for Christ’s sake, to preach and spread the Gospel. But a still greater number seem to have been actuated by the wish to visit, as pilgrims, places sacred to the birth of Christianity – the Holy Land, the temples and the tombs of Rome.

Cataldus was one of the latter band. He left his diocese – not, we should think, with any idea of forsaking Ireland for ever – and set out for Jerusalem. He had long cherished a desire to visit and venerate scenes consecrated by the footsteps of our Redeemer, and worship in the places where Christ had trod. After months of travel and various vicissitudes, he reached the Holy Land. His enthusiastic aspirations and holiest dreams seemed now about to be satisfied. To him each scene was almost familiar, so long had their associations been coupled with the life and thoughts of Him whom he had chosen from infancy as his model, and on whose Divine teachings he had pondered in meditation. In his fervour, a strange, yet holy thought filled his mind to take up his abode, at least for a time, and live as a hermit in the Holy Land. Close to Bethlehem, he chose for himself a grotto cell, whence he visited all those spots sacred to Scripture story. For a time, he felt happy and satisfied in the realisation of his holiest life dreams.

But the path Cataldus had chosen was not the one for which he was destined by the Providence of God. Soon it occurred to him that the life of an anchorite, even amid places of such holy recollection, was, as far as the outer simple world was concerned, a selfish one. He was, after all, but labouring now for the salvation of one soul – his own – while within him lay the power of gathering many guests to the everlasting feast. The parable of the “ten talents” may have realized its meaning more forcibly for him, as he meditated amid the very scenes where the imperishable simile fell from the lips of the Divine Teacher. Gifted as he was with the highest knowledge and acquirements of his time, was he not called upon to turn to account those endowments, and not leave “his talents” buried in the pound? And full of faith, as these reflections caught a faster hold on his soul, he sought the will of God in prayer, promising that he would follow the inspiration of Divine guidance whithersoever it beckoned him. At length his prayer was heard, and it was mysteriously revealed to him that he should travel to Italy and restore the faith to the City of Tarantum, where once the Apostles Peter and Paul had preached, but where their teachings were now, alas, forgotten.

At once, the Saint obeyed, although his departure from the land which he had longed for as the home of prolonged contemplation was a grave trial – a sacrifice made more bitter still by the thought that he was never perhaps again to return to his beloved Ireland.

Travelling on to the shores of the Levant, Cataldus found a vessel on the point of starting for Italy. The day he embarked was calm and beautiful; favouring winds filled the sails of the barque and gave promise of a happy voyage. However, at sundown, although nothing as far as human calculation could foresee betokened a change, Cataldus warned the captain of a coming storm. The suggestion was, however, badly received by the master of the ship and his crew, who smiled at the words of the inexperienced passenger. Soon, however, they found that Cataldus was not far astray. Unexpectedly, a storm arose of such violence that the vessel became unmanageable and had to be allowed to drift along, a plaything of the tempest. One of the sailors, who attempted to mount the yards, and reef the tattered sails, was dashed upon the deck and killed. In the face of such peril the anxious crew crowded round the stranger who had foretold the disaster, and pitying them, Cataldus, lifting his eyes to heaven invoked the Blessed Trinity, and making the sign of the cross over the raging sea, the winds fell and the surging billows quickly sobbed themselves to rest! This miracle won for our Saint, it is needless to say, the boundless gratitude of the poor sailors, but better still, it won for him their souls, for they were pagans, and all were converted by this manifestation of the power of the one true God.
At the close of this eventful voyage, Cataldus was landed at the little port at the mouth of the Adriatic, ever since known as “Porto di San Cataldo.” Close to the beach was a little cave wherein the holy man offered thanks for his safety. In after times, through veneration for his memory, it became a votive chapel, wherein, on festival occasions, the sacred mysteries continued long to be celebrated.

If we look at the map of Italy, a little below the well-known call-port of Brindisi, this point connected with and named after our Irish Saint will be found. The journey from his landing-place to Tarantum was not very far. Yet in those days, when neither rails nor bicycles were available, it was not pleasant. The country here has none of the attractive characteristics, which go to make an ideal Italian landscape. It is dreary and monotonous, and would compare sadly with the tamest of our Irish lowlands.

On his journey, it is related that our Saint was often obliged to ask his way. On one occasion, he inquired of a little shepherdess the road to Tarantum. The child gazed upon the venerable stranger with sad yet wistful eyes, but made no reply. She was deaf and dumb, as Cataldus quickly perceived. Taking pity upon her, the holy man placed his hands upon her head, and at his prayers, her faculties of speech and hearing were restored perfectly. Full of joy, the little girl took him by the hand and led him to the village where her parents lived, and which lay in his direct road to Tarantum. The poor parents knew not what to think, and were almost beside themselves with joy, when their child, who had never spoken from her birth, rushed in to tell them what had occurred. All the neighbours and kinsfolk were quickly on the spot to witness the miraculous cure and see the wondrous stranger who had wrought it. Cataldus, availing of the opportunity, explained to them that he was but the representative of the Great God who was the Giver of every good gift, and to Him alone should thanks and praise be given for the wonder worked amongst them.

Very little more effort was here needed to reap a plentiful harvest of souls, and before the sainted missionary left the village, he had the happiness of receiving every soul there into the bosom of the Church. A journey of a few miles further brought Cataldus to his destination. In the designs of Providence, Tarantum was to be the home of his earthly exile.

In his school time, he had often read the lines of classic reference in which many of the Latin poets had enshrined the name of the old-world city. As our Saint may have lingered beneath the lichened arch of its mighty gates, crowds of thoughts will have come upon him, linking perhaps with his lonely visit to this scene, the memories of his teachers in far-off Lismore. Dreams will have crowded on his imagination of long ago, when certainly he never dreamt that with the classic poet, Virgil, he, too, might sing – . . .  . . . “Trojae ab oris . . . in Italiam venit.” (‘From the shores of Troy . . . in Italy he came.’)

If such were his reveries, they were broken by the plaintive supplication of a blind beggar who sought his alms! Then, as now, were verified, in the words of Christ, “the poor you have always with you.” In reply to questions, which he put to the old man, Cataldus found he had lived from his youth in Tarantum, and had during his life shared the sympathy and charity of the citizens. By no other could the story of Tarantum have been better told, and Cataldus was quick to perceive that in his first acquaintance – the blind beggar of the wayside – he found the best introduction to his mission, the conversion of the faithless city. For some days, the saint came to meet his loquacious acquaintance at his accustomed resting place.

The mendicant was poor not in wealth only, but in faith, too, for he was a pagan. Cataldus gradually unfolded to him the truths of the Gospel, while sympathising with him in his physical privations and sufferings. He explained to him how much more precious was the light of Faith than that eyesight which he had only temporarily lost. How little was the transient light of earth when contrasted with the endless, undimmed brightness of Eternity? Needless to observe, the poor beggar was converted, and when Cataldus led him for baptism to a spring close by the gates of Tarantum, as the darkness of his soul passed away, earthly sight was restored to his sightless eyeballs. Tarantum, we may be sure, quickly rang with the news of the blind man’s cure. The people ran in crowds to see the wonder-working stranger, and listened with docility to his teachings.

In the great squares of the city, and in the busy marts, Cataldus preached daily till he completely won the hearts and wrought the conversion of the whole city. Nor, were the blessings of his Apostolic zeal confined to Tarantum, for, far beyond its walls the seeds of faith which fell from the words of Cataldus were carried everywhere, to bear an abundant harvest. The old city, though partly fallen from the splendour of pre-Christian times, still held a position of great mercantile importance. The merchants of many nations, east and west, found it a convenient market for exchange. It was noted for the production of certain textures made from the wool of a peculiar kind of sheep, which were only to be found on the plains of Calabria. The dyes of Tarantum were still prized in the world of fashion, while the waters of the Adriatic supplied a species of fish from which a type of silk was manufactured, and which rendered the looms of the city famous over the world. The promiscuous gathering of all races, as we may say, afforded our Apostle a splendid field for his missionary zeal. His wonderful proficiency in the knowledge of dialects (which seems to have been one of the marvellous acquirements of our Irish scholars in the sixth century) made to Cataldus comparatively easy what to other preachers would have been a graver task.

As proof of the far-reaching effects of the Apostolate of Saint Cataldus, we need but consider the number of widely separated states and cities in which he is venerated. These we touch upon in the close of our necessarily too brief sketch of his eventful life.

The apostolate of Cataldus presents us with an extraordinary instance of missionary tact and labour. The Faith planted in Tarantum by the first Apostles can hardly have been said to have wholly died out. But perhaps a worse fate had befallen it, in its having degenerated and become incorporated in course of years with the superstition and errors of paganism into which the inhabitants had gradually relapsed. To unweave this tangled web was the difficulty. Every trace of the erroneous belief had to be rooted out – the gold to be sifted from the worthless dross.

To this end, Cataldus firstly sought the ear of the educated classes, knowing well that, if example were given by those in high places, half his conquest would be achieved. His method proved successful beyond all he could have hoped for. But, in addition to his ingenious zeal, we cannot help thinking that this Irish Saint was more specially favoured by Heaven than were many others of our Apostles. Miracles seem to shower on his footsteps, and even forestall his every undertaking. It will strike many a devout reader of the Saint’s life as he contemplates this phase of his life, that somehow the great secret, or mainspring of his Apostolic success, may likely have been his devotion to the great Mother of God.

With his own hands, he built two shrines to Her honour by the banks of the Blackwater in Ireland. They were both votive churches or memorials of thanksgiving. Again, on the shores of the blue waters of the Adriatic Sea, after his initial missionary successes, in token of gratitude, his first act was to erect a shrine in honour of His Blessed Mother.

In the annals of our Irish Saints, of the early date in which the life of Saint Cataldus was cast, we find no such constantly recurring and remarkable evidence of filial devotion to our Blessed Lady.

Our Saint cannot have been young when he came to Tarantum. The years which were marked by the first fervour of his preaching, and during which he was so successful, must have been few. Yet, within a brief compass of time, what great achievements may be accomplished, the life of our Saint strikingly exhibits. During the pontificate of Agapitus I, Cataldus was consecrated Bishop of Tarantum, and he ruled the diocese for fifteen years. Probably within that decade and a half, the events, which gave such lasting glory to his memory, took place. It was during this period, that he introduced into his cathedral the custom of having the psalms sung daily in the choir accompanied by music – a custom for many centuries observed, and became one of the most attractive cathedral services in Italy.

Again, his literary pursuits must have involved unwearied toil, since the works ascribed to his pen ran into volumes. His most famous works were “Homilies for the People,” “A Book of Prophecies,” and a “Treatise on Visions.”

The immediate province over which his episcopal jurisdiction extended shows, even in our own day, how deeply his teachings struck root in its soil. Wherever we find traces of his footsteps, there, too, we are sure to find a shrine of the sweet Madonna, whose praises he ever extolled, whom he ever thanked, and to whom he had unfailing recourse in all his cares.

The last years of Saint Cataldus, in the details of their holiness, furnish an epitome of the blessings, which God sheds so often over the closing days of his elect. But amid them all, as in all his wanderings, his love of Ireland never waned, never grew faint; and we may well believe that, stretched on the bed of death, his aged heart travelled back to Lismore of Erin, and that his dying lips invoked a parting blessing on the loved “Isle of Destiny” in the Western Ocean.

As the springtide sun slowly sank from the cloudless sky into the bluer depths of the Adriatic Sea, and while that prayer for Ireland trembled on the lips, Cathal of Lismore, gave his soul to God on the 8th day of March, AD 550.

Many of the accounts given by Italian writers describe the intense grief, which pervaded the city of Tarantum on the death of its second apostle. Some records remind us of an incident similar to one narrated in connection with the life of another client of the Mother of God, Saint Antony of Padua. As happened with the sainted Franciscan centuries afterwards, we are told, that the death-knell of Cataldus was tolled by the bells of Tarantum of their own accord – unswung by human hands.

With every mark of honour and devotion, the body of the Irish saint was placed within a marble casket and laid to rest beneath the choir of the cathedral, which he had built. Here, for six centuries votaries came to pay respect to his memory and his sanctity. In the eleventh century, when the enthusiasm of Christendom began to show itself in the erection of more splendid temples, Dragone, Archbishop of Tarantum, undertook the rebuilding of the cathedral of his see. Coming on the coffin of Cataldus, the workmen were first apprised of its location by the sweet odour, which the clay that covered it exhaled. In the presence of the clergy and the people, the sarcophagus was reverently opened. Beside the precious remains of the saint were found a golden cross – a tablet engraven – and a book plated with silver. On the cross were inscribed the words- “Famulus Christi Cataldus Epus Tarantius”, “The Household Servant of Christ, Cataldus, Bishop of Taranto”.

This relic is still preserved among the treasures of Tarantum.

In after centuries, on three successive occasions, the remains of the Saint were translated and re-enshrined with increased solemnity and becoming splendour. During the Pontificate of Pope Eugenius III, on May 10th, 1161, Bishop Giraldo had the relics encased in a silver shrine of costly workmanship, placing with the bones of the Saint a portion of the True Cross. Almost two centuries later – in 1346 – the then Archbishop of Tarantum had the silver reliquary of Cataldus melted down and modelled into a statue, within which he placed the skull and several of the Saint’s bones. On this occasion, we learn, the same prelate, with the approval of the Holy See, distributed portions of the relics to many places where the Saint was held in special veneration. Amongst them, we reckon chiefly Rome, Sicily, Venice, and some cathedrals of France.

The statue represented Cataldus clad in pontifical vestments, bearing in his left hand a crozier, while his right hand was outstretched as if imparting a benediction. On certain feasts the statue was washed, the water used being afterwards distributed among the faithful. It was treasured by votaries of the Saint as fruitful of wonderful cures.

On May 9th, the anniversary vigil of the third translation of the relics, this statue is borne through the streets of Tarantum in solemn procession, in which celebration the citizens and peasantry of the surrounding districts take part in immense crowds. In seasons of drought, when oftentimes the vineyards and crops of Calabria are threatened with ruin, we are told that the presence of this venerated statue, carried over the parched plains, is often followed by beneficent falls of rain, which avert the dreaded loss.

The magnificent chapel, at the Gospel side of the Altar in the Cathedral of Tarantum, was erected in the seventeenth century by the Prince-Bishop, Thomas Carraciolo. It was designed after the Pantheon in Rome, and subsequently enriched with the richest mosaics and marbles, carved with choicest architectural skill. The shrine of the statue of the Saint is one of the finest specimens of the Rococo style to be found in any monument in Italy. So late as 1892, the Archbishop of Tarantum had the figure of the Saint, to which so much veneration is attached, still further adorned, and at considerable expense. And so it is, as we gather from these details, devotion to the Irish Apostle of the Adriatic City not only lived, but has grown warmer in the hearts of his adopted children, as each successive age rolls on.

The miracles, which, like beams of heavenly light, gleam through the pages of his life, never ceased in the land he blessed and sanctified. And this, although well nigh fourteen and a half centuries have passed since, footsore and weary, he asked his way from the little dumb shepherdess, and restored sight to the blind man at the gate of Tarantum.

We have alluded to the places, far from the scenes of his labours, to which the faith, which Cataldus preached in the crowded marts of Tarantum was carried by his hearers. In the Italian cities of Naples, Corato, Lecce, Cattanello, Patignano, and numberless sister-towns, churches and shrines have been raised to his honour. At Rimini, where Saint Antony once preached from the sands to the fishes of the sea, the parochial church is dedicated to our Irish saint. In Viterbo, of apostolic fame, again Cataldus is highly venerated. Far from the confines of Italy, in the French city of Sens – whither the craft of the silk weaver was brought by the traders of Tarantum – the parish church claims our saint as its patron. Many towns over the southern Continent bear his name, and it is also perpetuated in a well-known spot in the island of Malta.

In connection with our story many of us will have shared, at least in spirit, a few months since, in the ceremonies which took place in the churches of the Irish Jesuits in celebrating the Canonisation of the latest Saint added to the catalogue of the sainted sons of Saint Ignatius – Blessed Bernardino Realino, beautified in 1895, canonised in June 1947.

He was, as we may remember, the Apostle of Lecce in Italy. In that time-honoured city the most venerable shrine of the many shrines of Cataldus stands in the midst of the Campo Santo, or cemetery outside the walls. It was erected in 1181 by the pious Count Tancred of Lecce. Here during the forty years of his Apostolate, Realino, no doubt, often prayed, and poured out his soul in supplication to that august Queen, that sweet Madonna, whose praises and whose glory Cataldus bore from the valley of our Irish Blackwater Valley to the shores of the Adriatic Sea.

Our pen is stealing on and it threatens to glide beyond the limits of our task. The story of Cataldus will, we trust, be a welcome guest amongst our Irish readers. They will, we hope, agree with us that it is one of the most fascinating memoirs of our Saints. May it also be fruitful of reflection and instruction. Perhaps it may suggest to some who are blessed with fortune or endowed with education and accomplishments to follow, even in a remote way, in the footsteps of our great Saint, and not allow their talents, which must be accounted for, to lie buried in the field. May it also inspire many of the young Levites of our Seminaries with an ardent vocation to spread the Faith in foreign lands. May the bright example of Cataldus of Lismore teach them to trample under foot all temptations to ungenerous and inordinate love of home and kindred, and urge them to cross land and sea, leaving behind them for ever, like Cataldus, the land they love above all things after God, to bring the Gospel and Cross of Christ to souls seated in the darkness of heresy and paganism. But we will pray too, that like Cataldus, on foreign shores, they may never, never, never forget dear old Ireland, God’s chosen island of Apostles, Saints and Scholars!

PRAYER

O Blessed Cataldus! Kindle more brightly than ever in the hearts of Holy Erin’s youths and maidens, the flame of vocation for foreign missions. Kindle it too, in the hearts of young people of those lands, which Irish feet have touched. Teach them to brave the pangs of separation from home and kindred, and to encounter every privation and death itself, if needs be, to spread the name and knowledge of Christ Crucified and of His Blessed Mother Mary. Amen.

– text taken from Saint Cataldus, Known as Cathal or San Cataldo, by A Pilgrim; published 1959 by the Catholic Truth Society of Ireland; originally published by the Irish Messenger Office



Chiesa di San Cataldo Palermo


Catald of Taranto B (RM)

(also known as Cataldus, Cathaluds, Cattaldo, Cathal)

Born in Munster, Ireland, 7th century. Saint Cataldus was a pupil, then the headmaster of the monastic school of Lismore in Waterford after the death of its founder, Saint Carthage. Upon his return from a pilgrimage to the Holy Land, he was shipwrecked at Taranto in southern Italy and chosen by the people as their bishop. He is the titular of Taranto's cathedral and the

 principal patron of the diocese. This epitaph if given under an image of Saint Catald in Rome:

Me tulit Hiberne, Solyme traxere, Tarentum Nunc tenet: huic ritus, dogmata, jura dedi.

Which has been loosely translated as:

Hibernia gave me birth: thence wafted over, I sought the sacred Solymean shore. To thee Tarentum, holy rites I gave, Precept divine; and thou to me a grave.

It is odd that an Irishman, should be so honored throughout Italy, Malta, and France, but have almost no recognition in his homeland. His Irish origins were discovered only two or three centuries after his death, when his relic were recovered during the renovation of the cathedral of Taranto. A small golden cross, of 7th- or 8th- century Irish workmanship, was with the relics. Further investigations identified him with Cathal, the teacher of Lismore.

Veneration to Catald spread, especially in southern Italy, after the May 10, 1017, translation of his relics when the cathedral was being rebuilt following its destruction at the hands of Saracens in 927. Four remarkable cures occurred as the relics were moved to the new cathedral. When his coffin was open at that time, a pastoral staff of Irish workmanship was found with the inscription Cathaldus Rachau. There is a town of San Cataldo in Sicily and another on the southeast coast of Italy (Benedictines, D'Arcy, Farmer, Husenbeth, Kenney, Montague, Neeson, Tommasini).

Saint Catald is depicted in art as an early Christian bishop with a miter and pallium in a 12th century mosaic at Palermo (Roeder). He is the subject of a painting on the 8th pillar of the nave on the left in the Basilica of the Nativity in Bethlehem (D'Arcy, Montague). There are also 12th-century mosaics in Palermo and Monreale depicting the saint (Farmer). Catald is invoked against plagues, drought, and storms (Farmer). 

SOURCE : http://www.saintpatrickdc.org/ss/0510.shtml


Cattedrale di San CataldoTarente
Photographie de Livioandronico2013

Taranto

DIOCESE OF TARANTO (TARENTINA)
Diocese in southern Italy, on a bay in the Gulf of Taranto. The ancient city was situated on an island, joined by two bridges with the mainland, where the new city is built. Two islets, S. Pietro and S. Paolo, protect the bay (Mar grande), the commercial port, while the old city forms another bay (Mar piccolo), a military port next in strategic importance to Spezzia; the coast and islets are therefore very strongly fortified. The city has a large export trade and extensive works connected with the construction of warships, while the fishing industry, especially in the Mar piccolo, is flourishing. The cathedraldates from the eleventh century, but has been partially reconstructed in modern times. The high altar has a silver statue of St. Cathaldus; the saint's chapel, rich in marble and statues, with a cupola decorated with a fresco of Paolo de Matteis, is due to the munificence of archbishops Lelio Brancaccio, Saria, and Pignatelli.
Tarentum, called Taras by the Greeks, was founded in 707 B.C. by some Spartans, who, the sons of free women and enslaved fathers, were born during the Messenian War. They succeeded in conquering the Menapii and Lucani. Like Sparta, Tarentum was an aristocratic republic, but became democratic when the ancient nobility dwindled. Its government was praised by Aristotle. The people were industrious and commercial, employing a mercenary army commanded by foreign leaders, like the King of Sparta Archidamus II, Cleonymus, and later Pyrrhus. Alexander, King of Epirus, tried in vain to capture the city; he then became an ally of the Romans, and his death in a new expedition against the Tarentines led to the first dispute between the two republics. War resulted from the violation of a maritime treaty by the Romans (281). Tarentum engaged the services of Pyrrhus, who, victorious at first, was finally conquered at Beneventum (275); in 272 the city was taken by the Romans and included in the federation. Even in those early days it was renowned for its beautiful climate. In 208 it sided with Hannibal, but was retaken in 205, losing its liberty and its art treasures, including the statueof Victory. In ancient times its poets Apollodorus and Clinias, its painter Zeuxis, and its mathematician Archytas were renowned. The Byzantines captured Taranto in 545 during the Gothic wars, but abandoned it in 552. In 668 it belonged to Romuald, Duke of Beneventum. In 882 the Saracens, having been invited by Duke Radelchis to assist him, captured it and held it for some time. It was retaken by the Byzantines, who were forced to cede it to Otto II in 982; in 1080 it fell into the hands of Robert Guiscard, who made it the capital of the Principality of Taranto, and gave it to Boemund, his son. When the House of Anjou was divided, Taranto fell to Durazzo (1394-1463). In 1504 Ferdinand, King of Naples, valiantly defended this extremity of his kingdom, but had to cede it to Gonsalvo di Cordova. In 1801 it was taken by the French, who fortified the port; in 1805 the Russian fleet, allied with the British, remained there for several months. Taranto is the birthplace of the musician Paisiello.
According to the local legend, the Gospel was preached in Taranto by the same St. Peter who had consecrated St. Amasianus bishop. The city venerates also the martyr St. Orontius. The first bishop whose date is known is Innocentius (496). In the time of St. Gregory the Great, three bishops filled the episcopal chair: Andreas (590), Joannes (601), Honorius (603). It is uncertain whether St. Cataldus belongs to the sixth or the seventh century. Joannes (978) is the first who had the title of archbishop. It is well known that Taranto even under the Byzantines never adopted the Greek Rite. Stephanus perished in the battle of Nelfi (1041) fought by the Greeks and the Normans; Draco (1071) erected the cathedral; Filippo (1138) was deposed for supporting the antipope Anacletus II, and died in the monastery of Chiaravalle; Archbishop Angelo was employed in several embassies by Innocent III; Jacopo da Atri was slain (1370); Marino del Giudice (1371) was one of the cardinals condemned by Urban VI (1385). Cardinal Ludovico Bonito (1406) was one of the few who remained faithful to Gregory XII; Cardinal Giovanni d'Aragona (1478), was son of King Ferdinand of Naples; Giovanni Battista Petrucci suffered for the complicity of his father in the conspiracy of the barons; Cardinal Battista Orsini died in 1503 in the Castle of Sant' Angelo; Cardinal Marcantonio Colonna (1560) introduced the Tridentine reforms and established the seminary; Girolamo Gambara (1569) was a distinguished nuncio; Lelio Brancaccio (1574) suffered considerable persecution on account of his efforts at reformation; Tommaso Caracciolo (1630), a Theatine, died in the odour of sanctity. The city of Taranto forms a single parish divided into four pittagerii, each of which contains a sub-pittagerio. It includes the Basilian Abbey of S. Maria di Talfano, where there are still some Albanians following the Greek Rite. The suffragan sees are Castellaneta and Oria. The archdiocese contains 26 parishes, 214 secular and 47 regular priests; 5 religious houses of men, and 12 of nuns; and 220,300 inhabitants.

Sources

CAPPELLETTI, Le chiese d'Italia, XXI; DE VICENTINI, Storia di Taranto (Taranto, 1865).
Benigni, Umberto. "Taranto." The Catholic Encyclopedia. Vol. 14. New York: Robert Appleton Company,1912. 11 May 2019 <http://www.newadvent.org/cathen/14450d.htm>.
Transcription. This article was transcribed for New Advent by Thomas M. Barrett. Dedicated to the Christian Community of Taranto.
Ecclesiastical approbation. Nihil Obstat. July 1, 1912. Remy Lafort, S.T.D., Censor. Imprimatur. +John Cardinal Farley, Archbishop of New York.



Esmerveillable vision de Catalde Evesque de Tarente. 
Histoires prodigieuses


San Cataldo di Rachau Vescovo


sec. VII

Nato in Irlanda all'inizio del secolo VII, dopo essere stato monaco e poi abate del monastero di Lismore, fondato dal vescovo Cartagine, Cataldo divenne vescovo di Rachau. Durante un peilegrinaggio in Terra Santa, morì a Taranto, nella cui cattedrale fu sepolto e dimenticato. Nel 1094, durante la ricostruzione del sacro edificio, che era stato distrutto dai Saraceni, fu ritrovato il suo corpo, come indicava chiaramente una crocetta d'oro su cui era inciso il suo nome e quello della sede episcopale. Questo reperto, che si conserva insieme col corpo ha permesso di stabilire che il santo visse nel secolo VII e erroneamente, quindi, i tarantini lo considerarono loro vescovo, anzi il protovescovo. nominato da s. Pietro apostolo. Il 10 maggio ricorre la festa di Cataldo, che è patrono della città bimare ed è venerato, oltre che in Irlanda, sua patria, nell'Italia Meridionale e insulare. A Modena gli è intitolata una chiesa parrocchiale e Supino, cittadina del Lazio meridionale, è uno dei centri del suo culto.(Avvenire)
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Presso Taranto, san Cataldo, vescovo e pellegrino, che si ritiene venuto dalla Scozia. 

Nato in Irlanda all'inizio del secolo VII, dopo essere stato monaco e poi abate del monastero di Lismore, fondato dal vescovo Cartagine, Cataldo divenne vescovo di Rachau. Durante un peilegrinaggio in Terra Santa, morì a Taranto, nella cui cattedrale fu sepolto e dimenticato.


Nel 1094, durante la ricostruzione del sacro edificio, che era stato distrutto dai Saraceni, fu ritrovato il suo corpo, come indicava chiaramente una crocetta d'oro su cui era inciso il suo nome e quello della sede episcopale. Questo reperto, che si conserva insieme col corpo ha permesso di stabilire che il santo visse nel secolo VII e erroneamente, quindi, i tarantini lo considerarono loro vescovo, anzi il protovescovo. nominato da s. Pietro apostolo. Il 10 maggio ricorre la festa di Cataldo, che è patrono della città bimare ed è venerato, oltre che in Irlanda, sua patria, nell'Italia Meridionale e insulare. A Modena gli è intitolata una chiesa parrocchiale e Supino, cittadina del Lazio meridionale, è uno dei centri del suo culto.



Autore: Giuseppe Carata


Saint ARCANGELO TADINI, prêtre et fondateur

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Saint Archange Tadini

Fondateur de la Congrégation des soeurs ouvrières de la sainte Maison de Nazareth ( 1912)

Au moment de la révolution industrielle qui créait des conditions misérables chez les ouvriers du nord de l'Italie, l'abbé Arcangelo Tadini fonda des caisses mutuelles de secours pour les maladies, l'invalidité et la vieillesse. Il construisit même une filature où il épuise le patrimoine familial. Il crée une congrégation de religieuses qui sont des ouvrières dans les usines. Une révolution pour cette époque. Les soeurs, partageant la vie des jeunes ouvrières sont mieux à même de les aider à vivre leur dignité et leur vie spirituelle. Par toutes ses fondations, l'abbé Tadini fait ainsi comprendre que le travail peut aussi devenir un lieu où l'on peut se réaliser en tant qu'homme et en tant que chrétien.
Canonisé par Benoît XVI le 26 avril 2009.

Arcangelo Tadini (1846-1912) biographie sur le site du Vatican.

À Botticino Sera, près de Brescia en Lombardie, l'an 1912, Archange Tadini, prêtre, qui eut à coeur de défendre les droits et la dignité des ouvriers et fonda la Congrégation des Soeurs ouvrières de la sainte maison de Nazareth, avec le souci premier de la justice sociale.
Martyrologe romain
ARCANGELO TADINI
1846-1912

Arcangelo Tadini naquit à Verolanuovo (Brescia, Italie), le 12 octobre 1846, dans une famille aisée. En 1864, il entra au séminaire de Brescia où se trouvait déjà l'un de ses frères. Il reçut l'ordination sacerdotale en 1870.

De 1871 à 1873, il fut vicaire coopérateur à Lodrino, petit village de montagne, puis aumônier du Sanctuaire de Santa Maria de la Nuez à Brescia. Son attention à l'égard des besoins des personnes caractérisa dès le début son ministère sacerdotal. En 1885, il fut envoyé à Botticino où il devint curé archiprêtre de l'église. En cette époque de la révolution industrielle, il se préoccupa des nouvelles formes de pauvreté, fondant l'Association ouvrière de secours mutuel, qui garantissait une aide en cas de maladie ou d'accident.

S'inspirant de l'Encyclique de Léon XIII «Rerum novarum», il projeta et construisit une usine de textile avec son patrimoine familial, et trois ans plus tard, il acheta une maison pour la transformer en résidence pour les ouvrières. Pour les éduquer, il fonda alors la Congrégation des religieuses Ouvrières de la Sainte Famille qui travaillaient dans l'industrie aux côtés des ouvrières pour partager leur vie et les éduquer à la vie chrétienne à travers leur exemple. Malgré sa santé fragile, il tirait sa force de son union intime avec le Seigneur et dans la prière. Il mourut le 20 mai 1912.

Bienheureux Archange TADINI
Nom: TADINI
Prénom: Archange (Arcangelo)
Pays: Italie

Naissance: 12.10.1846  à Verolanuovo (Brescia)
Mort: 20.05.1912
Etat: Prêtre

Note: Prêtre en 1870. Aumônier du Sanctuaire de Santa Maria de la Nuez, à Brescia en 1873. Curé à Botticino en 1885. Riche apostolat en milieu ouvrier. Fonde la Congrégation des Sœurs ouvrières de la Sainte Maison de Nazareth, pour les jeunes filles pauvres.

Béatification: 03.10.1999  à Rome  par Jean Paul II
Canonisation:
Fête: 20 mai

Réf. dans l’Osservatore Romano: 1999 n.40 p.1-3  -  n.41 p.2
Réf. dans la Documentation Catholique: 1999 n.19 p.965
Notice
Arcangelo Tadini naît en 1846 à Verolanuovo dans le diocèse de Brescia en Lombardie. Sa famille est aisée. Ordonné prêtre en 1870, il est vicaire à Lodrino, petit village de montagne. En 1873, il est aumônier du Sanctuaire de Santa Maria de la Nuez, à Brescia. En 1885, il est envoyé à Botticino, dont il devient le Curé Archiprêtre. L'extraordinaire efficacité de cet homme à la santé fragile est à chercher dans son union au Christ, sa prière et sa vie d'ascèse. A l'école de l'Eucharistie, il apprend à rompre le pain de la Parole de Dieu et à exercer la charité. La révolution industrielle engendre de nouvelles formes de pauvreté dont il relève le défi en cherchant de nouvelles modalités d'annonce et de témoignage évangélique. Parce qu'il est un homme appartenant entièrement à Dieu, il peut également être un prêtre entièrement donné aux hommes. Il crée une Mutuelle ouvrière qui garantit une aide en cas de maladie ou d'accident. S'inspirant de l'Encyclique de Léon XIII 'Rerum novarum' (1891), il projette et construit une filature avec son patrimoine familial pour donner du travail aux jeunes filles pauvres. Il achète aussi une maison dont il fait leur résidence et il fonde la Congrégation des Sœurs ouvrières de la Sainte Maison de Nazareth, qui, travaillant à leurs côtés, leur donne un exemple de sanctification dans le travail. Il meurt en 1912.
Saint Archange Tadini

Prêtre et Fondateur de la Congrégation des « Sœurs Ouvrières de la Sainte Maison de Nazareth»

Arcangelo Tadini, Prêtre du Diocèse de Brescia, est né à Verolanuova (Brescia, Italie) le 12 Octobre 1846 dans une famille aisée. Terminé ses études primaires dans son village natal, il fréquente le Gymnase à Lovere (Bergame).

En 1864, il entre au Grand Séminaire de Brescia où se trouvait déjà l'un de ses frères et fut ordonné Prêtre le 19 Juin 1870.


De 1871 à 1873, il est nommé vicaire à Lodrino (Brescia), un petit village de montagne et dès 1873, il est Recteur au sanctuaire de Sainte Marie de la Noce, une petite fraction de Brescia.

Il commence son service comme vicaire à Botticino Sera (Brescia) en 1885, et deux ans après, il est nommé Curé de cette Paroisse et y reste jusqu’en 1912, année de sa mort.


Au début de son mandat, de la chaire de sa prédication, il affirme avec force: « Je serai avec vous, je vivrai avec vous, je mourrai avec vous ».

Les années vécues à Botticino sont certainement les plus fécondes de la vie de l’Abbé Tadini.

Il aime les Paroissiens comme ses fils et il ne se réserve en rien.

Il donne naissance à la Chorale, à la bande musicale, à des diverses Confréries, au Tiers Ordre Franciscain, aux Filles de Sainte Angèle Merici; il restaure l’Église, offre à chaque catégorie de personnes la catéchèse la plus adaptée et soigne la liturgie.

Il porte une attention particulière à la Célébration des Sacrements. Il prépare les homélies tenant présent d’un côté, la Parole de Dieu et de l’Église, de l’autre, le cheminement spirituel de ses paroissiens.


Quand il parle de sa chaire, tous restent émerveillés par la chaleur et la force que ses paroles dégagent.


Son attention pastorale est orientée surtout vers les nouvelles pauvretés : pour les travailleurs, il donne naissance à l’Association Ouvrière du Secours Mutuel et construit une filature pour donner du travail aux jeunes du village qui, particulièrement, vivent dans l’incertitude et subissent des injustices.

S'inspirant de l'Encyclique de Léon XIII «Rerum novarum», il projeta et construisit une usine de textile avec son patrimoine familial, et trois ans plus tard, il acheta une maison pour la transformer en résidence pour les ouvrières.


En 1900, Tadini fonde la Congrégation des « Sœurs Ouvrières de la Sainte Maison de Nazareth » : femmes Consacrées, « ouvrières avec les ouvrières » qui éduquent les jeunes travailleuses, en travaillant coude à coude avec elles sans tenir de grands discours mais donnant l’exemple de gagner le pain par la sueur de leur front ; un scandale pour ce temps-là qui considérait les usines comme des lieux dangereux et de perdition.

Le Fondateur propose aux Sœurs l’exemple de Jésus, Marie et Joseph qui, dans la Maison de Nazareth, ont travaillé et vécu dans le silence et la vie cachée avec humilité et simplicité.

Il indique l’exemple de Jésus qui, non seulement, « s’est sacrifié sur la Croix » mais qui, pour trente ans à Nazareth, n’a pas eu honte d’employer les outils de charpentier et d’« avoir le front trempé par la sueur de la fatigue et les mains rendues calleuses par le travail ».

Pour cet esprit entreprenant, Tadini subit des calomnies et des incompréhensions, même de la part de l’Église.


En réalité, il devance les temps : il devine que la Sœur, ouvrière parmi les ouvriers, indique une compréhension très positive du monde du travail vu, non plus comme un lieu contraire à l’Église, mais un milieu qui a besoin d’un ferment évangélique, un monde plus à rencontrer qu’à contester.

Il est lui-même conscient que son Œuvre est née avant le temps, mais il est fermement convaincu que cette Fondation n’est pas son œuvre propre mais celle de Dieu : « Dieu, qui l’a voulue, la guide, la perfectionne, la conduit à son terme ».

Le 20 Mai 1912, quand la mort le prend, le rêve de sa vie n’est pas encore accompli mais, comme un grain enfoui dans la terre, au temps voulu, il portera beaucoup de fruits.

Les paroissiens de Botticino perçoivent la sainteté de leur curé et très tôt, ils apprennent à connaître et à découvrir, caché sous sa discrétion et son austérité, le cœur d’un père attentif et sensible à leur vie de misère et de travail dur.


A ses dons naturels, il unit une grande capacité d’entrer dans la vie et dans la quotidienneté des gens et, bien vite, on parle de lui comme d’un Prêtre saint, un homme exceptionnel… et, plus tard, on dira de lui « il est un de nous » !

Un de nous quand, très tôt, il parcourt les rues du village et son pas résonne comme un réveil pour qui se prépare à commencer une journée de travail.


Tous savent que ce Prêtre, passionné de Dieu et de l’homme, portera dans sa Prière la vie et les fatigues de ses gens.

Un de nous quand il recueille les larmes des mères préoccupées par la précarité du travail de leurs fils, quand il rêve, projette et construit la filature pour les filles du village pour qu’elles puissent redécouvrir leur dignité de femmes.

Un de nous quand il fonde la Famille des Sœurs Ouvrières, femmes Consacrées qui, dans les champs de travail, sont témoins d’un Amour grand dans la simple vie ordinaire.

Un de nous car il nous sourit encore, nous accompagne dans notre vie quotidienne et avec ses paroles, il nous invite à suivre ses traces:


« La sainteté qui conduit au Ciel est dans nos mains. Si nous voulons la posséder, nous devons faire une seule chose : aimer Dieu».

Arcangelo Tadini a été Béatifié le 3 Octobre 1999 par Saint Jean-Paul II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) et Canonisé, le 26 Avril 2009, par le Pape Benoît XVI qui l’offre comme exemple aux Prêtres, aux familles, il l’indique comme intercesseur et aux travailleurs, il le leur donne comme protecteur (>>> Homélie du Pape).


Saint Archange Tadini : de l’action sociale à la Prière pour les couples stériles


Benoît XVI l’a Canonisé en avril dernier (2009) à Rome


ROME, Dimanche 8 Novembre 2009 (ZENIT.org) - Benoît XVI s'est recueilli ce matin auprès de la tombe de Saint Archange Tadini.

Qui est-il ? Un Prêtre diocésain (1846-1912), grande figure de sainteté Sacerdotale, marquée par son interprétation de l'encyclique sociale de Léon XIII, « Rerum Novarum », ce qui fait de lui un pionnier de l'action sociale de l'Église en Italie. Il s'est montré aussi un intercesseur efficace pour les couples stériles.

A l'époque de la première révolution industrielle, l'abbé Tadini a fondé un secours mutuel garantissant aux ouvriers un subside en cas de maladie, d'accident du travail, d'invalidité, de vieillesse.

Il s'était rendu compte que les jeunes ouvrières étaient exploitées, et, selon son expression, « pressées comme des citrons », si bien qu'elles arrivaient difficilement à former une famille et à élever leurs enfants.

Inspiré par « Rerum Novarum », il projeta et construisit une filature, et y investit tout son patrimoine familial.

Trois ans plus tard, il fit un emprunt et acheta une villa proche de la filature pour en faire un pensionnat pour les ouvrières.

Et pour assurer leur éducation, il fonda la Congrégation des Sœurs Ouvrières de la Sainte Maison de Nazareth.

Une entreprise « révolutionnaire » : elles vont travailler dans les usines avec les ouvrières, s'occupent des jeunes filles en partageant leurs fatigues et leurs tensions, les éduquent par l'exemple.

Par son amour de père et par ses œuvres, l'abbé Tadini a fait comprendre aux travailleurs que le travail n'est pas une malédiction, mais le lieu où ils sont appelés à se réaliser comme hommes et comme Chrétiens.

Né à Verolanuova, le 12 Octobre 1846 et mort à Botticino, le 20 Mai 1912, il a été Canonisé par Benoît XVI le 26 Avril dernier, après la reconnaissance d'un nouveau miracle dû à son intercession le 7 Décembre 2008.

Il avait été Béatifié par Jean-Paul II le 3 Octobre 1999.

Le miracle reconnu est la naissance, en août 2005 de Maria et en 2006 de Giovanni (en l'honneur de Jean-Baptiste, saint patron de Paul VI), enfants d'Elisabetta Fostini et Roberto Marazzi, pourtant réputés stériles par les médecins. Ils avaient eu recours à son intercession, à l'invitation des Religieuses Ouvrières de la Sainte Famille, après avoir renoncé à tout procédé artificiel de fécondation.

« Nous parlons de lui comme si nous l'avions connu. Les enfants l'appellent 'grand père', il fait partie de la famille », a expliqué Elisabetta, au moment de la Canonisation.

Anita S. Bourdin


CHAPELLE PAPALE

POUR LA CANONISATION DES BIENHEUREUX:


Arcangelo Tadini (1846-1912) 
Bernardo Tolomei (1272-1348)

 Nuno de Santa Maria Alvares Pereira (1360-1431)
Gertrude Comensoli (1847-1903)
Caterina Volpicelli (1839-1894)  


HOMÉLIE DU PAPE BENOÎT XVI
Place Saint-Pierre 

Dimanche, 26 avril 2009


Chers frères et sœurs,

En ce troisième dimanche du temps pascal, la liturgie place encore une fois au centre de notre attention le mystère du Christ ressuscité. Victorieux sur le mal et sur la mort, l'Auteur de la vie, qui s'est immolé en tant que victime d'expiation pour nos péchés, "continue à s'offrir pour nous et intercède comme notre avocat; sacrifié sur la croix, il ne meurt plus et, avec les signes de la passion, il vit immortel" (cf. Préface pascale 3). Laissons-nous intérieurement inonder par la lumière pascale qui émane de ce grand mystère, et avec le Psaume responsorial prions:  "Que resplendisse sur nous, Seigneur, la lumière de ton visage".

La lumière du visage du Christ ressuscité resplendit aujourd'hui sur nous, en particulier à travers les traits évangéliques des cinq bienheureux qui sont inscrits dans l'album des saints au cours de cette célébration:  Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, Gertrude Comensoli et Caterina Volpicelli. Je m'unis volontiers à l'hommage que leur rendent les pèlerins, venus ici de divers pays, à qui j'adresse un salut cordial avec une grande affection. Les différents itinéraires humains et spirituels de ces nouveaux saints nous montrent le renouveau profond qu'accomplit dans le cœur de l'homme le mystère de la résurrection du Christ; un mystère fondamental qui oriente et guide toute l'histoire du salut. C'est donc à juste titre que l'Eglise nous invite toujours, et encore davantage en ce temps pascal, à tourner nos regards vers le Christ ressuscité, réellement présent dans le Sacrement de l'Eucharistie.

Dans la page évangélique, saint Luc rapporte l'une des apparitions de Jésus ressuscité (24, 35-48). Précisément au début du passage, l'évangéliste note que les deux disciples d'Emmaus, revenus en hâte à Jérusalem, racontèrent aux Onze comment ils l'avaient reconnu "quand il avait rompu le pain" (v. 35). Et pendant qu'ils racontaient l'expérience extraordinaire de leur rencontre avec le Seigneur, Celui-ci "lui-même était là au milieu d'eux" (v. 36). A cause de son apparition soudaine, les Apôtres furent frappés de stupeur et de crainte, au point que Jésus, pour les rassurer et vaincre toute réticence et doute, leur demande de le toucher - ce n'était pas un fantôme, mais un homme en chair et en os - et demanda ensuite quelque chose à manger. Encore une fois, comme cela avait eu lieu pour les deux pèlerins d'Emmaus, c'est à table, alors qu'il mange avec les siens, que le Christ ressuscité se manifeste aux disciples, les aidant à comprendre l'Ecriture et à relire les événements du salut à la lumière de la Pâque. "Il fallait que s'accomplisse - dit-il - tout ce qui a été écrit de moi dans la loi de Moïse, les Prophètes et les Psaumes" (v. 44). Et il les invite à regarder vers l'avenir:  "la conversion proclamée en son nom pour le pardon des péchés à toutes les nations" (v. 47).

Chaque communauté revit cette même expérience dans la célébration eucharistique, en particulier la célébration dominicale. L'Eucharistie, le lieu privilégié où l'Eglise reconnaît "l'auteur de la vie" (cf. Ac 3, 15), est "la fraction du pain", comme elle est appelée dans les Actes des Apôtres. Dans celle-ci, grâce à la foi, nous entrons en communion avec le Christ, qui est "autel, victime et prêtre" (cf. Préface pascale 5) et qui est parmi nous. Nous nous rassemblons autour de Lui pour faire mémoire de ses paroles et des événements contenus dans l'Ecriture; nous revivons sa passion, sa mort et sa résurrection. En célébrant l'Eucharistie, nous communiquons avec le Christ, victime d'expiation, et nous puisons en Lui le pardon et la vie. Que serait notre vie de chrétiens sans l'Eucharistie? L'Eucharistie est l'héritage perpétuel et vivant que nous a laissé le Seigneur dans le Sacrement de son Corps et de son Sang, que nous devons constamment repenser et approfondir afin que, comme l'affirmait le vénéré Pape Paul vi, il puisse "imprimer son efficacité inépuisable sur tous les jours de notre vie mortelle" (Insegnamenti, v [1967], p. 779). Nourris par le pain eucharistique, les saints que nous vénérons aujourd'hui ont mené à bien leur mission d'amour évangélique dans les divers domaines où ils ont œuvré avec leurs charismes spécifiques.

Saint Arcangelo Tadinipassait de longues heures en prière devant l'Eucharistie, lui qui, ayant toujours à l'esprit dans son ministère pastoral la personne humaine dans sa totalité, aidait ses paroissiens à croître humainement et spirituellement. Ce saint prêtre, ce saint curé, un homme entièrement donné à Dieu, prêt en chaque circonstance à se laisser guider par l'Esprit Saint, était dans le même temps disponible à accueillir les urgences du moment et à y trouver un remède. C'est pourquoi il prit de nombreuses initiatives concrètes et courageuses, comme l'organisation de la "Société ouvrière catholique du secours mutuel", la construction de la filature et de la maison d'accueil pour les ouvrières, ainsi que la fondation, en 1900, de la "Congrégation des Sœurs ouvrières de la Sainte Maison de Nazareth", dans le but d'évangéliser le monde du travail à travers le partage des fatigues, sur l'exemple de la Sainte Famille de Nazareth. Combien fut prophétique l'intuition de Don Tadini et combien son exemple reste actuel aujourd'hui aussi, à une époque de grave crise économique! Il nous rappelle que ce n'est qu'en cultivant une relation constante et profonde avec le Seigneur, en particulier dans le Sacrement de l'Eucharistie, que nous pouvons ensuite être en mesure d'apporter le ferment de l'Evangile dans les différentes activités de travail et dans chaque milieu de notre société.

Chez saint Bernardo Tolomei, initiateur d'un mouvement monastique bénédictin, ressort également l'amour pour la prière et pour le travail manuel. Son existence fut une existence eucharistique, entièrement consacrée à la contemplation, qui se traduisait en un humble service du prochain. En raison de son esprit d'humilité et d'accueil fraternel particulier, il fut réélu abbé par les moines vingt-sept années de suite, jusqu'à sa mort. En outre, pour assurer l'avenir de son œuvre, il obtint de Clément vi, le 21 janvier 1344, l'approbation pontificale de la nouvelle Congrégation bénédictine, dite de "S. Maria di Monte Oliveto". A l'occasion de la grande peste de 1348, il quitta la solitude de Monte Oliveto pour se rendre dans le monastère Saint-Benoît à Porta Tufi, à Sienne, afin d'assister ses moines frappés par le mal, et il mourut lui-même victime de la maladie comme un authentique martyr de la charité. De l'exemple de ce saint, nous vient l'invitation à traduire notre foi en une vie consacrée à Dieu dans la prière et prodiguée au service du prochain sous l'impulsion d'une charité également prête au sacrifice suprême.

"Sachez que le Seigneur a mis à part son fidèle, le Seigneur entend quand je crie vers lui" (Ps 4,
4). Ces paroles du Psaume responsorial expriment le secret de la vie du bienheureux Nuno de Santa María, héros et saint du Portugal. Les soixante-dix années de sa vie se déroulèrent pendant la deuxième moitié du xiv siècle et la première du xv siècle, qui virent ce pays consolider son indépendance de la Castille, puis s'étendre au-delà de l'océan - non sans un dessein particulier de Dieu -, en ouvrant de nouvelles routes qui devaient favoriser l'avènement de l'Évangile du Christ jusqu'aux extrémités de la terre. Saint Nuno se sentait l'instrument de ce dessein supérieur et enrôlé dans la militia Christi c'est-à-dire dans le service de témoignage que chaque chrétien est appelé à rendre dans le monde. Ce qui le caractérisait était une intense vie de prière et la confiance absolue dans l'aide divine. Bien qu'il soit un excellent militaire et un grand chef, il ne permit jamais à ces dons naturels de prévaloir sur l'action suprême qui provient de Dieu. Saint Nuno s'efforçait de ne placer aucun obstacle à l'action de Dieu dans sa vie, en imitant la Sainte Vierge, pour laquelle il éprouvait une grande dévotion et à laquelle il attribuait publiquement ses victoires. Au terme de sa vie, il se retira dans le couvent de carmes dont il avait ordonné la construction. Je suis heureux de présenter à toute l'Eglise cette figure exemplaire, en particulier en raison d'une vie de foi et de prière dans des situations en apparence défavorables, apportant la preuve que dans toute situation, même à caractère militaire et de conflit, il est possible d'agir et de mettre en œuvre les valeurs et les principes de la vie chrétienne, en particulier si celle-ci est placée au service du bien commun et de la gloire de Dieu.

Dès son enfance, sainte Gertrude Comensoli ressentit une attraction particulière pour Jésus. L'adoration du Christ eucharistique devint le but principal de sa vie, nous pourrions presque dire la condition habituelle de son existence. Ce fut en effet devant l'Eucharistie que sainte Gertrude comprit sa vocation et sa mission dans l'Eglise:  celle de se consacrer sans réserves à l'action apostolique et missionnaire, en particulier en faveur de la jeunesse. C'est ainsi que naquit, en obéissance au Pape Léon XIII, son Institut qui visait à traduire la "charité contemplée" en Christ eucharistique, en "charité vécue" en se consacrant à son prochain dans le besoin. Dans une société égarée et souvent blessée, comme la nôtre, à une jeunesse, comme celle de notre époque, à la recherche de valeurs et d'un sens à donner à sa propre existence, sainte Gertrude indique comme solide point de référence le Dieu qui, dans l'Eucharistie, s'est fait notre compagnon de voyage. Elle nous rappelle que "l'adoration doit prévaloir sur toutes les œuvres de charité" car c'est de l'amour pour le Christ mort et ressuscité, réellement présent dans le Sacrement eucharistique, que naît cette charité évangélique qui nous pousse à considérer tous les hommes comme nos frères.

Sainte Caterina Volpicelli fut également un témoin de l'amour divin, qui s'efforça d'"être du Christ, pour conduire au Christ" ceux qu'elle rencontra dans la ville de Naples à la fin du xix siècle, à une époque de crise spirituelle et sociale. Pour elle aussi, le secret fut l'Eucharistie. Elle recommandait à ses premières collaboratrices de cultiver une intense vie spirituelle dans la prière et, surtout, le contact vital avec Jésus Eucharistie. Telle est également aujourd'hui la condition pour poursuivre l'œuvre et la mission qu'elle a commencées et laissées en héritage aux "Servantes du Sacré-Cœur". Pour être d'authentiques éducatrices de la foi, désireuses de transmettre aux nouvelles générations les valeurs de la culture chrétienne, il est indispensable, comme elle aimait à le répéter, de libérer Dieu des prisons dans lesquelles les hommes l'ont enfermé. Ce n'est en effet que dans le cœur du Christ que l'humanité peut trouver sa "demeure stable". Sainte Caterina montre à ses filles spirituelles et à nous tous, le chemin exigeant d'une conversion qui change le cœur à sa racine et qui se traduit en actions cohérentes avec l'Evangile. Il est ainsi possible de poser les bases pour construire une société ouverte à la justice et à la solidarité, en surmontant le déséquilibre économique et culturel qui continue à subsister dans une grande partie de notre monde.

Chers frères et sœurs, nous rendons grâce au Seigneur pour le don de la sainteté, qui aujourd'hui resplendit dans l'Eglise avec une beauté singulière chez Arcangelo Tadini, Bernardo Tolomei, Nuno de Santa Maria Alvares Pereira, Gertrude Comensoli et Caterina Volpicelli. Laissons-nous attirer par leurs exemples, laissons-nous guider par leurs enseignements, afin que notre existence aussi devienne un cantique de louange à Dieu, sur les traces de Jésus, adoré avec foi dans le mystère eucharistique et servi avec générosité chez notre prochain. Que l'intercession maternelle de Marie, Reine des saints, et de ces cinq nouveaux lumineux exemples de sainteté, que nous vénérons aujourd'hui avec joie, nous permette de réaliser cette mission évangélique. Amen!

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Saint Arcangelo Tadini : un homme face à la crise économique et sociale


ARTICLE | 13/05/2009 | Numéro 1635 | Par Marie-Christine Lafon

 « Combien fut prophétique l’intuition charismatique de Don Tadini et son exemple tellement actuel aujourd’hui encore, à une époque de grave crise économique ! », a salué Benoît XVI le 26 avril 2009, en canonisant ce prêtre italien de la fin du XIXe siècle.

Vers 1885, Arcangelo, la quarantaine, est curé de Botticino dans la province de Brescia, en Lombardie. Alors que la révolution industrielle engendre de nouvelles formes de pauvreté, le prêtre cherche d’autres moyens d’annoncer l’Évangile en milieu ouvrier. S’inspirant de l’encyclique sociale de Léon XIII Rerum novarum (1891), il prend des initiatives, concrètes et courageuses : il fonde l’Association ouvrière catholique de secours mutuel, qui garantit une aide en cas de maladie ou d’accident ; avec son patrimoine familial, il construit une usine de textile pour donner du travail aux jeunes filles pauvres de la paroisse. Puis, il achète une maison et la transforme en résidence pour les ouvrières. En 1900, il fonde la Congrégation des Sœurs ouvrières de la Sainte-Famille, dont le but est d’annoncer le Christ aux ouvrières en partageant leur effort dans le travail.

Né en 1846 dans une famille aisée de la région de Brescia, cet homme à la santé fragile a puisé sa force extraordinaire dans son union au Christ, dans la prière et dans l’ascèse. « Nous voulons aller au Ciel ? Courage : la prière est l’échelle qui y conduit », disait-il. Jusqu’à sa mort le 20 mai 1912, son action pour la dignité du travail et la vocation de la femme dans l’Église et la société, et pour résoudre les situations graves provoquées par la crise économique, sont menés à la lumière de Jésus, présent dans l’eucharistie. « Il nous rappelle, a expliqué Benoît XVI, que c’est seulement en cultivant un rapport constant et profond avec le Seigneur, particulièrement dans le sacrement de l’eucharistie, que nous pouvons être en mesure d’apporter le levain de l’Évangile dans les diverses activités de travail et dans chaque domaine de notre société. »

« Que l’exemple de ce nouveau saint nous donne de ne pas avoir peur d’aller vers nos frères et sœurs pour transmettre la parole de vie dans le monde entier », a encore spécialement demandé le pape, en français.

Marie-Christine Lafon
SOURCE : https://www.famillechretienne.fr/foi-chretienne/saints-et-temoins-de-la-foi/saint-arcangelo-tadini-un-homme-face-a-la-crise-economique-et-sociale-44538

Arcangelo Tadini (1846-1912)

Arcangelo Tadini was born on 12 October 1846 in Verolanuova (Brescia), Italy. At the age of 18 he entered the seminary in Brescia; however an accident was to leave him with a limp for the rest of his life. He was ordained in 1870 but illness obliged him to spend his first year as a priest with his family.

From 1871 to 1873 he was a curate at Lodrino, a mountain village, and then at the Shrine of Santa Maria della Noce near Brescia.

He was known for his attention to his people's needs. After flooding left many parishioners homeless, he organized a soup-kitchen in the parish house that served 300 meals a day. In 1885 he was transferred to Botticino Sera as curate and two years later was appointed parish priest and dean of the same parish, where he spent the remaining 25 years of his life.

A zealous pastor of souls, he provided catechesis for every age group, started a choir, organized various confraternities, rebuilt the church and cared for the liturgy. When he preached, people were amazed at the warmth and power that his words instilled.

With the spread of the industrial revolution, he founded the Workers' Mutual Aid Association to help labourers suffering from illness, accidents, disabilities or old age. He used his own inheritance to plan and build a spinning factory, providing it with the latest equipment and later building an adjacent residence for working women. To educate young working women, he founded the Congregation of Worker Sisters of the Holy House of Nazareth, who went into the factories to work alongside the other women, sharing their toil and tensions, while teaching them by their example. To the sisters and the young working women Fr Tadini held up the example of Jesus, who not only sacrificed himself on the Cross but spent the first 30 years of his life in Nazareth where he was not ashamed to use a carpenter' s tools or to have calloused hands and a brow bathed in sweat.

He taught his parishioners that work is not a curse but rather the way in which men and women are called to fulfil themselves as human beings and as Christians. His strength came from prayer: his parishioners would see him stand for hours in front of the Blessed Sacrament, despite his disability, absorbed in contemplation of God. Fr Arcangelo Tadini ended his earthly life on 20 May 1912.

Saint Arcangelo Tadini


Profile

As a young adult, Arcangelo had an accident that left him with a lifelong limp. He entered the seminary in BresciaItaly at age 18. Ordained in 1870, but illness forced him to spend his first year of priesthood with his family. Curate in the mountain village of Lodrino from 1871 to 1873Curate at the Shrine of Santa Maria della Nocenear Brescia. Noted for his attention to his parishioners, and his care for refugeesCurate at Botticino Sera in 1885parish priest there in 1887, a post he held the rest of his life. He revitalized his parish, involved the parishioners, and made the church the center of the community. He founded the Workers’ Mutual Aid Association, a form of social insurance for the sick, injured and aged. He used his own inheritance to build a modern spinning factory, employing local women, and using the profits to build a residence for them. He founded the Congregation of Worker Sisters of the Holy House of Nazareth who worked in factories with other womenteaching them when they could, and leading them by example. Father Arcangelo’s strength came from prayer, much of it spent in front of the Blessed Sacrament.

Born

HOLY MASS FOR THE CANONIZATION OF FIVE NEW SAINTS


HOMILY OF HIS HOLINESS BENEDICT XVI

St Peter's Square
Third Sunday of Easter, 26 April 2009


Dear Brothers and Sisters,

On this Third Sunday in the Easter Season, the liturgy once again focuses our attention on the mystery of the Risen Christ. Victorious over evil and over death, the Author of life who sacrificed himself as a victim of expiation for our sins, "is still our priest, our advocate who always pleads our cause. Christ is the victim who dies no more, the Lamb, once slain, who lives for ever" (Easter Preface III). Let us allow ourselves to be bathed in the radiance of Easter that shines from this great mystery and with the Responsorial Psalm let us pray: "O Lord, let the light of your countenance shine upon us".

The light of the face of the Risen Christ shines upon us today especially through the Gospel features of the five Blesseds who during this celebration are enrolled in the Roll of Saints: Arcangelo TadiniBernardo TolomeiNuno de Santa Maria Álvares PereiraGeltrude Comensoli and Caterina Volpicelli. I willingly join in the homage that the pilgrims are paying to them, gathered here from various nations and to whom I address a cordial greeting with great affection. The various human and spiritual experiences of these new Saints show us the profound renewal that the mystery of Christ's Resurrection brings about in the human heart; it is a fundamental mystery that orients and guides the entire history of salvation. The Church therefore, especially in this Easter Season, rightly invites us to direct our gaze to the Risen Christ, who is really present in the Sacrament of the Eucharist.

In the Gospel passage, St Luke mentions one of the appearances of the Risen Jesus (24: 35-48). At the very beginning of the passage the Evangelist notes that the two disciples of Emmaus, who hurried back to Jerusalem, had told the Eleven how they recognized him in "the breaking of the bread" (v. 35). And while they were recounting the extraordinary experience of their encounter with the Lord, he "himself stood among them" (v. 36). His sudden appearance frightened the Apostles. They were fearful to the point that Jesus, in order to reassure them and to overcome every hesitation and doubt, asked them to touch him he was not a ghost but a man of flesh and bone and then asked them for something to eat. Once again, as had happened for the two at Emmaus, it is at table while eating with his own that the Risen Christ reveals himself to the disciples, helping them to understand the Scriptures and to reinterpret the events of salvation in the light of Easter. "Everything written about me", he says, "in the law of Moses and the Prophets and the Psalms must be fulfilled" (v. 44). And he invites them to look to the future: "repentance and forgiveness of sins [shall] be preached in his name to all nations" (cf. v. 47).

This very experience of repentance and forgiveness is relived in every community in the Eucharistic celebration, especially on Sundays. The Eucharist, the privileged place in which the Church recognizes "the Author of life" (Acts 3: 15) is "the breaking of the bread", as it is called in the Acts of the Apostles. In it, through faith, we enter into communion with Christ, who is "the priest, the altar, and the lamb of sacrifice" (cf. Preface for Easter, 5) and is among us. Let us gather round him to cherish the memory of his words and of the events contained in Scripture; let us relive his Passion, death and Resurrection. In celebrating the Eucharist we communicate with Christ, the victim of expiation, and from him we draw forgiveness and life. What would our lives as Christians be without the Eucharist? The Eucharist is the perpetual, living inheritance which the Lord has bequeathed to us in the Sacrament of his Body and his Blood and which we must constantly rethink and deepen so that, as venerable Pope Paul vi said, it may "impress its inexhaustible effectiveness on all the days of our earthly life" (Insegnamenti, V [1967], p. 779). Nourished with the Eucharistic Bread, the Saints we are venerating today brought their mission of evangelical love to completion with their own special charisms in the various areas in which they worked.

St Arcangelo Tadini spent long hours in prayer before the Eucharist. Always focusing his pastoral ministry on the totality of the human person, he encouraged the human and spiritual growth of his parishioners. This holy priest, this holy parish priest, a man who belonged entirely to God ready in every circumstance to let himself be guided by the Holy Spirit, was at the same time prepared to face the urgent needs of the moment and find a remedy for them. For this reason he undertook on many practical and courageous initiatives such as the organization of the "Catholic Workers Mutual Aid Association", the construction of a spinning mill and a residence for the workers and, in 1900, the foundation of the "Congregation of Worker Sisters of the Holy House of Nazareth" to evangelize the working world by sharing in the common efforts after the example of the Holy Family of Nazareth. How prophetic the charismatic intuition of Fr Tadini was and how timely his example remains today in an epoch of serious financial crisis! He reminds us that only by cultivating a constant and profound relationship with the Lord, especially in the Sacrament of the Eucharist, can we bring the Gospel leaven to the various fields of work and to every area of our society.

Love for prayer and for manual labour also distinguished St Bernardo Tolomei, the initiator of a unique Benedictine monastic movement. His was a Eucharistic life, entirely dedicated to contemplation, expressed in humble service to neighbour. Because of his rare spirit of humility and brotherly acceptance, he was re-elected abbot for 27 years, until his death. Moreover, in order to guarantee the future of his foundation, on 21 January 1344 he obtained from Clement vi papal approval of the new Benedictine Congregation called "Our Lady of Monte Oliveto". During the epidemic of the Black Death in 1348, he left the solitude of Monte Oliveto for the monastery of S. Benedetto at Porta Tufi, Siena, to attend to his monks stricken with the plague, and died, himself a victim, as an authentic martyr of love. The example of this Saint invites us to express our faith in a life dedicated to God in prayer and spent at the service of our neighbour, impelled by a love that is also ready to make the supreme sacrifice.

"Know that the Lord has set apart the godly for himself; the Lord hears when I call to him" (Ps 4: 3). These words of the Responsorial Psalm express the secret of the life of Bl. Nuno de Santa María, a hero and saint of Portugal. The 70 years of his life belong to the second half of the 14th century and the first half of the 15th, which saw this nation consolidate its independence from Castille and expand beyond the ocean not without a special plan of God opening new routes that were to favour the transit of Christ's Gospel to the ends of the earth. St Nuno felt he was an instrument of this lofty design and enrolled in the militia Christi, that is, in the service of witness that every Christian is called to bear in the world. He was characterized by an intense life of prayer and absolute trust in divine help. Although he was an excellent soldier and a great leader, he never permitted these personal talents to prevail over the supreme action that comes from God. St Nuno allowed no obstacle to come in the way of God's action in his life, imitating Our Lady, to whom he was deeply devoted and to whom he publicly attributed his victories. At the end of his life, he retired to the Carmelite convent whose building he had commissioned. I am glad to point this exemplary figure out to the whole Church particularly because he exercised his life of faith and prayer in contexts apparently unfavourable to it, as proof that in any situation, even military or in war time, it is possible to act and to put into practice the values and principles of Christian life, especially if they are placed at the service of the common good and the glory of God.

Since childhood, Geltrude Comensoli felt a special attraction for Jesus present in the Eucharist. Adoration of Christ in the Eucharist became the principal aim of her life, we could almost say the habitual condition of her existence. Indeed, it was in the presence of the Eucharist that St Geltrude realized what her vocation and mission in the Church was to be: to dedicate herself without reserve to apostolic and missionary action, especially for youth. Thus, in obedience to Pope Leo XIII, her Institute came into being which endeavoured to translate the "charity contemplated" in the Eucharistic Christ, into "charity lived", in dedication to one's needy neighbour. In a bewildered and all too often wounded society like ours, to a youth, like that of our day in search of values and a meaning for their lives, as a sound reference point St Geltrude points to God who, in the Eucharist, has made himself our travelling companion. She reminds us that "adoration must prevail over all the other charitable works", for it is from love for Christ who died and rose and who is really present in the Eucharistic Sacrament, that Gospel charity flows which impels us to see all human beings as our brothers and sisters.

St Caterina Volpicelli was also a witness of divine love. She strove "to belong to Christ in order to bring to Christ" those whom she met in Naples at the end of the 19th century, in a period of spiritual and social crisis. For her too the secret was the Eucharist. She recommended that her first collaborators cultivate an intense spiritual life in prayer and, especially, in vital contact with Jesus in the Eucharist. Today this is still the condition for continuing the work and mission which she began and which she bequeathed as a legacy to the "Servants of the Sacred Heart". In order to be authentic teachers of faith, desirous of passing on to the new generations the values of Christian culture, it is indispensable, as she liked to repeat, to release God from the prisons in which human beings have confined him. In fact, only in the Heart of Christ can humanity find its "permanent dwelling place". St Caterina shows to her spiritual daughters and to all of us the demanding journey of a conversion that radically changes the heart, and is expressed in actions consistent with the Gospel. It is thus possible to lay the foundations for building a society open to justice and solidarity, overcoming that economic and cultural imbalance which continues to exist in a large part of our planet.

Dear brothers and sisters, let us thank the Lord for the gift of holiness that shines out in the Church with rare beauty today in Arcangelo TadiniBernardo TolomeiNuno de Santa Maria Álvares PereiraGeltrude Comensoli and Caterina Volpicelli. Let us be attracted by their examples, let us be guided by their teachings, so that our existence too may become a hymn of praise to God, in the footsteps of Jesus, worshipped with faith in the mystery of the Eucharist and served generously in our neighbour. May the maternal intercession of Mary, Queen of Saints and of these five new luminous examples of holiness whom we venerate joyfully today, obtain for us that we may carry out this evangelical mission. Amen!

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Sant' Arcangelo Tadini Sacerdote e fondatore

Verolanuova, Brescia, 12 ottobre 1846 - Botticino Sera, Brescia, 20 maggio 1912

Nacque in una famiglia nobile il 12 ottobre 1846 a Verolanuova (Brescia). Venne ordinato sacerdote nel 1870. Viceparroco e maestro elementare in Val Trompia e successivamente cappellano nella periferia di Brescia fino al 1885, si dedicò completamente all'attività pastorale e all'insegnamento elementare, divenendo in questo campi un precursore per molti aspetti. Nel 1887 divenne parroco a Botticino Sera (Brescia), carica che tenne fino alla morte. Si distinse anche per il forte impegno sociale. Fondò nel 1893 la Società di Mutuo Soccorso e nel 1898 una filanda per evitare l'emigrazione delle ragazze del paese per trovare lavoro; inoltre un pensionato per lavoratrici. Per assicurare l'assistenza alle giovani, fondò nel 1900 una Congregazione religiosa: le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth con i tre voti canonici, vita in comune e abito religioso ma impegnate come vere e proprie operaie. Morì il 20 maggio 1912. È stato canonizzato da Papa Benedetto XVI il 26 aprile 2009. (Avvenire)

Patronato: Claudicanti

Martirologio Romano: Nel villaggio di Botticino Sera vicino a Brescia, beato Arcangelo Tadini, sacerdote, che si adoperò per i diritti e la dignità dei lavoratori e fondò la Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth, dedita in particolar modo alla giustizia sociale. 

Infanzia e famiglia


Arcangelo Tadini nacque il 12 ottobre 1846 a Verolanuova, in provincia e diocesi di Brescia. Era il penultimo dei quattro figli nati da Pietro e Antonia Gadola e, in totale, degli undici che il padre aveva avuto, contando anche quelli del precedente matrimonio con Giulia Gadola, sorella di Antonia, morta a ventotto anni.

Fu battezzato nella chiesa prepositurale di San Lorenzo martire a Verolanuova il 18 ottobre 1846, a quattro giorni dalla nascita. La sua famiglia era benestante, Arcangelo crebbe in un ambiente liberale che però non influì, in nessun modo, sulla sua formazione. 

Ereditò dalla madre una salute cagionevole, tanto che rischiò di morire a due anni. Frequentò le elementari a Verolanuova fino ai dieci anni circa. Verso il 1855-56 passò al ginnasio di Lovere dove studiavano i suoi fratelli Alessandro e Giulio. Entrambi passarono al Seminario diocesano di Brescia, ma solo il secondo divenne sacerdote.

Vocazione al sacerdozio diocesano


Fu nel periodo della prima Messa del fratello Giulio e tramite la frequentazione di casa sua, diventata un oratorio festivo, che Arcangelo maturò la vocazione al sacerdozio; a dire il vero, già alla fine delle elementari si sentiva orientato in quel senso. Nonostante fossero tempi in cui l’anticlericalismo era diffuso anche nei ceti agiati come il suo, il ragazzo non si lasciò impressionare, anzi, si sentì ancora più motivato a intraprendere quella via.

Entrò nel seminario di Brescia nel 1864, per studiare filosofia e teologia. Terminò dopo sei anni, nel 1870, quando venne ordinato sacerdote dal vescovo-principe di Trento, monsignor Benedetto Riccabona de Reichelfels, perché monsignor Girolamo Verzieri, vescovo di Brescia, era a Roma per i lavori del Concilio Vaticano I. Celebrò la prima Messa a Verolanuova il 26 giugno 1870.

I primi tempi del ministero


Cominciò il suo ministero pastorale come curato (viceparroco) e maestro elementare a Lodrino in Val Trompia, dal 29 giugno 1871 al 27 maggio 1873. Svolse un’intensa attività pastorale a dispetto di grandi difficoltà fisiche: quand'era ancora in Seminario, infatti, si era fratturato un ginocchio ed era rimasto zoppo perché non fu curato bene.

In seguito venne trasferito alla Noce, frazione periferica di Brescia, presso il santuario di Santa Maria della Noce, dipendente dalla parrocchia di San Nazzaro in Brescia. Don Arcangelo vi rifulse come uomo di Dio ricco di carità evangelica e ottimo direttore di anime. Inoltre si occupò di restaurare la chiesa, dotandola di un battistero, e di elevarla a curazia.

Curato, poi parroco-arciprete di Botticino Sera


Nel 1885 venne nominato curato della parrocchia di Santa Maria Assunta a Botticino Sera, sempre in provincia di Brescia, per affiancare il parroco in carica, don Cortesi, gravemente ammalato. Arrivò in paese il 29 novembre, ma un anno dopo, il 26 novembre 1886, il parroco morì e lui venne nominato economo spirituale. Il 20 luglio 1887, mentre era ad Abano per le cure termali, gli giunse la nomina a parroco-arciprete di Botticino Sera.

Si diede subito all’opera, per riparare alle mancanze compiute dai suoi predecessori, partendo dai giovani: aprì per loro l’oratorio e costituì la banda musicale. Per gli adulti rifondò la Confraternita del SS. Sacramento e istituì il Terz’ ordine Francescano. Infine, per tutelare i lavoratori, nel 1893 avviò la Società Operaia di Mutuo Soccorso. 

Attento alle famiglie, curava lo sviluppo delle giovani coppie, senza dimenticare gli ammalati, dai quali si recava con entusiasmo. Il motto del suo ministero era: «Tutta la mia scienza è la Croce e tutta la mia forza è la stola».

Carattere e stile di vita


In mezzo alle molte attività, la sua giornata  era scandita da numerosi momenti di adorazione: iniziava molto presto, alle 4 del mattino, apriva la chiesa e si portava nella casa madre delle suore operaie per dettare la meditazione alle suore, celebrare l'Eucaristia e poi risalire in parrocchia per le Confessioni dei parrocchiani. Sempre disponibile, di temperamento riflessivo e serio, s’impegnava a sorridere a tutti, specie ai bambini. 

Per ragioni di salute e sobrietà, il suo vitto era strettamente vegetariano. Seguiva in questo gli insegnamenti dell'abate tedesco Sebastian Kneipp, che prevedevano anche cure a base di bagni, in un’epoca in cui la medicina moderna stava compiendo i primi passi.

Preoccupazione per le giovani operaie


Le ragazze di Botticino, per aiutare economicamente la famiglia, cercavano lavoro nelle filande del bresciano, e perciò erano assenti spesso da casa. Don Arcangelo, che considerava la parrocchia come la famiglia di ogni cristiano, soffriva nel constatare la dispersione del suo popolo. 

Per le sue giovani aveva impiantato la Pia Unione delle Figlie di Maria, ma sentiva di poter fare di più. Per questo motivo, progettò lui stesso e fece costruire in paese una filanda, affinché le ragazze non abbandonassero la famiglia. Attuò così lo spirito dell’enciclica «Rerum Novarum» di papa Leone XIII, in sintonia con il movimento cattolico-sociale di fine Ottocento a Brescia.

La prima idea di fondazione


Volle però che le giovani fossero guidate materialmente e spiritualmente. Aiutato da un gesuita suo amico, padre Maffeo Franzini, diede nuovo slancio alla Compagnia di Sant’Angela (le Orsoline secolari), ma col tempo comprese che fossero necessarie religiose che assistessero le operaie, anzi, lavorassero gomito a gomito con loro.

Padre Franzini inviò a Botticino Sera da Milano la signorina Leopoldina Paris, ex religiosa canossiana, la quale rimase solo un anno, perchè non condivideva né il carisma della fondazione, né l'austerità di vita di don Arcangelo.  

Allora il parroco  chiese ad alcune operaie sue parrocchiane di condividere il progetto. Esse acconsentirono: iniziò con loro la nuova Fondazione, dando la responsabilità a Romana Maffeis.

Le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth


Nel 1900 si formò una prima comunità di religiose, ma le leggi ecclesiastiche dell'epoca imponevano ai vescovi di non autorizzare nessuna nuova fondazione, a meno che non avesse un fine specifico ben chiaro. Di conseguenza, don Arcangelo chiese a padre Franzini di scrivere una lettera al vescovo di Brescia, dove indicava la sua idea: come esistevano suore dedite all'educazione o alla cura dei malati, oppure di vita contemplativa, dovevano sorgere anche suore operaie.

Alla comunità diede il modello della Sacra Famiglia, perché desiderava che le sue figlie fossero eroiche, aperte alla Chiesa e attente al mondo del lavoro, donne che sapessero lavorare sorridendo. Il nome completo fu scelto: Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth. Romana Maffeis assunse il nome religioso di suor Nazarena.

Le difficoltà della fondazione


Don Arcangelo dovette affrontare molte difficoltà economiche e parecchie incomprensioni, anche da parte di sacerdoti che non ritenevano opportuno che delle religiose facessero anche le operaie, svolgendo così una missione poco confacente a delle persone consacrate, perdipiù in un ambiente ostile alla Chiesa, come erano le fabbriche.

Le Suore Operaie furono oggetto di una visita apostolica da parte del vescovo di Prato e rischiarono di scomparire, assorbite dalle Ancelle della Carità di Brescia, già ben avviate; tuttavia, quel progetto non ebbe seguito.

Il testamento di don Arcangelo


L' arto zoppiccante e non curato aveva portato don Arcangelo a dover usare un bastone, ma progressivamente lui divenne paralizzato, tanto da dover essere portato in chiesa  con la carrozzella. Fu in quel modo che accolse i suoi parrocchiani il 21 marzo 1912, nel 25° anniversario del suo ingresso come parroco.

La sua omelia ebbe però i toni di un testamento spirituale, più che di rendimento di grazie: «Io non vivrò ancora molto. E non ho nulla da lasciare a Botticino in ricordo. Ma vi è una cosa che vivrà dopo di me e che lascio a voi: mi sono sacrificato per dare il pane ai miei parrocchiani, fabbricando a stento e con grandi fatiche la filanda affinché le figliuole non uscissero di paese con loro pericolo. Ma questo non bastava perché l’opera fosse compiuta. Ed ecco anime generose che abbandonano la famiglia e ciò che hanno di più caro per seguire la voce di Dio che le chiama a mettersi tra le operaie, a lavorare con loro, procurando con il buon esempio di essere di stimolo a far amare il lavoro e a non maledirlo. Se tutto ciò continuerà nel timore di Dio e nella fedeltà all’opera, allora le difficoltà saranno, con l’aiuto di Dio, superate, altrimenti io pregherò il Signore che tutto si sciolga».

La morte


L'8 maggio 1912, mentre celebrava la Messa, fu colpito da un malore. L’indomani ricevette la Comunione come Viatico e l’Unzione degli infermi dal suo confessore. Morì una settimana dopo, il 20 maggio 1912 alle ore 5  nella sua canonica.

La salma fu vegliata giorno e notte dai suoi giovani parrocchiani e i funerali si svolsero il giorno seguente. La bara fu portata a spalla da quattro giovani per tutto il paese, passando anche per via san Michele, sede della Casa madre delle suore. Venne quindi sepolto nel cimitero di Botticino.

Un necrologio su «Il Cittadino di Brescia» diede notizia della sua morte, ricordando il suo impegno parrocchiale, la sua austerità e sacrificio, la sua malattia. Di lì a poco, la sua fama di santità si sparse dentro e fuori la diocesi.

Il processo di beatificazione


Il processo ordinario informativo iniziò nella diocesi di Brescia il 13 gennaio 1960 e si concluse il 19 giugno 1964, completato dal decreto sugli scritti il 5 marzo 1970. Anche a seguito delle nuove legislazioni circa le cause di beatificazione, il processo informativo venne convalidato solo il 27 ottobre 1989. La “Positio super virtutibus” venne invece consegnata nel 1992.

In seguito alla riunione dei consultori teologi, il 16 giugno 1998, e dei cardinali e vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi, il 17 novembre dello stesso anno, il Papa san Giovanni Paolo II riconobbe l’eroicità delle virtù di don Arcangelo il 21 dicembre 1998 e promulgò il decreto relativo.

Il miracolo e la beatificazione


Nel 1966, da aprile a maggio, si svolse l’inchiesta diocesana per l’esame di un presunto miracolo attribuito all’intercessione del Servo di Dio don Arcangelo Tadini. Si trattava del fatto accaduto a suor Carmela Berardi, delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth, colpita ancora giovane da tubercolosi polmonare, apicale, bilaterale, che le bloccò le corde vocali, rendendola afona per sette anni.

In occasione della riesumazione della salma del fondatore l'11 marzo 1943 alla presenza del tribunale diocesano, della comunità delle suore operaie, la superiora generale impose a suor Carmela di inginocchiarsi e pregare il Miserere. La sorella obbedì e all'istante  incominciò a parlare e pregare a voce alta con sorpresa di tutti gli astanti.Da quel momento sparirono anche i danni della tubercolosi.

Nel dicembre del 1998 la Consulta medica diede parere positivo, mentre il 23 marzo 1999 il Congresso dei Teologi si pronunciò favorevolmente circa l’intercessione del candidato agli altari. Il 18 maggio seguente i Cardinali e Vescovi della Congregazione delle Cause dei Santi giudicarono come vero miracolo l’asserito caso prodigioso.

Il 21 giugno 1999 san Giovanni Paolo II promulgò il decreto sul miracolo e celebrò il rito della beatificazione in piazza San Pietro a Roma il 3 ottobre 1999. La memoria liturgica del Beato Arcangelo Tadini venne quindi fissata, per la diocesi di Brescia e le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth, al 21 maggio, il giorno seguente a quello della sua nascita al Cielo.

Il secondo miracolo e la canonizzazione


Per la canonizzazione è stata presentata alla Congregazione per le Cause dei Santi la inspiegabile risoluzione spontanea e duratura da sterilità di coppia multifattoriale, perdurante da 4 anni di due giovani coniugi, Elisabetta Fostini e Roberto Marazzi, di Brescia.

I medici, alla fine, suggerirono loro di pensare alla fecondazione in vitro, ma i Marazzi rifiutarono. Entrarono in contatto, invece, con un gruppo di famiglie che si riuniva nella Casa madre delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth, il Gruppo famiglia Beato Tadini: ogni mese, dall’aprile 2004, si trovarono a pregare con le altre famiglie, per chiedere la grazia di una gravidanza. Alla nascita di Maria, il 5 agosto 2005, seguì quella di un altro bambino, Giovanni, il 3 dicembre 2006.

L’inchiesta diocesana è stata celebrata nella diocesi di Brescia dal 16 giugno al 16 luglio 2006. Nella seduta del 15 novembre 2007 la Consulta medica del Dicastero ha riconosciuto all’unanimità l’evento come inspiegabile scientificamente. Il caso è stato esaminato con esito positivo dai Consultori Teologici il 22 aprile 2008 e dai Cardinali e Vescovi il 28 ottobre successivo. 

Papa Benedetto XVI ha quindi autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sul miracolo il 6 dicembre 2008. Durante il Concistoro del 21 febbraio 2009 ha poi annunciato la data di canonizzazione del Beato Arcangelo Tadini, celebrata il 26 aprile 2009, di nuovo in piazza San Pietro a Roma.

Il culto 


Come già detto, la memoria liturgica di sant’Arcangelo Tadini cade il 21 maggio.

I suoi resti mortali furono poi portati dal cimitero di Botticino alla chiesetta della Casa madre delle suore, intitolata alla Sacra Famiglia. Il 24 maggio 1999 si è tenuta la ricognizione canonica, al termine della quale le reliquie del Beato  sono state rinchiuse in un’urna di bronzo su foglia d'oro.

Dopo la canonizzazione è stato deciso di restituire le sue reliquie alla parrocchia di Santa Maria Assunta di Botticino Sera, che lui aveva servito per venticinque anni. Il 29 ottobre 2009, quindi, si è proceduto a una nuova ricognizione, al termine della quale i resti sono stati chiusi in un nuovo contenitore. Da allora sono venerati presso l’altare già dedicato a san Carlo Borromeo.

Il 18 maggio 2009 alla chiesa parrocchiale è stato conferito il titolo di Santuario Diocesano dedicato a Sant’Arcangelo Tadini e, due giorni dopo, è diventato Basilica minore. Infine, le tre parrocchie di Botticino non potevano che adottarlo come loro patrono.

Le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth oggi


Il 30 novembre 1931 le Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth ebbero la prima approvazione diocesana per decreto del vescovo di Brescia, monsignor Giacinto Gaggia.  Quanto all’approvazione pontificia, fu preparata dal decreto di lode, datato 12 gennaio 1953, e completata con l’approvazione delle Costituzioni il 16 marzo 1962. Da allora sono una congregazione di diritto pontificio.

Le suore, attualmente circa 200, esercitano il loro apostolato nelle fabbriche, nelle mense, negli ambulatori e in varie opere in aiuto agli operai, pur non trascurando l’impegno pastorale nelle parrocchie. La casa madre è a Botticino Sera, mentre altre comunità si trovano in Brasile, Burundi, Ruanda, Mali e in Inghilterra.



Autore: Emilia Flocchini



Note: Per informazioni, richieste di immagini o biografie rivolgersi a:

Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth
Via Tadini 19
Botticino Sera (BS)
030 2691138
www.suoreoperaie.it


Arcangelo Tadini (1846-1912)  

  
ARCANGELO TADINI, sacerdote bresciano vissuto tra il 1846 e il 1912, è una figura limpida e affascinante. Uomo intraprendente, prete autentico, ha intrecciato sapientemente rischio e fede, amore per gli uomini e amore per Dio, austerità e tenerezza.

Nasce a Verolanuova (BS) il 12 ottobre 1846. Conclusi gli studi elementari nel paese natale, frequenta il ginnasio a Lovere (BG).

 Nel 1864 entra nel seminario di Brescia e nel 1870 è ordinato sacerdote. Dal 1871 al 1873 è nominato vicario-cooperatore a Lodrino (BS), piccolo paese di montagna, e dal 1873 cappellano al santuario di S. Maria della Noce, frazione di Brescia.

Nel 1885 inizia il suo servizio a Botticino Sera (BS) come  vicario-cooperatore; due anni dopo, è nominato Parroco e vi rimane fino al 1912, anno della sua morte. All’inizio del suo mandato, dal pulpito afferma con forza:  “Starò con voi, vivrò con voi, morirò con voi”.


Gli anni vissuti a Botticino sono certamente i più fecondi della vita di don Tadini. Egli ama i suoi parrocchiani come figli e non si risparmia in nulla. Dà inizio alla Schola Cantorum, alla banda musicale, a varie Confraternite, al Terz’ordine Francescano, alle Figlie di S. Angela; ristruttura la chiesa, offre ad ogni categoria di persone la catechesi più adatta, cura la liturgia. Ha una particolare attenzione per la celebrazione dei Sacramenti. Prepara le omelie tenendo presente da una parte la Parola di Dio e della Chiesa, dall’altra il cammino spirituale della sua gente. Quando parla dal pulpito, tutti rimangono stupiti per il calore e la forza che le sue parole sprigionano.


La sua attenzione pastorale è rivolta soprattutto alle povertà del difficile periodo della prima industrializzazione: egli avverte che la Chiesa è chiamata in causa da chi soffre nelle fabbriche, nelle filande, nelle campagne… Per i lavoratori dà inizio all’Associazione Operaia di Mutuo Soccorso e, per le giovani del paese che maggiormente vivono nell’incertezza e subiscono ingiustizie, costruisce una filanda per dare loro un lavoro.

Nel 1900 il Tadini fonda la Congregazione delle Suore Operaie della S. Casa di Nazareth: donne consacrate ma “operaie con le operaie” che educano le giovani lavoratrici non salendo in cattedra ma lavorando gomito a gomito con loro, non tenendo grandi discorsi ma dando l’esempio di guadagnarsi il pane con dignità e con il sudore della propria fronte. Uno scandalo per quel tempo in cui si pensava alle fabbriche come  luoghi pericolosi, immorali e fuorvianti.

Il Tadini affida alle sue Suore l’esempio di Gesù, Maria e Giuseppe che nella Casa di Nazareth, nel silenzio e nel nascondimento, hanno lavorato e vissuto con umiltà e semplicità. Indica l’esempio di Gesù  che non solo “ ha sacrificato se stesso sulla croce”  ma per trent’anni, a Nazareth, non si è vergognato di usare gli strumenti del carpentiere e di “avere le mani incallite e la fronte bagnata di sudore”. 

Per questa sua intraprendenza il Tadini ottiene calunnie e incomprensioni, anche da parte della Chiesa. In realtà egli precorre i tempi: egli intuisce che la Suora, operaia tra le operaie, può dare una comprensione più positiva del mondo del lavoro, visto non più come luogo avverso alla Chiesa, ma ambiente bisognoso di fermento evangelico, un mondo da incontrare più che da contrastare.

Egli stesso è consapevole che la sua Opera è anzitempo, ma è fermamente convinto che non è opera sua ma di Dio: “Dio l’ha voluta, la guida, la perfeziona, la porta al suo termine”. La morte lo coglie quando il sogno della sua vita è ancora incompiuto, ma come seme affidato alla terra, a suo tempo, porterà frutti abbondanti.

I parrocchiani di Botticino intuiscono la santità del loro parroco e imparano ben presto a conoscere e a scoprire, sotto la sua riservatezza e austerità, il cuore di un padre attento e sensibile alla loro vita di stenti e di duro lavoro. Alle sue doti naturali egli unisce una grande capacità di entrare nella vita e nella quotidianità della gente e ben presto si parla di lui come di un prete santo, un uomo eccezionale…   e,  nel tempo, si dirà di lui “E’ uno di noi” !

Uno di noi quando, molto presto, percorre le vie del paese e il suo passo risuona come sveglia per chi si prepara ad iniziare una giornata di lavoro. Tutti sanno che quel sacerdote, innamorato di Dio e dell’uomo, porterà nella preghiera la vita e le fatiche della sua gente.

Uno di noi quando raccoglie le lacrime delle mamme preoccupate per la precarietà del lavoro dei figli, quando sogna, progetta e costruisce la filanda per le ragazze del paese, perché possano riscoprire la loro dignità di donne.

Uno di noi quando inventa la famiglia delle Suore Operaie, donne consacrate che, nei luoghi di lavoro, siano testimoni di un Amore grande nella semplice quotidianità della vita.

Uno di noi perché ancora ci sorride, ci accompagna nella nostra quotidianità e con le sue parole ci invita a seguire le sue orme: “La santità che guida al cielo è nelle nostre mani. Se vogliamo possederla, una cosa sola dobbiamo fare: amare Dio”.


Con la canonizzazione il Papa Benedetto XVI lo offre come esempio ai sacerdoti, lo indica come intercessore alle famiglie, lo dona come protettore ai lavoratori.





Arcangelo Tadini (1846-1912)
Bernardo Tolomei (1272-1348)
 Nuno de Santa Maria Alvares Pereira (1360-1431)
Gertrude Comensoli (1847-1903)
Caterina Volpicelli (1839-1894)  

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Sagrato della Basilica Vaticana
Domenica, 26 aprile 2009


Cari fratelli e sorelle,

in questa terza domenica del tempo pasquale, al centro della nostra attenzione la liturgia pone ancora una volta il mistero di Cristo risorto. Vittorioso sul male e sulla morte, l’Autore della vita, che si è immolato quale vittima di espiazione per i nostri peccati, “continua ad offrirsi per noi ed intercede come nostro avvocato; sacrificato sulla croce più non muore e con i segni della passione vive immortale” (cfr Prefazio pasquale 3). Lasciamoci interiormente inondare dal fulgore pasquale che promana da questo grande mistero, e con il Salmo responsoriale preghiamo: “Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto”.

La luce del volto di Cristo risorto risplende oggi su di noi particolarmente attraverso i tratti evangelici dei cinque Beati che in questa celebrazione vengono iscritti nell’albo dei Santi: Arcangelo TadiniBernardo TolomeiNuno de Santa Maria Alvares PereiraGertrude Comensoli e Caterina Volpicelli. Mi unisco volentieri all’omaggio che a loro rendono i pellegrini, qui convenuti da varie nazioni, ai quali con grande affetto rivolgo un cordiale saluto. Le diverse vicende umane e spirituali di questi nuovi Santi stanno a mostrarci il rinnovamento profondo che nel cuore dell’uomo opera il mistero della risurrezione di Cristo; mistero fondamentale che orienta e guida tutta la storia della salvezza. Giustamente pertanto la Chiesa sempre, ed ancor più in questo tempo pasquale, ci invita a dirigere i nostri sguardi verso Cristo risorto, realmente presente nel Sacramento dell’Eucaristia.

Nella pagina evangelica, san Luca riferisce una delle apparizioni di Gesù risorto (24,35-48). Proprio all’inizio del brano, l’evangelista annota che i due discepoli di Emmaus, tornati in fretta a Gerusalemme, raccontarono agli Undici come lo avevano riconosciuto “nello spezzare il pane” (v. 35). E mentre essi stavano narrando la straordinaria esperienza del loro incontro con il Signore, Egli “in persona stette in mezzo a loro” (v. 36). A causa di questa sua improvvisa apparizione gli Apostoli restarono intimoriti e spaventati, al punto che Gesù, per rassicurarli e vincere ogni titubanza e dubbio, chiese loro di toccarlo – non era un fantasma, ma un uomo in carne ed ossa - e domandò poi qualcosa da mangiare. Ancora una volta, come era avvenuto per i due di Emmaus, è a tavola, mentre mangia con i suoi, che il Cristo risorto si manifesta ai discepoli, aiutandoli a comprendere le Scritture e a rileggere gli eventi della salvezza alla luce della Pasqua. “Bisogna che si compiano – egli dice – tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (v. 44). E li invita a guardare al futuro: “nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati” (v. 47).

Questa stessa esperienza, ogni comunità la rivive nella celebrazione eucaristica, specialmente in quella domenicale. L’Eucaristia, il luogo privilegiato in cui la Chiesa riconosce “l’autore della vita” (cfr At 3,15), è “la frazione del pane”, come viene chiamata negli Atti degli Apostoli. In essa, mediante la fede, entriamo in comunione con Cristo, che è “altare, vittima e sacerdote” (cfr Prefazio pasquale 5). Ci raduniamo intorno a Lui per far memoria delle sue parole e degli eventi contenuti nella Scrittura; riviviamo la sua passione, morte e risurrezione. Celebrando l’Eucaristia comunichiamo con Cristo, vittima di espiazione, e da Lui attingiamo perdono e vita. Cosa sarebbe la nostra vita di cristiani senza l’Eucaristia? L’Eucaristia è la perpetua e vivente eredità lasciataci dal Signore nel Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, che dobbiamo costantemente ripensare ed approfondire perché, come affermava il venerato Papa Paolo VI, possa “imprimere la sua inesauribile efficacia su tutti i giorni della nostra vita mortale” (Insegnamenti, V [1967], p. 779). Nutriti del Pane eucaristico, i santi che oggi veneriamo, hanno portato a compimento la loro missione di amore evangelico nei diversi campi, in cui hanno operato con i loro peculiari carismi.

Lunghe ore trascorreva in preghiera davanti all’Eucaristia sant’Arcangelo Tadini, che, avendo sempre di vista nel suo ministero pastorale la persona umana nella sua totalità, aiutava i suoi parrocchiani a crescere umanamente e spiritualmente. Questo santo sacerdote, uomo tutto di Dio, pronto in ogni circostanza a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo, era allo stesso tempo disponibile a cogliere le urgenze del momento e a trovarvi rimedio. Assunse per questo non poche iniziative concrete e coraggiose, come l’organizzazione della “Società Operaia Cattolica di Mutuo Soccorso”, la costruzione della filanda e del convitto per le operaie e la fondazione, nel 1900, della “Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth”, allo scopo di evangelizzare il mondo del lavoro attraverso la condivisione della fatica, sull’esempio della Santa Famiglia di Nazareth. Quanto profetica fu l’intuizione carismatica di Don Tadini e quanto attuale resta il suo esempio anche oggi, in un’epoca di grave crisi economica! Egli ci ricorda che solo coltivando un costante e profondo rapporto con il Signore, specialmente nel Sacramento dell’Eucaristia, possiamo poi essere in grado di recare il fermento del Vangelo nelle varie attività lavorative e in ogni ambito della nostra società.

Anche in san Bernardo Tolomei, iniziatore di un singolare movimento monastico benedettino, spicca l’amore per la preghiera e per il lavoro manuale. La sua fu un’esistenza eucaristica, tutta dedita alla contemplazione, che si traduceva in umile servizio del prossimo. Per il suo singolare spirito di umiltà e di accoglienza fraterna, fu dai monaci rieletto abate per ventisette anni consecutivi, fino alla morte. Inoltre, per assicurare l’avvenire della sua opera, egli ottenne da Clemente VI, il 21 gennaio 1344, l’approvazione pontificia della nuova Congregazione benedettina, detta di “S. Maria di Monte Oliveto”. In occasione della grande peste del 1348, lasciò la solitudine di Monte Oliveto per recarsi nel monastero di S. Benedetto a Porta Tufi, in Siena, ad assistere i suoi monaci colpiti dal male, e morì egli stesso vittima del morbo come autentico martire della carità. Dall’esempio di questo Santo viene a noi l’invito a tradurre la nostra fede in una vita dedicata a Dio nella preghiera e spesa al servizio del prossimo sotto la spinta di una carità pronta anche al sacrificio supremo.

«Sabei que o Senhor me fez maravilhas. Ele me ouve, quando eu o chamo» (Sal 4,4). Estas palavras do Salmo Responsorial exprimem o segredo da vida do bem-aventurado Nuno de Santa Maria, herói e santo de Portugal. Os setenta anos da sua vida situam-se na segunda metade do século XIV [catorze] e primeira do século XV [quinze], que viram aquela nação consolidar a sua independência de Castela e estender-se depois pelos Oceanos – não sem um desígnio particular de Deus –, abrindo novas rotas que haviam de propiciar a chegada do Evangelho de Cristo até aos confins da terra. São Nuno sente-se instrumento deste desígnio superior e alistado na militia Christi, ou seja, no serviço de testemunho que cada cristão é chamado a dar no mundo. Características dele são uma intensa vida de oração e absoluta confiança no auxílio divino. Embora fosse um óptimo militar e um grande chefe, nunca deixou os dotes pessoais sobreporem-se à acção suprema que vem de Deus. São Nuno esforçava-se por não pôr obstáculos à acção de Deus na sua vida, imitando Nossa Senhora, de Quem era devotíssimo e a Quem atribuía publicamente as suas vitórias. No ocaso da sua vida, retirou-se para o convento do Carmo por ele mandado construir. Sinto-me feliz por apontar à Igreja inteira esta figura exemplar nomeadamente pela presença duma vida de fé e oração em contextos aparentemente pouco favoráveis à mesma, sendo a prova de que em qualquer situação, mesmo de carácter militar e bélica, é possível actuar e realizar os valores e princípios da vida cristã, sobretudo se esta é colocada ao serviço do bem comum e da glória de Deus.

Una particolare attrazione per Gesù presente nell’Eucaristia avvertì sin da bambina santa Gertrude Comensoli. L’adorazione del Cristo eucaristico diventò lo scopo principale della sua vita, potremmo quasi dire la condizione abituale della sua esistenza. Fu infatti davanti all’Eucarestia che santa Gertrude comprese la sua vocazione e missione nella Chiesa: quella di dedicarsi senza riserve all’azione apostolica e missionaria, specialmente a favore della gioventù. Nacque così, in obbedienza a Papa Leone XIII, il suo Istituto che mirava a tradurre la “carità contemplata” nel Cristo eucaristico, in “carità vissuta” nel dedicarsi al prossimo bisognoso. In una società smarrita e spesso ferita, come è la nostra, ad una gioventù, come quella dei nostri tempi, in cerca di valori e di un senso da dare al proprio esistere, santa Gertrude indica come saldo punto di riferimento il Dio che nell’Eucaristia si è fatto nostro compagno di viaggio. Ci ricorda che “l’adorazione deve prevalere sopra tutte le opere di carità” perché è dall’amore per Cristo morto e risorto, realmente presente nel Sacramento eucaristico, che scaturisce quella carità evangelica che ci spinge a considerare fratelli tutti gli uomini.

Testimone dell’amore divino fu anche santa Caterina Volpicelli, che si sforzò di “ essere di Cristo, per portare a Cristo” quanti ebbe ad incontrare nella Napoli di fine Ottocento, in un tempo di crisi spirituale e sociale. Anche per lei il segreto fu l’Eucaristia. Alle sue prime collaboratrici raccomandava di coltivare una intensa vita spirituale nella preghiera e, soprattutto, il contatto vitale con Gesù eucaristico. E’ questa anche oggi la condizione per proseguire l’opera e la missione da lei iniziate e lasciate in eredità alle “Ancelle del Sacro Cuore”. Per essere autentiche educatrici della fede, desiderose di trasmettere alle nuove generazioni i valori della cultura cristiana, è indispensabile, come amava ripetere, liberare Dio dalle prigioni in cui lo hanno confinato gli uomini. Solo infatti nel Cuore di Cristo l’umanità può trovare la sua ‘stabile dimora”. Santa Caterina mostra alle sue figlie spirituali e a tutti noi, il cammino esigente di una conversione che cambi in radice il cuore, e si traduca in azioni coerenti con il Vangelo. E’ possibile così porre le basi per costruire una società aperta alla giustizia e alla solidarietà, superando quello squilibrio economico e culturale che continua a sussistere in gran parte del nostro pianeta.

Cari fratelli e sorelle, rendiamo grazie al Signore per il dono della santità, che quest’oggi rifulge nella Chiesa con singolare bellezza in Arcangelo TadiniBernardo TolomeiNuno de Santa Maria Alvares PereiraGertrude Comensoli e Caterina Volpicelli. Lasciamoci attrarre dai loro esempi, lasciamoci guidare dai loro insegnamenti, perché anche la nostra esistenza diventi un cantico di lode a Dio, sulle orme di Gesù, adorato con fede nel mistero eucaristico e servito con generosità nel nostro prossimo. Ci ottenga di realizzare questa missione evangelica la materna intercessione di Maria, Regina dei Santi, e di questi nuovi cinque luminosi esempi di santità, che oggi con gioia veneriamo. Amen!

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

Bienheureux MARTYRS de TIBHIRINE, moines trappistes

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Bienheureux moines de Tibhirine

Christian, Christophe, Luc, Michel, Bruno, Célestin et Paul, martyrs en Algérie ( 1996)

De 1994 à 1996, dix neuf religieux catholiques installés dans le pays et qui œuvraient auprès des populations locales, dans un dialogue de fraternité et de paix, ont été assassinés par les groupes terroristes.

Les martyrs d'Algérie béatifiés le 8 décembre 2018.

Les 7 frères trappistes: Dom Christian de Chergé, Frère Luc Dochier, Père Christophe Lebreton, Frère Michel Fleury, Père Bruno Lemarchand, Père Célestin Ringeard, Frère Paul Favre-Miville.

Dans la nuit du 26 mars 1996, 6 moines du monastère de Tibhirine qui en comptaient huit, ainsi que le prieur de l'annexe du monastère au Maroc, étaient enlevés dans des circonstances jamais éclaircies.

Les 7 moines ont été probablement assassinés dans la nuit du 21 mai 1996. Ils ont été décapités et seules leurs têtes ont été ensevelies le 4 juin dans le cimetière du monastère, après des funérailles solennelles dans la cathédrale d'Alger. Les circonstances précises des 56 jours de détention et de leur mort restent encore partiellement enveloppées de mystère.

Leur choix de rester en Algérie, malgré un climat croissant de terreur, avait mûri en commun, après une visite intimidatrice d'un groupe armé la nuit de Noël 1993. Cette décision libre exprimait leur volonté de rester ensemble, partageant avec les voisins les dangers de la violence qui frappait surtout les plus démunis. Ils se voulaient, en solidarité avec la petite communauté ecclésiale, donnés à Dieu et à l'Algérie et offerts, comme le Christ, pour le salut du peuple.

Ils savaient qu'ils allaient vers la mort et ils l'acceptaient sans réserve. L'offrande de leurs vies et le pardon des agresseurs sont témoignés de façon merveilleuse dans le testament du prieur, dans l'agenda du maître des novices et dans les lettres des autres frères à leurs familles.

Ces 7 frères, très divers entre eux, étaient unis par l'amour envers le peuple algérien, le respect de l'Islam et le désir de la pauvreté. Cette seconde vocation, branchée sur la grande vocation chrétienne et cistercienne, les a conduits à témoigner ensemble de la Pâque du Seigneur par l'offrande de leur vie. 

Leur mort a soulevé l'émotion de la communauté internationale. Le testament spirituel de frère Christian de Chergé, Quand un A-DIEU s'envisage..., résonne aujourd'hui comme l'un des grands textes du XXe siècle. Cette petite communauté de l'Atlas vivant en proximité avec ses voisins algériens est allée jusqu'au bout de l'amitié et de la fidélité à une vie monastique plantée en terre d'Islam. Ce qui a fait vivre cette communauté continue d'inspirer bien des hommes et des femmes aujourd'hui, de tous horizons, aspirant à vivre cette fraternité qu'ils ont signée de leurs vies.

les moines de Tibhirine, site qui leur est dédié

- Promulgazione di Decreti della Congregazione delle Cause dei Santi, 27.01.2018, en italienen anglais

- Annonce de la béatification de 19 de nos frères et sœurs, Communiqué des évêques d'Algérie.

Mgr Jean-Paul Vesco, évêque d'Oran, salue la reconnaissance du martyredes
moines de Tibhirine, de Mgr Claverie et de onze autres religieux français assassinés en Algérie entre 1994 et 1996.

SOURCE : https://nominis.cef.fr/contenus/saint/13262/Bienheureux-moines-de-Tibhirine.html


Oratoire Notre-Dame-de-Tibhirine à Bonifacio 
(Le 17 juillet 2006 Mgr Jean-Luc Brunin a inauguré en Corse l'oratoire Notre-Dame-de-Tibhirine, 
adossé à droite de l'église dans l'ermitage de la Trinité de Bonifacio). 
Photographie de Pierre Bona

Les martyrs d'Algérie seront béatifiés le 8 décembre

Mgr Pierre Claverie, et ses 18 compagnons dont les sept moines cisterciens de Tibhirine seront béatifiés le 8 décembre prochain en la Basilique de Santa Cruz à Oran. Une annonce des évêques d’Algérie ce vendredi 14 septembre, qui met en joie l'Église locale.

Marine Henriot - Cité du Vatican

Le 8 décembre 2018 est vraisemblablement une date qui restera dans les mémoires de l’Église en Algérie. C’est ce jour qui a été choisi pour célébrer en la basilique de Santa Cruz à Oran la béatification de 19 martyrs, 19 religieux et religieuses assassinés dans les années 1990, décennie noire pour l’Algérie. 
Dans leur communiqué les évêques d’Algérie parlent d’une «grande joie» et d’une «bonne nouvelle». Il faut dire que le chemin fut long. La cause de la béatification a été ouverte en 2006 à Alger, et en janvier dernier le Pape donnait son accord pour la promulgation des décrets de béatification. Béatification qui sera donc célébrée par le cardinal Becciu, préfet de la Congrégation pour la cause des saints, qui sera l’envoyé personnel du Pape François.

Décennie noire pour l'Algérie  


27/01/2018

Algérie: qui sont les dix autres religieux reconnus martyrs ?



21 ans après après leur assassinat, six religieuses et onze moines, dont les sept cisterciens de Tibhirine voient donc leur martyre reconnu. Les moines de Tibhirine avaient été enlevés en mars 1996 dans leur monastère de Notre Dame de l’Atlas. Seules leur têtes avaient été retrouvées quelques mois plus tard, aujourd’hui la cause de la mort des frères est encore floue.

Les six religieuses, moins connues du grand public, ont été tuées dans cette même décennie noire, en 1994 et 1995 à Alger.

Mgr Pierre Claverie, évêque d’Oran, a été lui assassiné le 1er août 1996 par l’explosion d’une bombe devant son évêché, il avait 58 ans. Un attentat intervenu peu après la visite en Algérie du ministre français des affaires étrangères, Hervé de Charette, qui s’était rendu sur la tombe des moines de Tibhirine.

«Que leur exemple nous aide dans notre vie d’aujourd’hui», déclarent les évêques d’Algérie, affirmant que cette béatification sera, pour l’Église et le monde, un appel pour «bâtir ensemble un monde de paix et de fraternité», une manière pour l’Eglise algérienne et le pays tout entier de tourner cette sombre page de l’histoire.

La liste complète des futurs bienheureux


Cette béatification concerne au total 19 personnes consacrées, certaines étant bien connues, comme le Frère Christian de Chergé ou Mgr Pierre Claverie, mais d'autres religieux et religieuses dont les noms sont moins familiers figurent aussi dans cette liste. Ces martyrs qui vivaient au service de la population algérienne seront honorés au nom des milliers de victimes, musulmanes dans leur très grande majorité, de la guerre civile des années 1990.

Voici donc la liste des futurs bienheureux, dans l'ordre chronologique de leur assassinat:

Le 8 mai 1994 à Alger : Frère Henri Vergès, né le 15 juillet 1930 à Matemale, religieux mariste et enseignant français, et Soeur Paul-Hélène Saint-Raymond, née le 24 janvier 1927 à Paris, religieuse française des Petites Soeurs de l'Assomption.

Le 23 octobre 1994 à Bab El Oued : Sœur Esther Paniagua Alonso, née le 7 juin 1949 à Izagre, religieuse espagnole des Soeurs Augustines Missionnaires et Sœur Caridad Alvarez Martin : née le 9 mai 1933 à Santa Cruz de la Salceda, religieuse espagnole des Soeurs Augustines Missionnaires,

Le 27 décembre 1994 à Tizi Ouzou : quatre Pères blancs, parmi lesquels trois prêtres de nationalité française, le Père Jean Chevillard, né le 27 août 1925 à Angers, le Père Alain Dieulangard, né le 21 mai 1919 à Saint-Brieuc, et le Père Christian Chessel, né le 27 octobre 1958 à Digne, et un Belge, le Père Charles Deckers, né le 26 décembre 1924 à Anvers.

Le 3 septembre 1995 à Belouizdad : Sœur Angèle-Marie Littlejohn, née le 22 novembre 1933 à Tunis, religieuse française des Soeurs missionnaires de Notre-Dame-des-Apôtres, et Sœur Bibiane Leclercq, née le 8 janvier 1930 à Gazeran, religieuse française des Soeurs missionnaires de Notre-Dame-des-Apôtres.

Le 10 novembre 1995 à Alger : Sœur Odette Prévost : née le 17 juillet 1932 à Oger, religieuse française des Petites Soeurs du Sacré-Coeur.

Le 21 mai 1996 vers Médéa, sept moines de Tibhirine (les deux autres frères de la communauté avaient échappé à l'enlèvement):

Frère Christian de Chergé : né le 18 janvier 1937 à Colmar, prêtre cistercien français, prieur de la communauté depuis 1984, moine depuis 1969, en Algérie depuis 1971,

Frère Luc Dochier : né le 31 janvier 1914 à Bourg-de-Péage, religieux cistercien français, moine depuis 1941, en Algérie depuis août 1946. Médecin, il est présent cinquante ans à Tibhirine, il a soigné tout le monde gratuitement, sans distinction,

Frère Christophe Lebreton : né le 11 octobre 1950 à Blois, prêtre cistercien français, moine depuis 1974, en Algérie depuis 1987,

Frère Michel Fleury : né le 21 mai 1944 à Sainte-Anne-sur-Brivet, religieux cistercien français, moine depuis 1981, en Algérie depuis 1985. Membre de l'Institut du Prado, il était le cuisinier de la communauté,

Frère Bruno Lemarchand: né le 1er mars 1930 à Saint-Maixent l'École, prêtre cistercien français, moine depuis 1981, en Algérie et au Maroc depuis 1989,

Frère Célestin Ringeard : né le 27 mars 1933 à Touvois, prêtre cistercien français, moine depuis 1983, en Algérie depuis 1987,

et Frère Paul Favre-Miville : né le 17 avril 1939 à Vinzier, religieux cistercien français, moine depuis 1984, en Algérie depuis 1989. Il était chargé du système d'irrigation du potager du monastère.
Le 1er août 1996 : Mgr Pierre Claverie : né le 8 mai 1938 à Alger, prêtre dominicain, évêque d’Oran depuis 1981.


Le Pape reconnait les martyres de Mgr Pierre Claverie et des moines de Tibhirine

Ce vendredi 26 janvier, le Pape François a autorisé la Congrégation pour les Causes des Saints à promulguer les décrets de béatification des 19 martyrs d’Algérie.

Delphine Allaire – Cité du Vatican

C’est au cours d’une audience avec le cardinal Angelo Amato, préfet de la Congrégation pour les Causes des Saints, le 26 janvier, que le Pape François a donné son accord pour la promulgation des décrets de béatification.


L’évêque d’Oran de 1981 à 1996, Mgr Pierre Claverie, six religieuses et onze moines, dont les sept cisterciens de Tibhirine, voient donc leur martyre reconnu par l’Église catholique, 21 ans après leur assassinat. Leur cause de béatification avait, elle, été ouverte en 2006 à Alger.


Mgr Pierre Claverie, évêque d’Oran depuis octobre 1981, avait été assassiné le 1er août 1996, à 58 ans, dans l’explosion d’une bombe déposée devant son évêché.


L’attentat était intervenu peu après la visite en Algérie du ministre français des affaires étrangères, Hervé de Charette, qui s’était rendu sur les tombes des sept moines français de Tibhirine.

Les sept moines cisterciens de Tibhirine, eux, avaient été enlevés en mars 1996 dans leur monastère de Notre-Dame de l’Atlas. Leur mort avait été annoncé plusieurs semaines plus tard, par un communiqué du Groupe islamique armé (GIA). Seules les têtes des moines avaient ensuite été retrouvées, le 30 mai 1996, au bord d’une route, non loin du monastère.

Depuis vingt ans, trois thèses sont régulièrement avancées pour expliquer la mort des frères: celle d’une bavure de l’armée algérienne, d’une manipulation des services secrets algériens, ou celle d’un acte atroce perpétré par les groupes islamistes armés qui semaient la terreur en Algérie dans les années 1990.

En septembre 2017, le Pape s’était déjà montré très sensible à la signification du sacrifice de l’ancien évêque d’Oran et de ses 18 compagnons. Mgr Paul Desfarges, archevêque d’Alger, accompagné de l’évêque d’Oran, Mgr Jean Paul Vesco et du père Thomas Georgeon, postulateur de la cause en béatification de ces martyrs, avaient été reçus par le Pape François.



Sujets

·       ALGÉRIE
·       DICASTÈRE
·       SAINTS ET BIENHEUREUX

27 janvier 2018, 10:41


SOURCE : https://www.vaticannews.va/fr/eglise/news/2018-09/martyrs-algerie-claverie-tibhirine.html


Monastère trappiste de Tibhirine en Algérie, près de Médéa


Algérie: à Oran, béatification des 19 martyrs catholiques le 8 décembre 2018

« Ma vie était DONNÉE à Dieu et à ce pays » (p.Christian de Chergé)
SEPTEMBRE 14, 2018 10:47 SAINTS, BIENHEUREUX

La béatification des 19 martyrs catholiques d’Algérie sera célébrée à Oran, à Notre-Dame de Santa Cruz, le 8 décembre prochain et la célébration sera présidée par le cardinal Giovanni Angelo Becciu, Préfet de la Congrégation des causes des saints, annoncent les évêques catholiques d’Algérie, ce 14 septembre 2018, avec en exergue cette phrase de l’un des moines trappistes de Notre-Dame de l’Atlas.
Le pape François a ouvert la voie à la béatification des sept moines et de douze autres religieux et religieuses tués en Algérie entre 1994 et 1996 dont, justement, l’ancien évêque d’Oran, Pierre Claverie, dominicain, en reconnaissant leur « martyre », le 26 janvier 2016. D’où le choix de son ancien diocèse pour la béatification.
Le nom espagnol de Santa Cruz – Sainte Croix – rappelle la présence historique d’une communauté espagnole importante à Oran. Et l’annonce est faite en ce jour de la Croix Glorieuse.
Le gouvernement algérien avait donné son feu vert en avril dernier.
Sur ces 19 martyrs, 16 sont Français, dont Mgr Claverie, deux sont des religieuses Espagnoles et un missionnaire est Belge:
-un frère mariste, Henri Vergès et sœur Paul-Hélène Saint-Raymond, des petites Sœurs de l’Assomption, assassinés le 8 mai 1994 à Alger;
-soeur Esther Paniagua Alonso, et soeur Caridad Álvarez Martín, religieuses espagnoles des Sœurs Augustines Missionnaires, tuées le 23 octobre 1994 à Babael Oued;
-quatre pères blancs – trois Français et un Belge -, assassinés à Tizi Ouzou, le 27 décembre 1994: Jean Chevillard, Charles Deckers, Alain Dieulangard et Christian Chessel;
-le 3 septembre 1995 sont assassinées deux sœurs missionnaires de Notre-Dame des Apôtres: Angèle-Marie Littlejohn et Bibiane Leclercq;
-le 10 novembre 1995, sœur Odette Prévost, des petites Sœurs du Sacré-Cœur, est tuée à Alger.
Les moines de Tibhirine sont Christian de Chergé, Luc Dochier, Christophe Lebreton, Michel Fleury, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Paul Favre-Miville.
Voici le communiqué des évêques.
« J’aimerais que ma communauté, mon Église, ma famille, se souviennent que ma vie était DONNÉE à Dieu et à ce pays. » Testament du Père Christian de Chergé.
Communiqué des évêques d’Algérie
La célébration de la béatification de Monseigneur Claverie et de ses 18 compagnons aura lieu le samedi 8 décembre 2018, Solennité mariale, au sanctuaire de Notre-Dame de Santa Cruz d’Oran.
C’est avec grande joie que nous vous communiquons cette bonne nouvelle pour notre Eglised’Algérie.
Nous exprimons notre reconnaissance au Père Thomas Georgeon ocso, postulateur de la cause. C’est lui, avec d’autres – dont le frère Giovani Bigotto (+), mariste -, qui a mené à bien tout le travail qui a permis d’en arriver là.
Il nous reste quelques semaines pour nous préparer à cette célébration, nous remémorer toute la vie et l’œuvre de nos 19 frères et sœurs en Algérie en faveur des petits, des malades, des hommes, des femmes et des jeunes algériens.
Le cardinal Angelo Becciu, Préfet de la Congrégation des causes des saints, a été désigné par le pape François pour être son Envoyé.
Monseigneur Pierre Claverie, Frère Henri Vergès, Soeur Paul-Hélène Saint-Raymond, Sœur Esther Paniagua Alonso, Sœur Caridad Álvarez Martín, Père Jean Chevillard, Père Alain Dieulangard, Père Charles Deckers, Père Christian Chessel, Sœur Angèle-Marie Littlejohn, Sœur Bibiane Leclercq, Sœur Odette Prévost, Frère Luc Dochier, Frère Christian de Chergé, Frère Christophe Lebreton, Frère Michel Fleury, Frère Bruno Lemarchand, Frère Célestin Ringeard, Frère Paul Favre-Miville nous sont donnés comme intercesseurs et modèles de vie chrétienne, d’amitié et de fraternité, de rencontre et de dialogue. Que leur exemple nous aide dans notre vie d’aujourd’hui.
Depuis l’Algérie, leur béatification sera pour l’Église et pour le monde, un élan et un appel pour bâtir ensemble un monde de paix et de fraternité.
+ Paul Desfarges, Archevêque d’Alger
+ Jean-Paul Vesco, Évêque d’Oran
+ John Mac William, Évêque de Laghouat-Ghardaia
1.     Jean-Marie Jehl, Administrateur Apostolique de Constantine et Hippone

Mercredi 12 septembre 2018


Promulgation of Decrees of the Congregation for the Causes of Saints, 27.01.2018

Yesterday, 26 January, the Holy Father Francis received in audience His Eminence Cardinal Angelo Amato, S.D.B., prefect of the Congregation for the Causes of Saints. During the audience, the Supreme Pontiff authorized the same Congregation to promulgate the Decrees regarding:

- the miracle, attributed to the intercession of Blessed Nazaria Ignacia March Mesa (in religion: Nazaria Ignacia of Saint Teresa of Jesus), founder of the Congregation of the Missionary Crusaders of the Church; born in Madrid, Spain on 10 January 1889 and died in Buenos Aires, Argentina on 6 July 1943;

- the miracle, attributed to the intercession of the Venerable Servant of God Alphonse-Marie Eppinger (née: Elisabeth), founder of the Congregation of the Sisters of the Holy Redeemer; born in Niederbronn, France on 9 September and 1814 died there on 31 July 1867;

- the miracle, attributed to the intercession of the Venerable Servant of God Clelia Merloni, founder of the Institute of the Apostles of the Sacred Heart of Jesus; born on 10 March 1861 in Forlì, Italy and died on 21 November 1930 in Rome;

- the miracle, attributed to the intercession of the Venerable Servant of God Maria Crocefissa dell’Amore Divino (née: Maria Gargani), founder of the Apostles of the Sacred Heart; born on 23 December 1892 I Morra Irpino, now Morra De Sanctis, Italy and died on 23 May 1973 in Naples, Italy;

- the martyrdom of the Servants of God Pierre-Lucien Claverie, of the Order of Preachers, Bishop of Oran, and 18 companions, men and women religious, killed in hatred of the Faith in Algeria from 1994 to 1996;

- the martyrdom of the Servant of God Veronica Antal, layperson, of the Franciscan Secular Order; born on 7 December 1935 in Nisiporeşti, Romania and killed in hatred of the Faith on 24 August 1958 in Hălăuceşti, Romania;

- the heroic virtues of the Servant of God Ambrosio Grittani, diocesan priest and founder of the Oblates of Saint Benedict Joseph Labre; born in Ceglie del Campo, Italy on 11 October 1907 and died on 30 April 1951 in Molfetta, Italy;

- the heroic virtues of the Servant of God Anne-Marie Madeleine Delbrêl, layperson; born in Mussidan, France on 24 October 1904 and died in Ivry-sur-Seine, France on 13 October 1964.



Cimetière du monastère de Tibhirine en Algérie où sont enterré les sept moines assassinés en 1996.


Beati 7 Martiri Trappisti di Tibhirine Beatificati nel 2018



+ Médéa, Algeria, 21 maggio 1996

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, il priore del monastero di Nostra Signora dell’Atlante a Tibhirine in Algeria, padre Christian de Chergé, venne rapito assieme a sei monaci. In precedenza, dopo un lungo discernimento seguito a una prima visita di alcuni uomini armati, i monaci avevano scelto di restare, per non abbandonare il popolo algerino e per restare fedeli al voto di stabilità previsto dal loro Ordine. Un comunicato del Gruppo Islamico Armato (GIA), datato 21 maggio 1996, annunciò la loro uccisione. I sette monaci sono stati inseriti nella causa che contava in tutto diciannove martiri uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996. La loro beatificazione è stata celebrata nella basilica di Nostra Signora di Santa Cruz a Orano, l’8 dicembre 2018, sotto il pontificato di papa Francesco. I resti mortali dei sette monaci (vennero ritrovate solo le teste) sono venerati nel cimitero del monastero di Nostra Signora dell’Atlante. La loro memoria liturgica è stata fissata all’8 maggio, data della nascita al Cielo di fratel Henri Vergès e di suor Paul-Hélène Saint-Raymond, i primi uccisi tra i diciannove martiri.

I Trappisti in Algeria

La presenza in Algeria dei monaci Cistercensi della Stretta Osservanza, detti anche Trappisti, rimonta al 1843, tredici anni dopo la conquista del Paese e l’annessione alla Francia metropolitana. 

Dodici monaci, provenienti dall’abbazia di Aiguebelle, si stabilirono a Staouéli, a nord-est di Algeri. Tuttavia, lo scarso rendimento del terreno, unitamente alla legge che sanciva la separazione tra Chiesa e Stato in Francia, li obbligò a tornare in Europa nel 1904. Fino al 1938 risedettero nell’abbazia di Maguzzano, vicino Brescia.

Nel 1934 iniziò la nuova vita della comunità intitolata a Nostra Signora dell’Atlante, o Notre Dame de l’Atlas (l’Atlante è la catena montuosa più imponente dell’Algeria), che, dopo varie vicissitudini, si stabilì a Tibhirine.

Il monastero affrontò la situazione che si venne a creare con le guerre d’indipendenza, che portarono alla creazione dell’Algeria come Stato a sé, ma rischiò in pari tempo di chiudere, a causa dell’età avanzata di gran parte dei monaci. Nel Capitolo Generale del 1964, infatti, era stato deciso che, se qualche altro monastero dell’Ordine non avesse voluto rilevare Nostra Signora dell’Atlante, avrebbe dovuto chiudere.

Grazie all’opposizione di monsignor Louis-Etienne Duval, vescovo di Algeri, la chiusura fu rinviata. L’arrivo di altri religiosi, soprattutto dai monasteri di Tamié e Aiguebelle, concretizzò la speranza del vescovo: il deserto sarebbe tornato a fiorire.


La comunità nei primi anni ‘90


Quando l’Algeria aveva cominciato a vivere i suoi “anni neri”, in cui le forze islamiste avevano preso il potere, la comunità di Tibhirine era così composta: padre Christian de Chergé, priore dal 1984; padre Christophe Lebreton, maestro dei novizi e cantore; fratel Luc Dochier, addetto alla cucina e al dispensario annesso al monastero; fratel Paul Favre-Miville, foresterario; padre Célestin Ringeard, organista e cantore; fratel Michel Fleury, lettore e aiutante in cucina; padre Amedée Noto; padre Jean-Pierre Schumacher.

Secondo la loro Regola, alternavano le ore di preghiera comunitaria a vari servizi. Qualcuno lavorava nell’orto, qualcun altro curava i malati, qualcun altro ancora accoglieva i visitatori che cercassero pace e ristoro, o anche solo una parola di conforto.


Le prime minacce


La vita dei monaci venne turbata quando le notizie di aggressioni e uccisioni cominciarono a moltiplicarsi. Il 14 dicembre 1993, a Tamesguida, vennero sgozzati dodici croati cristiani. I monaci li conoscevano perché venivano da loro a celebrare la Pasqua. L’accaduto seguiva di due settimane l’ultimatum lanciato dal Gruppo Islamico Armato (GIA), che aveva preso il potere: tutti gli stranieri dovevano lasciare l’Algeria, pena la morte.

La notte del 24 dicembre 1993, alcuni uomini armati si presentarono alla porta del monastero e domandarono di vedere il superiore. Fratel Paul, che aveva aperto, andò a cercare padre Christian, il quale parlò col capo del gruppetto, Sayah Attiyah.

Le condizioni da lui poste, ovvero che i monaci dessero loro dei soldi, che il loro medico, ovvero fratel Luc, venisse a curare i loro malati e che dessero anche delle medicine, non vennero accettate tutte dal priore, che comunque riferì che avrebbero potuto venire al dispensario del monastero. Fece poi notare all’uomo che stavano per celebrare la nascita del Principe della Pace, ovvero il Natale di Gesù. Gli armati si allontanarono, dopo aver chiesto una parola d’ordine e aver minacciato di tornare. 


La preparazione alla morte


I monaci erano salvi, ma non al sicuro. Si sentivano come presi tra due fuochi: da una parte quelli che chiamavano “fratelli della montagna”, ovvero gli islamisti, e i “fratelli della pianura”, ovvero i militari e le forze di sicurezza dell’esercito algerino.

Ciascuno di essi, a modo proprio, si preparò alla morte. Dopo un lungo discernimento, guidato da padre Christian, accettarono di restare, per non abbandonare gli algerini, di cui si sentivano profondamente fratelli. Questo per loro era strettamente collegato al voto di stabilità, tipico dell’Ordine trappista.

I monaci furono poi raggiunti da padre Bruno Lemarchand, superiore del monastero annesso di Fès, arrivato per l’elezione del nuovo priore, prevista per il 31 marzo 1996.


Il rapimento e il martirio


Nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1996, vennero rapiti sei monaci, compreso il priore ed esclusi padre Amedée, padre Jean-Pierre e un ospite del monastero. Dopo un mese, un comunicato del Gruppo Islamico Armato (GIA) riferì che i rapiti erano ancora vivi, ma conteneva la minaccia di sgozzarli se non fossero stati liberati alcuni terroristi detenuti.

Il 30 aprile venne consegnata all’ambasciata di Francia ad Algeri un’audiocassetta, sulla quale erano registrate le voci dei sette monaci. Non ci furono altre notizie fino al 23 maggio: un ulteriore comunicato, il numero 44, datato 21 maggio, riferì che ai monaci era stata tagliata la gola.

Il 30 maggio le loro spoglie vennero ritrovate sul ciglio della strada per Médéa. Si trattava, però, solo delle teste: i corpi rimasero introvabili. Le esequie dei sette monaci si svolsero il 2 giugno 1996 nella basilica di Nostra Signora d’Africa ad Algeri, insieme a quelle del cardinal Léon-Étienne Duval, arcivescovo emerito di Algeri, morto per cause naturali. I resti mortali dei monaci vennero sepolti nel cimitero monastico di Tibhirine.


Fama di santità e prime fasi della causa di beatificazione e canonizzazione


Il 29 maggio 1996 il quotidiano francese “La Croix” pubblicò il testamento spirituale di padre Christian, d’accordo con i suoi familiari. Col tempo, divenne uno dei testi più famosi e citati della spiritualità del Novecento cattolico. Vennero poi pubblicati gli scritti anche degli altri monaci, specie gli appunti personali di fratel Luc e il diario, con le poesie, di padre Christophe.

Già nel 2000 si prospettò l’avvio della loro causa di beatificazione e canonizzazione, ma erano passati quattro anni dalla loro morte, mentre le normative canoniche prevedevano che ne trascorressero almeno cinque. Fu però scelto che la causa venisse compresa in quella che contava in tutto diciannove religiosi, tutti uccisi in Algeria dal 1994 al 1996, l’ultimo dei quali fu il vescovo di Orano, monsignor Pierre-Lucien Claverie.

La causa, denominata quindi “Pierre Claverie e diciotto compagni”, si è quindi svolta presso la diocesi di Orano a partire dal 5 ottobre 2007. In precedenza, il 5 luglio 2006, era stato ottenuto il trasferimento dal Tribunale ecclesiastico di competenza per i Servi di Dio morti nel territorio della diocesi di Algeri. La Santa Sede aveva invece rilasciato il nulla osta il 31 marzo 2007.


Il film «Uomini di Dio» e le altre opere artistiche


La vicenda dei sette monaci di Tibhirine, intanto, era diventata il soggetto per un film. «Uomini di Dio» (in originale «Des hommes et des dieux», «Uomini e dèi»), diretto da Xavier Beauvois e realizzato da professionisti, uscì nel 2010 in molti Paesi del mondo, ottenendo un notevole successo di pubblico e di critica.

Oltre al film, hanno cominciato a essere realizzati monumenti, cappelle, targhe, altari, stele, vetrate, dipinti, sculture, libri d’arte, opere musicali, di teatro, poesie e mostre in molte parti del mondo, specie in Francia e nei luoghi di presenza dei Trappisti.


Il riconoscimento del martirio e la beatificazione


La conclusione dell’inchiesta diocesana si è svolta nell’ottobre 2012. Gli atti dell’inchiesta sono stati convalidati il 15 febbraio 2013. La “Positio super martyrio” è stata presentata nel luglio 2016.

I Consultori teologi della Congregazione delle Cause dei Santi hanno esaminato la “Positio” il 30 maggio 2017, mentre i cardinali e i vescovi membri della stessa Congregazione hanno emesso il loro parere positivo il 16 gennaio 2018.

Dieci giorni dopo, il 26 gennaio, ricevendo in udienza il cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto con cui monsignor Claverie e i suoi diciotto compagni potevano essere dichiarati martiri.

Il rito della beatificazione si è svolto l’8 dicembre 2018 a Orano, nella basilica di Nostra Signora di Santa Cruz (Santa Cruz è un quartiere di Orano, fondato da immigrati spagnoli). A presiederlo come inviato del Santo Padre, il cardinal Giovanni Angelo Becciu, successore del cardinal Amato come Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi.

La memoria liturgica dei diciannove Beati, compresi i sette monaci, è stata fissata all’8 maggio, data della nascita al Cielo di fratel Henri Vergès e di suor Paul-Hélène Saint-Raymond, i primi che furono uccisi.


Il monastero di Tibhirine oggi


Nel 2001 i Trappisti lasciarono il monastero di Tibhirine, affidato al vescovado di Algeri. Si trasferirono in Marocco, dove già avevano la piccola comunità di Fès e dove padre Christian e gli altri avevano preventivato di fuggire, per non tornare in Francia, se la situazione fosse peggiorata.

Dal 2001 al 2016 padre Jean-Marie Lassausse, della Mission de France, abitò nel monastero, collaborando con i vicini algerini nella coltivazione dei terreni agricoli e accogliendo pellegrini e visitatori. Dal 15 agosto 2016 si è insediata una piccola comunità del movimento Chemin Neuf, che continua la stessa missione. 


Le singole schede


Contrariamente all’uso di questo sito, nel corpo del testo delle singole schede anche i nomi religiosi (per quelli che hanno cambiato il nome di Battesimo) sono stati lasciati in francese, non italianizzati, perché i singoli Beati sono più noti in questo modo.

97740 - Christian de Chergé, sacerdote, 59 anni

97741 - Luc (Paul) Dochier, religioso, 82 anni

97742 - Christophe Lebreton, sacerdote, 45 anni

97743 - Bruno (Christian) Lemarchand, sacerdote, 66 anni

97744 - Michel Fleury, religioso, 52 anni

97745 - Célestin Ringeard, sacerdote, 62 anni

97746 - Paul Favre-Miville, religioso, 57 anni


Autore: Emilia Flocchini




Promulgazione di Decreti della Congregazione delle Cause dei Santi, 27.01.2018


Ieri, 26 gennaio, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in udienza Sua Eminenza Rev.ma il Card. Angelo Amato, S.D.B., Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Durante l’Udienza, il Sommo Pontefice ha autorizzato la medesima Congregazione a promulgare i Decreti riguardanti:

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Beata Nazaria Ignazia March Mesa (in religione: Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù), Fondatrice della Congregazione delle Suore Misioneras Cruzadas de la Iglesia; nata a Madrid (Spagna) il 10 gennaio 1889 e morta a Buenos Aires (Argentina) il 6 luglio 1943;

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio Alfonsa Maria Eppinger (al secolo: Elisabetta), Fondatrice della Congregazione delle Suore del Santissimo Salvatore; nata a Niederbronn (Francia) il 9 settembre 1814 e ivi morta il 31 luglio 1867;

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio Clelia Merloni, Fondatrice dell’Istituto delle Apostole del Sacro Cuore di Gesù; nata il 10 marzo 1861 a Forlì (Italia) e morta il 21 novembre 1930 a Roma;

- il miracolo, attribuito all’intercessione della Venerabile Serva di Dio Maria Crocefissa dell'Amore Divino (al secolo: Maria Gargani), Fondatrice delle Apostole del Sacro Cuore; nata il 23 dicembre 1892 a Morra Irpino, oggi Morra De Sanctis (Italia) e morta il 23 maggio 1973 a Napoli (Italia);

- il martirio dei Servi di Dio Pietro Claverie, dell’Ordine dei Frati Predicatori, Vescovo di Oran, e 18 Compagni, Religiosi e Religiose; uccisi, in odio alla Fede, in Algeria dal 1994 al 1996;

- il martirio della Serva di Dio Veronica Antal, Laica, dell’Ordine Francescano Secolare; nata il 7 dicembre 1935 a Nisiporeşti (Romania) e uccisa in odio alla Fede il 24 agosto 1958 a Hălăuceşti (Romania);

- le virtù eroiche del Servo di Dio Ambrosio Grittani, Sacerdote diocesano e Fondatore delle Oblate di San Benedetto Giuseppe Labre; nato a Ceglie del Campo (Italia) l’11 ottobre 1907 e morto il 30 aprile 1951 a Molfetta (Italia);

- le virtù eroiche della Serva di Dio Anna-Maria Maddalena Delbrêl, Laica; nata a Mussidan (Francia) il 24 ottobre 1904 e morta a Ivry-sur-Seine (Francia) il 13 ottobre 1964.

[00153-IT.01]
[B0076-XX.01]





Saint GIOVANNI BATTISTA de' ROSSI, prêtre et fondateur

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Saint Jean-Baptiste de Rossi

Prêtre ( 1764)

Prêtre originaire de Gênes, il exerça son ministère à Rome parmi les pauvres, les malades et les prisonniers auxquels il consacrait toutes ses ressources et le meilleur de son temps.

À Rome, en 1764, saint Jean-Baptiste de Rossi, prêtre. Humble et pauvre, il consacra sa vie à s'occuper des pauvres, des miséreux, des abandonnés de toute sorte, en les visitant, les accueillant, les imprégnant de la doctrine du salut.
Martyrologe romain


Saint Jean-Baptiste de Rossi

Confesseur

Giovanni Battista de Rossi naquit dans la petite ville de Voltaggio, au diocèse de Gênes, le 22 Février 1698.

Son père, Charles, était de condition modeste, mais d'une Foi profonde qui le fit veiller de près, tant qu'il vécut, à l'éducation religieuse de ses quatre enfants.

Deux nobles génois, Jean Scorza et Maria Cambiasi, sa femme, qui villégiaturaient à Voltaggio, furent charmés de ses qualités et le demandèrent à son père en qualité de page.


Trois ans après il les quittait, appelé à Rome par un cousin, Don Laurent de Rossi, chanoine de la Basilique de Sainte-Marie in Cosmedin.

Celui-ci, avec une générosité et une affection qui ne se démentirent jamais, le fit instruire au Collège romain.

Jean-Baptiste y suivit les cours avec un tel succès, que, tous les ans, il obtenait le titre de dictateur, réservé à l'élève le plus brillant de chaque classe.



En 1721, avec une dispense de près d'un an, il était ordonné Prêtre, et il commençait l'admirable vie d'apostolat des pécheurs et des pauvres qui l'ont fait comparer à Saint Philippe de Néri et à Saint Vincent de Paul.



Il évangélisa d'abord les pauvres bergers de la campagne romaine qui apportaient à la ville leurs denrées.

Il venait dès le lever de l'aurore, au coucher du soleil, les trouver sur les places où ils s'assemblaient, leur parlait avec affection, s'intéressait à leurs petites affaires, à leur commerce, gagnait leur confiance ; peu à peu il s'insinuait dans ces âmes frustes et grossières, peu soucieuses des choses éternelles; enfin il les touchait, les tournait vers Dieu, éveillait en elles le désir du Salut ; triomphant, il les guidait vers un confesseur, car lui-même ne se croyait pas assez instruit pour s'asseoir au tribunal de la Pénitence.



Bientôt ce travail ingrat et dur ne lui suffit pas. Les vagabonds, puis les prisonniers, les gens d'armes des tribunaux, - voire le bourreau lui-même, - attirèrent ses soins et profitèrent de son dévouement.

Son œuvre préférée fut pendant longtemps l'hospice de Santa-Galla, où un bon Prêtre, Don Vaselli, réunissait déjà des pauvres abandonnés qui avaient besoin d'instruction religieuse.



Jean-Baptiste s'était attaché à cette maison dès le temps où il fréquentait le Collège romain.

Prêtre, il s'y donna plus encore, jusqu'à ce qu'enfin il succéda à Don Vaselli dans la direction, moins imposée par une règle positive que bénévolement acceptée, des Prêtres qui se consacraient à ce Ministère.



Et puis il eut le désir de donner aux pauvres filles qui erraient sans domicile dans les rues de Rome un asile au moins pour la nuit.

Il fonda pour elles l'hospice Saint-Louis-de-Gonzague, dirigé par une Prieure et une sous-Prieure.

Ce n'est qu'en 1739 que, triomphant des hésitations de son humilité, le vénérable Tenderini, Évêque d'Orte, l'orienta vers la direction des âmes.



Il s'y révéla immédiatement maître, et maître merveilleux. Dorénavant sa grande et constante occupation fut d'entendre les Confessions ; il y acquit une réputation que l'on peut dire mondiale, puisque, comme un siècle plus tard pour le Saint curé d'Ars, on vit des pénitents lui venir de Portugal, d'Espagne ou même d'Allemagne, attirés par la réputation de sa sainteté et de sa Miséricorde.



Sa santé devenait de plus en plus précaire; les crises de sa maladie, plus fréquentes, secouaient son pauvre corps au point de le laisser pendant plusieurs jours dans une véritable agonie ; il ne se soutenait qu'avec peine sur ses jambes affaiblies, presque hors d'usage ; son estomac refusait à peu près toute nourriture ; il ne pouvait ni lire ni écrire.

Malgré tout il allait, et soit pour confesser, soit pour prêcher, soit pour consoler et encourager, il avait toujours des forces.



C'est qu'il les puisait dans un Amour de Jésus-Eucharistie qui s'épanouissait en un oubli absolu de lui-même.

Détaché de toute grandeur humaine et de toute richesse, il avait fallu un ordre exprès de son confesseur pour lui faire accepter la succession de son cousin, Don Laurent, à sa prébende de chanoine et à sa fortune.

Celle-là, il la garda, comme de force, jusqu'à ce que ses fonctions de confesseur lui eussent rendu impossible l'assistance au chœur.



Mais celle-ci, il ne tarda pas à la disperser tout entière aux mains des pauvres. Et quand il mourut, le 23 Mai 1764, non pas dans la belle maison dont il avait hérité, mais dans une humble chambre de l'hôpital de la Trinité des pèlerins, il ne possédait plus que trois ou quatre meubles, un pauvre bréviaire qu'il donna à des amis, et son lit, qu'il légua à une pauvresse, en réservant toutefois quelques planches pour son cercueil.

Pour un approfondissement biographique :


SOURCE : http://reflexionchretienne.e-monsite.com/pages/vie-des-saints/mai/saint-jean-baptiste-de-rossi-pretre-1698-1764-fete-le-23-mai.html


Chiesa di San Giovanni Battista de Rossi, dans le quartier Appio-Latino sur la via Cesare Baronio 


JEAN-BAPTISTE DE ROSSI

Prêtre italien, Saint
1698-1764

Giovanni-Battista de Rossi, en français Jean-Baptiste de Rossi, naquit le 22 février 1698, à Voltaggio, petite ville du diocèse de Gênes. Giovanni-Battista était le neuvième et dernier enfant d'une famille modeste. Son père, Charles de Rossi, qui avait une foi très profonde, veillait de près, tant qu'il vécut, à l'éducation religieuse de ses enfants.
Giovanni-Battista était un jeune adolescent quand deux nobles génois, Jean Scorza et Maria Cambiasi, sa femme, qui étaient de passage à Voltaggio, furent charmés par sa gentillesse. Et ils demandèrent à son père l'autorisation de l'emmener avec eux, à Gênes, comme page. Giovanni resta avec eux pendant trois ans. Au bout de trois ans, sur les conseils d'un de ses oncles, capucin à Rome et de son cousin Lorenzo de Rossi, chanoine de Sainte-Marie-in-Cosmedin, une belle église de Rome, Giovanni se rendit à Rome, et son oncle capucin l'inscrivit au Collège romain tenu par les pères Jésuites.
Au collège des Jésuites de Rome, Giovanni-Battista se montra immédiatement un brillant élève. De plus, il se faisait remarquer par sa piété active, son amabilité, sa gentillesse, et surtout une joie qui entraînait ses compagnons à prier et à visiter les pauvres malades. Très vite Giovanni-Battista comprit qu'il devait être prêtre. Mais souffrant de crises d'épilepsie, il ne put être ordonné, qu'après avoir obtenu une dispense, en 1721. Dès lors, commença son admirable vie d'apôtre des pécheurs, hommes et femmes, et des pauvres. Rapidement on le compara à saint Philippe Néri et à saint Vincent de Paul.
Giovanni-Battista voulait devenir très vite un grand saint; aussi multiplia-t-il les pénitences. Cependant ses excès de pénitence, en particulier sur l'alimentation, nuirent gravement à sa santé qui restera désormais fragile. Il ne pouvait plus poursuivre régulièrement ses études. Il comprendra plus tard que c'est l'amour qui transforme les cœurs et non les mortifications excessives. "Apprenez de mon exemple, conseillera-t-il à des séminaristes, à ne pas vous fier aveuglément à votre jugement propre mais à prendre conseil de votre confesseur avant d'embrasser un exercice."
Mais quelle fut ensuite la vie spirituelle de Giovanni? Son plus grand désir était de marcher sur le chemin de la sainteté et d'y entraîner les autres. Mais pour cela, il devait vivre une vie intense d'union à Dieu. En conséquence, chaque matin il passait une heure en méditation surtout de l'Évangile. Puis il recommandait à Dieu son travail et les besoins des âmes. Le soir, il prenait encore une demi-heure pour l'oraison mentale, principalement sur la vie des saints. Zélé pour la prière du bréviaire, il encourageait ses confrères à ne pas le remettre aux temps libres mais à réciter, autant que possible, les différents Offices aux heures qui leur correspondent. Quand il sera chanoine, il montrera une grande fidélité à la récitation chorale de l'Office divin.
En 1737, son cousin, don Lorenzo décéda, et Jean-Baptiste, sur l'ordre de son confesseur, devint chanoine à sa place. Héritier de don Lorenzo, il vendit la somptueuse maison de son cousin et en distribua le prix aux pauvres. Quant à lui, il s'installa à proximité de l'église dans une espèce de grenier appartenant à la communauté. Dans l'église se trouvait une image miraculeuse de la Sainte Vierge pour laquelle Jean-Baptiste avait une grande dévotion. Sous son influence, les chanoines ajoutèrent à leur Office le chant des litanies de la Sainte Vierge.
En 1739, l'évêque d'Orte, le vénérable Tenderini l'orienta vers la direction des âmes. Il s'y révéla un directeur et un confesseur exceptionnel. Mais Giovanni-Battista continuait à évangéliser les pauvres bergers de la campagne romaine qui venaient à Rome pour y vendre leurs produits. Dès l'aurore il était près d'eux et gagnait leur confiance, et il orientait vers Dieu ces âmes frustes peu soucieuses des choses éternelles. Pendant longtemps il visita l'hospice de Santa-Galla, fondé en 1650 et où don Vaselli, réunissait des pauvres abandonnés qui avaient besoin d'instruction religieuse. L'hospice de Sainta-Galla était animé par une pieuse union d'ecclésiastiques qui se vouaient à l'accueil des enfants abandonnés pour les instruire de la doctrine chrétienne. Après la mort de Don Vaselli, Giovanni-Battista lui succéda. Il s'y dévouera pendant tout le reste de sa vie. Enfin, il voulut donner aux pauvres filles qui erraient sans domicile dans les rues de Rome un asile au moins pour la nuit. Il fonda pour elles l'hospice Saint-Louis-de-Gonzague, dirigé par une prieure et une sous-prieure.
En souvenir des peines que Notre-Seigneur avait endurées en prison lors de sa Passion, Giovanni-Battista visitait les détenus. Interrogé sur son assiduité, il répondait: "C'est pour les faire sortir de l'enfer intérieur où ils sont: une fois leur conscience soulagée, les peines de la détention deviennent plus faciles à accepter et ainsi ils en arrivent à les supporter pour l'expiation de leurs fautes." Il obtint pour les femmes prisonnières qu'un établissement leur soit réservé, administré par des femmes pieuses et charitables. Toutes ces preuves de la charité de Giovanni-Battista, il les puisait dans un amour de Jésus-Eucharistie qui s'épanouissait en un oubli absolu de lui-même.
Mais la santé de Giovanni devenait de plus en plus précaire. Malgré tout il continuait à confesser, à prêcher, et à consoler et à encourager ceux qui venaient le trouver. Enfin, le 23 mai 1764, Jean-Battista de Rossi décédait. Il avait 66 ans. Il fut béatifié par le pape Pie IX, le 13 mai 1860; et canonisé le 8 décembre 1881, par Léon XIII.
Voyons maintenant les orientations spirituelles vers lesquelles Giovanni-Battista de Rossi conduisait les personnes qui venaient à lui. Tout d'abord, il s'efforçait, quand cela était possible, de régulariser, les situations matrimoniales désordonnées. Ses exhortations au confessionnal, fortes et persuasives, obtenaient de beaux résultats: célébration du sacrement de mariage, ou bien, séparation définitive des concubins. Pourtant, pour le bien des pénitents, il refusait parfois l'absolution à ceux qui manquaient de contrition, refusaient de se retirer des occasions de pécher ou ne cherchaient pas à prendre les moyens indispensables pour sortir du péché. Il affirmait souvent: "Les prêtres ne devraient jamais se résigner à voir les confessionnaux désertés ni se contenter de constater la désaffection des fidèles pour ce sacrement."
En 1748, en raison de ses nombreuses difficultés de santé, le chanoine Giovanni-Battista de Rossi s'installa dans la communauté sacerdotale de la Trinité-des-Pèlerins, tout en continuant son ministère à Sainte-Marie-in-Cosmedin, en particulier les jours de marché où les paysans, qui avaient apporté leurs produits pour les vendre, profitaient de l'occasion pour se confesser.
Jean-Baptiste de Rossi s'efforçait aussi d'aider les prêtres dans leur vie spirituelle, et il s'efforçait d'entretenir les amitiés sacerdotales. Il avait toujours soin de ne pas parler mal des autres ecclésiastiques et des membres de la hiérarchie. Il demandait aux prêtres "une grande fidélité à leur vocation qui exige courage et confiance." Et il leur demandait d'être pleins de sollicitude les uns avec les autres. Il précisait: "Les moments de prière et d'étude en commun, le partage des exigences de la vie et du travail sacerdotal sont une part nécessaire de votre vie. Il est important que vous vous aidiez réciproquement par le moyen de la prière et par des conseils et des discernements utiles."
Durant les deux dernières années de sa vie, la fièvre  ne quittait plus Giovanni-Battista. En août 1762, sa santé était tellement délabrée qu'il dut aller refaire ses forces dans la région du lac de Nemi. Là, l'épilepsie de sa jeunesse réapparut avec des crises violentes. Le 8 septembre 1763, il se fit conduire à Sainte-Marie-in-Cosmedin pour y célébrer la Nativité de Marie. Il affirme à ses confrères: "Priez pour moi. Je ne reviendrai plus ici: c'est l'ultime fête que je célèbre avec vous."
Paulette Leblanc


Chiesa di San Giovanni Battista de Rossi, dans le quartier Appio-Latino sur la via Cesare Baronio

Saint Giovanni Battista Rossi


Also known as
  • John Baptist de Rossi
  • John Baptist Rossi
  • John Baptist de Rubeis
Profile

One of four children born to Charles de Rossi and Frances Anfossi. Taken by a wealthy noble couple to GenoaItaly for schooling. There he met some Capuchin friars who thought well of him, and helped him continue his education in RomeItalyStudied under the Jesuits at the Roman College at age 13. Member of the Sodality of the Blessed Virgin and the Ristretto of the Twelve ApostlesEpileptic. His self-imposed acts of austerity nearly broke his health, and he never completely regained his strength. Studied philosophy and theology under the DominicansOrdained on 3 March 1721, assigned to Rome.

Helped start a hospice for homeless women near Saint Galla’s hospice in RomeCanon of Santa Maria, Cosmedin in 1737; he used his compensation from the position to purchase an organ for the church. Missioner and catechist to the teamsters, farmers, herdsmen, homelesssickbeggarsprostitutes, and prisoners of the Campagna region. For many years, John was avoided hearing confessions for fear he would have a seizure in the confessional, but the bishop of Civitá Castellana convinced him it was part of his vocation. John relented, and soon became a sought after confessorin Rome; he once said that the shortest road to heaven was to guide others there by the confessional. Sought after preacher. Assigned as catechist to many government and prison officials, including the public hangman. Miracle worker. Always had a special devotion to Saint Aloysius Gonzaga.

Born

New Catholic Dictionary – Saint John Baptist de Rossi

Article

Confessor, born Voltaggio, Italy, 1698; died Rome, Italy, 1764. He was ordained in 1721, but having through indiscreet practises of mortification contracted spells of epilepsy, he fulfilled the duties of the sacred ministry by instructing and preaching to the poor of the Campagna, thus becoming known as the apostle of the abandoned, and winning many sinners to repentance. In 1731 he established near Saint Galla a house of refuge for the homeless. In 1735 he was compelled to accept a canonry at Saint Mary in Cosmedin, vacated by the death of a relative. He was subsequently induced to hear confessions and was given the unusual faculty to do so in any of the churches of Rome, in the exercise of which privilege he displayed extraordinary zeal. Canonized1881Relics in Saints Trinita. Feast23 May.

MLA Citation
  • “Saint John Baptist de Rossi”. New Catholic DictionaryCatholicSaints.Info. 7 June 2017. Web. 22 May 2019. <http://catholicsaints.info/new-catholic-dictionary-saint-john-baptist-de-rossi/>

Pictorial Lives of the Saints – Saint John Baptist de Rossi

Article

Saint John Baptist de Rossi is the first instance in modern times of the canonization as Confessor of a priest belonging to no religions Order or Congregation. He was born at Voltaggio, a little town about fifteen miles north of Genoa, February 22, 1698. From the first he was distinguished for his piety and purity. The parish church was his favorite resort, and thither he would hasten after the early morning class to serve as many Masses as he could. The gravity and modesty he showed in holy places struck all who saw him, and many declared he was like a little angel just come down from heaven and still full of the vision of God. When our Saint was ten years old, a wealthy couple of Genoa visited Voltaggio; attracted by the unaffected piety and winning ways of the boy, they obtained from his parents permission to adopt him, and took him to their palace, where he was treated as their son.

After a residence of three years in Genoa, he removed, with his mother’s consent, his father having died in the meanwhile, to Rome, where his cousin, Laurence de Rossi, was the Canon of S. Maria in Cosmedin. There he began at once to attend the lower classes of the Roman College, and there was no more industrious or saintly student to be found. At the age of eighteen he received the tonsure, and the following year minor orders. He was then selected for a lengthened course of scholastic theology; but in striving to purify his soul he overtaxed his strength, and one day, while devoutly hearing Mass, he fell on the floor of the church in a swoon. From that time out he was subject to epileptic fits, which rendered his projected studies impracticable. This being the case, our Saint looked elsewhere. A course of lectures on the text of Saint Thomas, then being delivered, was attracting no little attention, and a large number of students attended. As the labor of following the course was comparatively light, John Baptist joined the class. In spite of his feeble health he applied himself most industriously, and still practised such mortifications as were prudent. Walking along the streets, his eyes were never raised from the ground, and in the coldest weather he wore no gloves.

When he was twenty-three years old he was ordained a priest. The first shape his charity assumed was an active interest in the young students who flock to Rome from every part of the Catholic world. He organized special services for them, preached sermons specially suited to them, and gathered them about him in his visits to the hospitals, to assist him in soothing and relieving the sick and dying. This charitable work over, they would enter a church and recite the Rosary aloud, after which they would enjoy themselves at some innocent game.

Another charity which attracted our Saint was the spiritual care of the drovers and cattlemen who frequented the market-places. The most of these were ignorant and depraved, caring for no one and with no one to care for them. By visiting their haunts at early dawn, before their work began, John Baptist won them by his kind words, and at last led many to the confessional who had not been there in years, and some who had never been. Hitherto he had not heard confessions himself, but now, at the instance of his bishop, he applied for and received faculties for the administration of the Sacrament of Penance.

In February, 1735, John Baptist, much against his own inclination, was appointed assistant to his cousin, Laurence de Rossi, who was growing feeble; and when, two years after, that good man died, his property and canonry were left to our Saint. Within a fortnight the new Canon of Santa Maria in Cosmedin had got rid of a great part of the property. He entered upon the duties of his new office at once, and soon gathered round him crowds of devout worshippers. His confessional was besieged by eager penitents, but always the poorest and most ignorant. The rich and noble he managed to put off, saying they could find confessors in plenty. He would never permit the confessional to be a medium for almsgiving. He himself would not bestow an alms from that tribunal on a penitent, no matter how poor, nor would he there accept a present from the rich, as he feared it might deter him from speaking plainly and freely. His devotion to the poor and ignorant was remarkable. He sought out the most abject and abandoned people, and pursued this work of Christian charity with such zeal as to merit the title of “Venator Animarum,” the hunter of souls. In 1740, when Pope Benedict XIV. determined to institute catechism classes for the instruction of criminals serving short sentences, he found an able assistant in our Saint. He had no difficulty in winning the hearts of the convicts from the start, and there was a perceptible reformation wrought in a short time.

The endless labor and the severe penances which the Saint imposed on himself finally told on his delicate frame, and on May 23, 1764, a stroke of apoplexy ended his mortal life, and brought him the endless bliss of the presence of God, for which his soul had so long yearned.

After the death of the holy man many miracles bore witness to his sanctity. Among others was the case of Sister Mary Theresa Leonori, of the Convent of Saint Cecilia at Rome, who in 1859 suffered from a throat disease which the best medical authorities pronounced incurable. Wasted and enfeebled by her sickness, entirely deprived of speech, suffering great pain, and unable to partake of any nourishment, her death was momentarily looked for. Human aid failing her, the pious Sister besought the help of Saint John Baptist, and Our Lord, to show His love for His faithful servant, deigned to work a miracle at the Saint’s intercession. Sister Mary Theresa was instantly cured and rose from her bed of suffering a well woman.

MLA Citation
  • John Dawson Gilmary Shea. “Saint John Baptist de Rossi”. Pictorial Lives of the Saints1922CatholicSaints.Info. 15 December 2018. Web. 22 May 2019. <http://catholicsaints.info/pictorial-lives-of-the-saints-saint-john-baptist-de-rossi/>

St. John Baptist de Rossi

 (De Rubeis).
Born at Voltaggio in the Diocese of Genoa, 22 February, 1698; died at Rome, 23 May, 1764; feast on 23 May. His parents, Charles de Rossi and Frances Anfossi, were not rich in earthly goods, but had solid piety and the esteem of their fellow-citizens. Of their four children, John excelled in gentleness and piety. At the age of ten he was taken to Genoa by friends for his education. There he received news of the death of his father. After three years he was called to Rome by a relative, Lorenzo de Rossi, who was canon at St. Mary in Cosmedin. He pursued his studies at the Collegium Romanum under the direction of the Jesuits, and soon became a model by his talents, application to study, and virtue. As a member of the Sodality of the Blessed Virgin and of the Ristretto of the Twelve Apostles established at the college, he led the members in the meetings and pious exercises, in visits to the sick in the hospitals and in other works of mercy, and merited even then the name of apostle. At the age of sixteen he entered the clerical state. Owing to indiscreet practices of mortification he contracted spells of epilepsy, notwithstanding which he made his course of scholastic philosophy and theology, in the college of the Dominicans, and, with dispensation, was ordained priest on 8 March, 1721. Having reached the desired goal, he bound himself by vow to accept no ecclesiastical benefice unless commanded by obedience. He fulfilled the duties of the sacred ministry by devoting himself to the labourers, herds, and teamsters of the Campagna, preaching to them early in the morning, or late in the evening, at the old Forum Romanum (Campo Vaccino), and by visiting, instructing, and assisting the poor at the hospital of St. Galla. In 1731 he established near St. Galla another hospital as a home of refuge for the unfortunates who wander the city by night ("Rom. Brev.", tr. Bute, Summer, 573). In 1735 he became titular canon at St. Mary in Cosmedin, and, on the death of Lorenzo two years later, obedience forced him to accept the canonry. The house belonging to it, however, he would not use, but employed the rent for good purposes.
For a number of years John was afraid, on account of his sickness, to enter the confessional, and it was his custom to send to other priests the sinners whom he had brought to repentance by his instructions and sermons. In 1738 a dangerous sickness befell him, and to regain his health he went to Cività Castellana, a day's journey from Rome. The bishop of the place induced him to hear confessions, and after reviewing his moral theology he received the unusual faculty of hearing confessions in any of the churches of Rome. He showed extraordinary zeal in the exercise of this privilege, and spent many hours every day in hearing the confessions of the illiterate and the poor whom he sought in the hospitals and in their homes. He preached to such five and six times a day in churches, chapelsconventshospitals, barracks, and prison cells, so that he became the apostle of the abandoned, a second Philip Neri, a hunter of souls. In 1763, worn out by such labours and continued ill-health, his strength began to ebb away, and after several attacks of paralysis he died at his quarters in Trinità de' Pellegrini. He was buried in that church under a marble slab at the altar of the Blessed VirginGod honoured his servant by miracles, and only seventeen years after his death the process of beatification was begun, but the troubled state of Europe during the succeeding years prevented progress in the cause until it was resumed by Pius IX, who on 13 May, 1860, solemnly pronounced his beatification. As new signs still distinguished him, Leo XIII, on 8 December, 1881, enrolled him among the saints.

Sources

HERBERT, St. John B. de Rossi (New York, 1906), Roman Breviary; SEEBÖCK, Herrlichkeit der kath. Kirche (Innsbruck 1900), 1; BELLESHEIM, Der hl. Joh. B, de Rossi (Mainz, 1882): CORMIER (Rome, 1901); Theol. prakt. Quartal-Schrift, XXV, 752.
Mershman, Francis. "St. John Baptist de Rossi." The Catholic Encyclopedia. Vol. 8. New York: Robert Appleton Company, 1910. 22 May 2019 <http://www.newadvent.org/cathen/08449a.htm>.
Transcription. This article was transcribed for New Advent by Tom Burgoyne. In memory of Father Baker, founder of Our Lady of Victory Homes.
Ecclesiastical approbation. Nihil Obstat. October 1, 1910. Remy Lafort, S.T.D., Censor. Imprimatur. +John Cardinal Farley, Archbishop of New York.

St. John Baptist de Rossi (Feast: May 23)

Giovanni Battista de Rossi was born in the Piedmontese village of Voltaggio, in the diocese of Genoa, and was one of four children. His parents, of modest means, were devout and well esteemed.

A nobleman and his wife vacationing in Voltaggio, and impressed with the ten-year-old John Baptist, obtained permission from his parents to take him to live with them and be trained in their house in Genoa.

After three years, hearing of his virtues, John’s cousin, Lorenzo Rossi, Canon of Santa Maria in Cosmedin, invited him to join him in Rome. Thus John Baptist entered the Roman Jesuit College at thirteen. Despite episodes of epilepsy, brought on by excessive zeal in imposing harsh penances upon himself, he was granted a dispensation and was ordained at the age of twenty-three.

From his student days he loved visiting hospitals. Now, as a priest there was much more he could offer suffering souls. He particularly loved the Hospice of St. Galla, a night shelter for paupers. There he labored for forty years.

He also worked at the hospital of Trinita dei Pellegrini and extended his assistance to other poor such as cattlemen who came to market at the Roman forum. He had a great pity for homeless women and girls and from the little that he made in Mass stipends, and the 400 scudi sent to him by the Pope, he rented a refuge for them.

John Baptist was also selected by Pope Benedict XIV to deliver courses of instruction to prison officials and other state servants. Among his penitents was the public hangman.

In 1731 Canon Rossi obtained for his cousin a post of assistant priest at St. Maria in Cosmedin. He was a great confessor to whom penitents flocked, and as a preacher, the saint was also in demand for missions and retreats.

On the death of Canon Rossi, Fr. John inherited his canonry, but applied the money attached to the post to buy an organ, and hire an organist. As to the house, he gave it to the chapter and went to live in the attic.

In 1763 St. John Baptist’s health began to fail, and he was obliged to take up residence in the hospital of Trinita dei Pellegrini. He expired after a couple of strokes on May 23, 1764 at sixty- six years of age. He died so poor that the hospital prepared to pay for his burial. But the Church took over and he was given a triumphant funeral with numerous clergy and religious, and the Papal choir, in attendance.


San Giovanni Battista de' Rossi Sacerdote

Voltaggio, Genova, 22 febbraio 1698 - 23 maggio 1764

Nacque nel 1698 a Voltaggio, in provincia di Genova ma a 13 anni, per motivi di studio, si trasferì a Roma nella casa di uno zio sacerdote, canonico a Santa Maria in Cosmedin. A Roma frequentò il liceo presso i gesuiti del Collegio Romano avviandosi agli ordini sacri. In quel periodo fu colto dai primi attacchi di epilessia, malattia che lo avrebbe fatto soffrire per tutta la vita. Venne ordinato sacerdote l'8 marzo 1721 e da allora diede ancora più slancio al suo apostolato, avviato in precedenza, tra gli studenti, i poveri e gli emarginati. Sulla scia di quell'impegno nacque la Pia Unione dei sacerdoti secolari di Santa Galla dal nome di un ospizio maschile da lui diretto. Giovanni ne volle uno anche per donne e lo dedicò a Luigi Gonzaga santo cui era devotissimo. Eletto canonico di Santa Maria in Cosmedin, venne dispensato dall'obbligo del coro per potersi dedicare con maggiore libertà ai suoi impegni apostolici. Negli ultimi mesi di vita l'epilessia si aggravò costringendolo a un vero e proprio calvario. Morì il 23 maggio 1764. Fu canonizzato da Leone XIII l'8 dicembre 1881. (Avvenire)

Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

Martirologio Romano: A Roma, san Giovanni Battista de Rossi, sacerdote, che accolse i poveri e i più emarginati, insegnando loro la sacra dottrina. 

Non è nato per essere capo: a lui basta ubbidire e lavorare sodo, sia da laico come poi da sacerdote. Giovanni Battista de’ Rossi è uno dei pochi sopravvissuti di una famiglia segnata da troppi lutti: il papà muore prematuramente, e la maggior parte dei fratellini se ne va prima di raggiungere l’adolescenza. E’ nato nel 1698 a Voltaggio, nell’alessandrino, ma frequenta il genovese per le scuole che una famiglia benestante gli fa frequentare, perché chi lo avvicina resta incantato dalla sua intelligenza ma soprattutto dalla sua pietà e dalla dolcezza del suo carattere. Alla morte di papà alcuni sacerdoti, parenti o amici di famiglia, lo accolgono per carità e gli fanno proseguire gli studi e, di trasferimento in trasferimento, togliendo così alla famiglia il peso di una bocca in più da sfamare. arriva fino a Roma. Dove, com’è naturale, si prepara al sacerdozio, assecondando una vocazione che nutre fin da bambino, aiutato anche da un’intelligenza non comune che gli permette di completare in anticipo gli studi per cui è necessario ottenere dal papa la dispensa per l’ordinazione sacerdotale. Non aspetta però il sacerdozio per buttarsi nell’apostolato: gli oratori romani e i gruppi studenteschi lo vedono protagonista attivo: mai con ruolo dirigenziale, solo e sempre come semplice gregario. E sono proprio i giovani a fargli corona alla prima messa, che celebra all’altare di San Luigi, nella chiesa di Sant’Ignazio, a marzo del 1721. Ormai la sua strada è tracciata: precedenza assoluta ai giovani, alla catechesi, alle fasce più deboli della Roma del suo tempo, ai malati che visita a domicilio per portare conforto cristiano e sostegno materiale. Un occhio di riguardo lo vuole avere anche per i confratelli sacerdoti, per i quali fonda la Pia Unione dei Sacerdoti Secolari: sostegno, arricchimento spirituale, aggiornamento culturale per un clero che a metà Settecento non brillava per cultura e preparazione teologica. Il resto della sua vita lo trascorre in confessionale: chiede ed ottiene la facoltà di confessare solo a 40 anni, ma da quel momento sarà questo il suo apostolato specifico, che porta i romani ad assediarlo nel confessionale per lunghissime ore ogni giorno ed a renderlo ricercatissimo per la direzione spirituale. C’è chi si domanda come faccia a reggere ad un così intenso ritmo di lavoro apostolico per le strade del quartiere del Campidoglio, sui pulpiti, nei confessionali, nei tuguri della povera gente, al letto degli ammalati. Tanto più che lui stesso non è la salute fatta persona, soggetto com’è a frequenti crisi epilettiche e tormentato da una fastidiosa malattia agli occhi: la sua vita vorticosa e la sua inarrestabile carità rappresentano il trionfo della volontà sulla fragilità fisica, dell’impegno apostolico sui limiti imposti dalla malattia. Nato da famiglia umile e povera, tale sceglie di restare fino alla morte, che sopraggiunge il 23 maggio 1764, ad appena 66 anni. Beatificato da Pio IX nel 1860, sarà proclamato santo da Leone XIII nel 1881.


Autore: Gianpiero Pettiti


LA LIBERTE RELIGIEUSE POUR LE BIEN DE TOUS. Une approche théologique aux défis contemporains

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Les nouveaux défis de la liberté religieuse


Marko Vombergar | ALETEIA

Le secrétaire général de la Commission théologique internationale présente la note de la CTI sur « La liberté religieuse pour le bien de tous » qui vient de paraître en français. Dans le contexte nouveau d’une dérive autoritaire de l’État démocratique libéral qui, au nom de l’idéologie de la « neutralité » morale, marginalise la liberté religieuse, les droits de la personne humaine perdent tout fondement objectif.

Un demi-siècle après la déclaration Dignitatis humanae du concile Vatican II sur la liberté religieuse (1965), le contexte géopolitique mais aussi culturel et idéologique s’est considérablement modifié. Il était donc nécessaire de réfléchir, à la lumière de la théologie catholique, sur les évolutions en cours et leurs retombées aussi sur la notion de la liberté religieuse que sur sa mise en pratique. La Commission théologique internationale (CTI), organisme au service de la Congrégation pour la doctrine de la foi, s’y est employée au cours des cinq dernières années, avec comme résultat un document qui vient de paraître sous le titre : « La liberté religieuse pour le bien de tous. Une approche théologique aux défis contemporains ».

La clé de voûte des droits de l’homme

À l’époque du Concile, la déclaration sur le droit naturel de la personne à la liberté religieuse visait à répondre à deux défis majeurs, particulièrement aigus dans les années d’après-guerre. Il fallait tout d’abord dresser une digue éthique et juridique contre les monstruosités sanglantes et les persécutions anti-religieuses engendrées par les totalitarismes du XXesiècle.
En affirmant que toute personne humaine jouissait par nature du droit à n’être pas contrainte par les autorités politiques en matière religieuse, le Concile coupait court aux prétentions de l’État totalitaire à régir toutes les dimensions, même les plus intimes, de l’existence personnelle et communautaire de ses membres : la personne, faite par Dieu et pour Dieu, transcende de quelque manière l’ordre socio-politique et la foi elle-même, libre réponse sous la grâce à l’Évangile du Christ, ne s’impose que par la force de sa vérité elle-même. Dans cette ligne, saint Jean Paul II a fait du droit à la liberté religieuse la clé de voûte et la garantie de tout l’organisme des droits de l’homme. Le second défi, dans un monde qui avait définitivement pris congé de l’Ancien Régime, était de redéfinir la présence de l’Église et son rapport à l’autorité politique dans des sociétés désormais façonnées par la culture démocratique et marquées par un pluralisme religieux de fait, qui n’a cessé de s’accentuer depuis.


L’idéologie de la neutralité

Or, depuis cinquante ans, le contexte a changé. Le phénomène le plus significatif et le plus inquiétant est une certaine dérive, potentiellement totalitaire, de l’État démocratique libéral vers une prétendue « neutralité » morale, qui résulte d’une crise profonde des fondements substantiels, anthropologiques et éthiques, de la démocratie. La CTI suggère même, en passant, que l’État neutre qui s’inspire de ce relativisme et les fondamentalismes « religieux » que nous connaissons aujourd’hui pourraient bien être des frères jumeaux, issus d’une même crise morale. En effet, avec la sécularisation galopante, les valeurs humanistes, souvent d’origine chrétienne, qui ont porté et nourri l’aventure des démocraties modernes tendent à s’effacer de l’horizon social et culturel, de sorte que la démocratie se réduit de plus en plus à une pure forme procédurale qui entend faire abstraction des biens substantiels, éthiques et religieux, qui donnent sens à la vie des personnes et animent les communautés qui forment la société civile. Au nom de cette prétendue neutralité valoriale, supposée garantir l’égalité des citoyens et la « non-discrimination » mais qui masque en fait un nihilisme éthique (cf. n° 62), on aboutit à une relativisation des valeurs, spécialement de celles qui fondent le droit à la liberté religieuse.

Dans le contexte actuel où prolifèrent les droits subjectifs privés, déconnectés de la vérité objective de la nature humaine, la liberté religieuse cesse d’être un droit fondamental pour devenir un droit subjectif comme les autres… et de plus en plus en concurrence avec les autres. La tendance est alors à réduire la liberté religieuse, comme l’atteste la restriction croissante de la reconnaissance juridique du droit à l’objection de conscience. « La prétendue neutralité idéologique d’une culture politique qui déclare vouloir se construire sur la formation de règles purement procédurales de justice, en écartant toute justification éthique et toute inspiration religieuse, manifeste la tendance à élaborer une idéologie de la neutralité qui, de fait, impose la marginalisation, sinon l’exclusion, de l’expression religieuse de la sphère publique. Et donc de la pleine liberté de participer à la formation de la citoyenneté démocratique » (n° 5).


Les effets sociaux de la mission de l’Église

Or une société ne peut se résigner au face-à-face stérile entre l’État émancipateur et une poussière d’individus désormais sans appartenance réelle. Lorsque la neutralité institutionnelle de l’État devient indifférence à la dimension éthique et/ou religieuse, seule capable de donner un sens à la vie des hommes et de nourrir l’espérance, elle favorise la dissolution du lien social dans l’acide de l’individualisme libertaire. Le document de la CTI insiste au contraire sur l’importance vitale des corps intermédiaires (familles, associations, communautés religieuses…) qui sont la chair et le sang de toute société politique. Non des lieux d’oppression qui brimeraient la liberté de l’individu mais des lieux où cette liberté peut s’épanouir en forme de communion interpersonnelle. Les communautés religieuses ne sont donc ni des groupes de pression, ni des lobbies qui ne défendraient que leurs intérêts particuliers (ce serait le communautarisme au mauvais sens du terme), mais des communautés qui contribuent à l’humanisation intégrale et à la socialisation de leurs membres, au service du bien commun de l’ensemble de la société. Certes, la mission de l’Église catholique ne se réduit aucunement à insuffler un supplément d’âme à la société civile. Elle est d’un tout autre ordre puisqu’elle consiste à communiquer à tout homme le salut surnaturel qui se réalise dans l’union de foi et d’amour à Jésus-Christ, mais elle a inévitablement des « retombées » sociales et politiques. 


Laïcité positive

Dans cette perspective, on comprend que le document de la CTI en appelle à plusieurs reprises à une laïcité positive — sujet sensible s’il en est dans l’Hexagone ! La laïcité ne peut être une religion de substitution, une théocratie inversée, ni même un principe d’exclusion systématique de la religion hors de l’espace social. Si les institutions politiques sont laïques, la société n’a pas à l’être. En effet, la saine laïcité est avant tout un principe de distinction entre l’autorité politique et les religions. Pas d’instrumentalisation ni dans un sens, ni dans l’autre. Mais, en raison même de ce que sont la société et les personnes qui la composent, cette distinction doit s’accompagner, dans la juste distinction des tâches, d’une coopération confiante en vue de la promotion du bien commun. Pour le dire avec Benoît XVI, analyste aigu de l’évolution idéologique de nos démocraties libérales, la laïcité positive est la juste articulation entre la dimension éthico-religieuse et la politique : « La dimension religieuse, dans la diversité de ses expressions, est non seulement tolérée, mais valorisée comme « âme » de la nation et garantie fondamentale des droits et des devoirs de l’homme » (Audience générale, 30 avril 2008).

COMMISSION THEOLOGIQUE INTERNATIONALE

LA LIBERTE RELIGIEUSE 

POUR LE BIEN DE TOUS


Une approche théologique aux défis contemporains


Index

Note préliminaire

1.Un regard sur le contexte actuel

2. La perspective de Dignitatis Humanae à son époque et aujourd’hui
Avant le concile Vatican II 

Les points saillants de Dignitatis Humanae
La liberté religieuse après le Concile Vatican II 
Un seuil de nouveauté ?


3. Le droit de la personne à la liberté religieuse
La discussion sur les fondements théoriques 

Dignité et vérité de la personne humaine
L’être-personne est inhérent à la condition humaine
La médiation de la conscience


4. Le droit des communautés à la liberté religieuse
Dimension sociale de la personne humaine 

Subsidiarité et récit fondateur
Pratiques religieuses et humanité concrète
Éducation intégrale et incorporation à la communauté
La valeur des corps intermédiaires et l’État 
L’État, la toile et les communautés de conviction


5. L’État et la liberté religieuse
Christianisme et dignité de l’État

La dérive « monophysite » dans les relations entre religion et État
La réduction « libérale » de la liberté religieuse
Ambiguïté de l’État moralement neutre


6. La contribution de la liberté religieuse à la convivance et à la paix sociale
Liberté religieuse pour le bien de tous

L’être-ensemble a qualité de bien
Le juste discernement de la liberté religieuse
Les extensions de la liberté religieuse


7. La liberté religieuse dans la mission de l’Église
Le libre témoignage de l’amour de Dieu

L’Église proclame la liberté religieuse pour tous
Le dialogue interreligieux comme voie vers la paix
Le courage du discernement et du refus de la violence au nom de Dieu


Conclusion




Note préliminaire

Au cours de son IXe quinquennium, la Commission Théologique Internationale a pu mener à bien une étude sur le thème de la liberté religieuse dans le contexte d’aujourd’hui. Cette étude a été menée par une sous-commission constituée à cet effet, présidée par le P. Javier Prades López et composée des membres suivants : le P. Željko Tanjić, le P. John Junyang Park, le Prof. Moira Mary McQueen, le P. Bernard Pottier, S.I., le Prof. Tracey Rowland, Mons. Pierangelo Sequeri, le P. Philippe Vallin, le P. Koffi Messan Laurent Kpogo, le P. Serge-Thomas Bonino, O.P.

Les discussions générales sur le thème en question se sont déroulées lors des différentes rencontres de la sous-commission, et à l’occasion des sessions plénières de la Commission au cours des années 2014-2018. Le présent texte a été approuvé in forma specifica par la majorité des membres de la Commission par un vote écrit. Il a été ensuite soumis à l’approbation de son Président, Son Éminence le cardinal Luis F. Ladaria, s.j., Préfet de la Congrégation pour la Doctrine de la Foi, lequel, après avoir reçu le 21 mars 2019 l’avis favorable du pape François, en a autorisé la publication.

1.Un regard sur le contexte actuel

1. En 1965 la Déclaration conciliaire Dignitatis Humanae fut approuvée dans un contexte historique notablement différent de celui d’aujourd’hui, aussi par rapport au thème qui en constituait le sujet central, savoir celui de la liberté religieuse dans le monde moderne. Sa mise au point courageuse des raisons chrétiennes de respecter la liberté religieuse des individus et des communautés dans le cadre de l’État de droit et des pratiques de la justice des sociétés civiles, suscite encore maintenant notre admiration. La contribution du Concile, que nous pouvons bien définir prophétique, a offert à l’Église un horizon de crédibilité et d’estime qui a énormément favorisé son témoignage évangélique dans le contexte de la société contemporaine.

2. Entretemps, le rôle de premier plan qu’ont récemment pris les traditions religieuses et nationales de la région du Moyen-Orient et de l’Asie a sensiblement changé la perception du rapport entre religion et société. Les grandes traditions religieuses du monde n’apparaissent plus seulement comme le résidu d’époques anciennes et de cultures prémodernes dépassées par l’histoire. Les diverses formes d’appartenance religieuse influent d’une manière nouvelle sur la constitution de l’identité personnelle, sur l’interprétation du lien social et sur la recherche du bien commun. Dans beaucoup de sociétés sécularisées les diverses formes de communauté religieuse continuent d’être perçues socialement comme d’importants facteurs de médiation entre les individus et l’État. L’élément relativement nouveau dans la configuration actuelle de ces modèles réside dans le fait que, aujourd’hui, cette importance des communautés religieuses doit se situer – directement ou indirectement – face au modèle démocratique-libéral de l’État de droit et de la gestion techno-économique de la société civile.

3. Partout où se pose aujourd’hui dans le monde le problème de la liberté religieuse, ce concept est discuté en référence – positive ou négative – à une conception des droits humains et des libertés civiles qui est associée à la culture politique libérale, démocratique, pluraliste et séculière. La rhétorique humaniste qui fait appel aux valeurs de la convivance pacifique, de la dignité individuelle, du dialogue inter-culturel et inter-religieux, s’exprime dans le langage de l’État libéral moderne. Et d’autre part, encore plus profondément, elle puise aux principes chrétiens de la dignité de la personne et de la proximité entre les hommes, qui ont contribué à la formation et à l’universalisation de ce langage.

4. La radicalisation religieuse actuelle désignée comme « fondamentalisme », dans le cadre des diverses cultures politiques, ne semble pas être un simple retour plus « observant » à la religiosité traditionnelle. Cette radicalisation est souvent connotée par une réaction spécifique à la conception libérale de l’État moderne, en raison de son relativisme éthique et de son indifférence vis-à-vis de la religion. D’autre part, l’État libéral apparait à beaucoup comme critiquable également pour la raison opposée : sa neutralité proclamée ne semble pas en mesure d’éviter la tendance à considérer la foi professée et l’appartenance religieuse comme un obstacle à l’admission à la pleine citoyenneté culturelle et politique des individus. Une forme de « totalitarisme doux », pourrait-on dire, qui rend particulièrement vulnérable à la diffusion du nihilisme éthique dans la sphère publique.
5. La prétendue neutralité idéologique d’une culture politique qui déclare vouloir se construire sur la formation de règles purement procédurales de justice, en écartant toute justification éthique et toute inspiration religieuse, manifeste la tendance à élaborer une idéologie de la neutralité qui, de fait, impose la marginalisation, sinon l’exclusion, de l’expression religieuse de la sphère publique. Et donc de la pleine liberté de participer à la formation de la citoyenneté démocratique. Ici se découvre l’ambivalence d’une neutralité de la sphère publique qui n’est qu’apparente et d’une liberté civique objectivement discriminante. Une culture civique qui définit son propre humanisme par la mise à l’écart de la composante religieuse de la réalité humaine se voit contrainte de mettre aussi à l’écart des pans décisifs de sa propre histoire : de son propre savoir, de sa propre tradition, de sa propre cohésion sociale. Le résultat en est la mise à l’écart de parties toujours plus importantes de l’humanité et de la citoyenneté dont la société elle-même est formée. La réaction à la faiblesse humaniste du système va jusqu’à faire apparaitre à beaucoup (surtout aux jeunes) comme justifié le recours à un fanatisme désespéré, athée ou aussi théocratique. L’incompréhensible attraction qu’exercent des formes violentes et totalitaires d’idéologie politique ou de militantisme religieux, qui semblaient désormais consignées au jugement de la raison et de l’histoire, doit nous interpeller d’une manière nouvelle et avec une plus grande profondeur d’analyse.

6. En opposition à la thèse classique qui prévoyait la réduction de la religion comme effet inévitable de la modernisation technique et économique, on parle aujourd’hui d’un retour de la religion sur la scène publique. À la vérité, la corrélation automatique entre progrès civil et extinction de la religion avait été formulée sur la base d’un préjugé idéologique, qui voyait la religion comme la construction mythique d’une société humaine ne maîtrisant pas encore les instruments rationnels capables de produire émancipation et bien-être de la société. Ce schéma s’est révélé inadéquat, non seulement par rapport à la véritable nature de la conscience religieuse mais aussi pour ce qui est de la confiance naïve placée dans les effets humanistes attribués à la modernisation technologique. Néanmoins, c’est justement la réflexion théologique qui a contribué à tirer au clair, en ces dernières décennies, les fortes ambiguïtés de ce qu’on a hâtivement désigné comme un retour de la religion. Ce soi-disant « retour », en effet, présente également des aspects de « régression » par rapport aux valeurs personnelles et à la convivance démocratique qui sont à la base de la conception humaniste de l’ordre politique et du lien social. Beaucoup de phénomènes associés à la nouvelle présence du facteur religieux dans la sphère politique et sociale apparaissent tout à fait hétérogènes – pour ne pas dire contradictoires – par rapport à la tradition authentique et au développement culturel des grandes religions historiques. Des formes nouvelles de religiosité, cultivées dans la ligne de contaminations arbitraires entre recherche du bien-être psycho-physique et constructions pseudo-scientifiques de la vision du monde et du soi, apparaissent plutôt, aux croyants eux-mêmes, comme des déviations inquiétantes de l’orientation religieuse. Pour ne rien dire de la grossière motivation religieuse de certaines formes de fanatisme totalitaire, qui visent à imposer la violence terroriste, même à l’intérieur des grandes traditions religieuses.

7. Le progressif retrait post-moderne vis-à-vis de l’engagement sur la vérité et sur la transcendance pose certainement en termes nouveaux aussi le thème politique et juridique de la liberté religieuse. D’autre part, les théories de l’État libéral qui le pensent comme radicalement indépendant de ce qu’apportent l’argumentation et le témoignage de la culture religieuse, le doivent concevoir comme plus vulnérable aux pressions des formes de religiosité – ou de pseudo-religiosité – qui cherchent à s’affirmer dans l’espace publique en dehors des règles d’un dialogue culturel respectueux et d’une confrontation démocratique citoyenne. La protection de la liberté religieuse et de la paix sociale présuppose un État qui non seulement développe des logiques de coopération réciproque entre les communautés religieuses et la société civile, mais qui se montre aussi capable de mettre en œuvre la circulation d’une culture adéquate de la religion. La culture civile doit dépasser le préjugé d’une vision purement émotionnelle ou idéologique de la religion. La religion à son tour doit être sans cesse stimulée à élaborer la vision de la réalité et de la convivance qui l’inspirent en un langage recevable au regard de l’humanisme.

8. Le christianisme – le catholicisme d’une manière spécifique, et justement avec le sceau du Concile – a conçu une ligne de développement de sa qualité religieuse qui passe par la répudiation de toute tentative d’instrumentaliser le pouvoir politique, même pratiquée en vue d’un prosélytisme de la foi. L’évangélisation se tourne aujourd’hui vers la mise en valeur positive d’un contexte de liberté religieuse et civile de la conscience, que le christianisme conçoit comme un espace historique, social et culturel favorable à un appel de la foi qui ne veut pas être confondu avec une imposition ou profiter d’un état de soumission de l’homme. La proclamation de la liberté religieuse, qui doit valoir pour tous, et le témoignage rendu à une vérité transcendante qui ne s’impose pas par la force, apparaissent profondément cohérents avec l’inspiration de la foi. La foi chrétienne, par sa nature, est ouverte à la confrontation positive avec les raisons humaines de la vérité et du bien, que l’histoire de la culture met au jour dans la vie et la pensée des peuples. La liberté de rechercher les paroles et les signes de la vérité de Dieu, et la passion pour la fraternité entre les hommes vont toujours ensemble.

9. Les transformations récentes de la scène religieuse, comme aussi de la culture humaniste, dans la vie politique et sociale des peuples, confirment – s’il en était besoin – que les relations entre ces deux aspects sont étroites, profondes et d’importance vitale pour la qualité de la convivance et pour l’orientation de l’existence. Dans cette perspective, la recherche des formes les plus aptes à garantir les meilleures conditions possibles pour leur interaction, dans la liberté et dans la paix, sont un facteur décisif du bien commun et du progrès historique des civilisations humaines. L’impressionnante période de migrations de peuples entiers, dont les terres sont désormais hostiles à la vie et à la convivance, surtout parce que s’y installent de façon endémique la pauvreté et un état de guerre permanent, est en train de créer, dans le monde occidental, des sociétés structurellement inter-religieuses, interculturelles, inter-ethniques. Au-delà de l’urgence, ne serait-ce pas le moment de discuter du fait que l’histoire semble imposer ici la véritable invention d’un avenir nouveau pour la construction de modèles du rapport entre liberté religieuse et démocratie civile ? Le trésor de culture et de foi dont nous avons hérité à travers les siècles, et que nous avons accueilli librement, ne devrait-il pas engendrer un humanisme réellement à la hauteur de l’appel de l’histoire, capable de répondre à la requête d’une terre plus habitable ?

10. En référence aux « signes des temps » à venir, qui ont déjà commencé à se produire, il est nécessaire de se doter d’instruments adéquats pour mettre à jour la réflexion chrétienne, le dialogue religieux, et la confrontation citoyenne. La résignation en face de la dureté et de la complexité de certaines régressions du présent serait une faiblesse injustifiable vis-à-vis de la responsabilité de la foi. Le lien de la liberté religieuse et de la dignité humaine est devenu central même sur le plan politique : les deux sont étroitement connexes, d’une manière qui aujourd’hui apparait définitivement claire. Une Église croyante qui vit à l’intérieur de sociétés humaines toujours plus marquées par la diversité religieuse et ethnique – c’est, semble-t-il, le mouvement de l’histoire – doit savoir développer à temps une compétence adaptée à la nouvelle condition existentielle de son témoignage de foi. Condition du reste qui, à bien y regarder, n’est pas si différente de celle en laquelle le christianisme fut envoyé jeter la semence et fut capable de fleurir.

11. Ce document débute en rappelant l’enseignement de la Déclaration conciliaire Dignitatis Humanae et sa réception, dans le magistère et dans la théologie, après le concile Vatican II (cf. Chapitre 2). Puis, par manière de cadre synthétique des principes, surtout anthropologiques, de la compréhension chrétienne de la liberté religieuse, on traite de la liberté religieuse de la personne, d’abord dans sa dimension individuelle (cf. Chapitre 3) et ensuite dans sa dimension communautaire, soulignant entre autres l’importance des communautés religieuses comme corps intermédiaires dans la vie sociale (cf. Chapitre 4). Les deux aspects sont inséparables dans la réalité. Toutefois, puisque l’enracinement de la liberté religieuse dans la condition personnelle de l’être humain indique le fondement ultime de sa dignité inaliénable, il semble utile de procéder selon cet ordre. On considère ensuite la liberté religieuse par rapport à l’État et on propose une mise au point sur les contradictions inscrites dans l’idéologie d’une conception de l’État qui serait neutre dans le domaine de la religion, de l’éthique et des valeurs (cf. Chapitre 5). Dans les derniers chapitres le document s’arrête sur la contribution de la liberté religieuse à la convivance et à la paix sociale (cf. Chapitre 6), avant de mettre en relief la place centrale de la liberté religieuse dans la mission de l’Église aujourd’hui (cf. Chapitre 7).

12. La réflexion que nous proposons dans ce texte adopte une approche générale que l’on peut décrire brièvement dans les termes suivants. Notre intention n’est pas de proposer un texte académique sur les nombreux aspects du débat sur la liberté religieuse. La complexité du thème, aussi bien du point de vue des différents facteurs de la vie personnelle et sociale qui y sont impliqués, que du point de vue des perspectives interdisciplinaires qu’il met en jeu, est évidente pour tous. Notre choix méthodologique fondamental peut être présenté synthétiquement comme une réflexion théologico-herméneutique qui poursuit un double but. a) En premier lieu, proposer une mise à jour raisonnée de la réception de Dignitatis Humanae. b) En second lieu, expliciter les raisons de la juste intégration – anthropologique et politique – entre l’instance personnelle et l’instance communautaire de la liberté religieuse.L’exigence d’un tel éclaircissement découle essentiellement de la nécessité pour la doctrine sociale de l’Église de tenir compte des données historiques les plus importantes de la nouvelle expérience globale.

13. L’indifférence absolue de l’État en matière éthique et religieuse affaiblit la société civile par rapport au discernement requis pour l’application d’un droit vraiment libéral et démocratique, en mesure de tenir compte effectivement des formes communautaires qui interprètent le lien social en vue du bien commun. En même temps, l’élaboration correcte de la pensée sur la liberté religieuse dans la sphère publique demande à la théologie chrétienne elle-même un approfondissement conscient de la complexité culturelle de la forme civile d’aujourd’hui, qui permette de barrer théoriquement la route à la régression du droit commun vers une forme théocratique. Le fil conducteur de l’éclaircissement proposé ici est inspiré par l’utilité qu’il y a à maintenir étroitement liés, tant sous l’angle anthropologique que théologique, les principes personnalistes, communautaires et chrétiens de la liberté religieuse de tous. Le développement n’aspire pas (il ne le pourrait d’ailleurs pas) au caractère systématique d’un « traité ». En ce sens, on ne doit donc pas attendre de ce texte un exposé théorique détaillé sur les catégories (politiques et ecclésiologiques) impliquées. Par ailleurs tout le monde sait que beaucoup de ces catégories se trouvent exposées à des oscillations de signification : soit en raison de leur emploi dans des contextes culturels différents, soit en fonction des diverses idéologies de référence. Malgré cette limite objective, imposée par la matière elle-même et par son évolution, cet instrument de mise à jour pourra offrir une aide valable pour un meilleur niveau d’entente et de communication du témoignage chrétien. Aussi bien dans le domaine de la conscience ecclésiale, par rapport au juste respect des valeurs humanistes de la foi, qu’à l’intérieur du conflit actuel des interprétations sur la doctrine de l’État, qui requiert une meilleure élaboration – non seulement théologique, mais aussi anthropologique et politique – du nouveau rapport entre communauté civile et appartenance religieuse.

2. La perspective de Dignitatis Humanae à son époque et aujourd’hui

Ce chapitre se propose de relever la signification que les Pères conciliaires ont donné à la liberté religieuse comme droit inaliénable de toute personne. Nous évaluerons l’enseignement magistériel en considérant de façon synthétique ce qu’était la perception de l’Église avant le concile Vatican II et quelle a été sa réception dans le Magistère récent.

Avant le concile Vatican II

14. La Déclaration du Concile Vatican II sur la liberté religieuse révèle une maturation de la pensée du Magistère sur la nature propre de l’Église en relation avec la forme juridique de l’État[1] . L’histoire du document démontre l’importance essentielle de cette corrélation pour l’évolution homogène de la doctrine, en raison de changements substantiels du contexte politique et social, dans lequel la conception de l’État et de son rapport avec les traditions religieuses, avec la culture civile, avec l’ordre juridique, avec la personne humaine, connaît une transformation[2]Dignitatis humanae témoigne d’un progrès substantiel dans la compréhension ecclésiale de ces rapports, dû à une intelligence de la foi plus approfondie, qui permet de reconnaître la nécessité d’un progrès dans l’exposition de la doctrine. Cette meilleure intelligence de la nature et des implications de la foi chrétienne, qui puise aux racines de la Révélation et de la tradition ecclésiale, implique une nouveauté de perspective et une attitude différente vis-à-vis de certaines déductions et applications du magistère antécédent.

15. Une certaine configuration idéologique de l’État qui avait interprété la modernité de la sphère publique comme émancipation par rapport à la sphère religieuse, a incité le Magistère de l’époque à condamner la liberté de conscience, entendue comme indifférence légitime et arbitraire subjectif vis-à-vis de la vérité éthique et religieuse[3]. La contradiction apparente entre revendication de la liberté ecclésiale et condamnation de la liberté religieuse doit désormais être éclaircie – et dépassée – par la prise en compte des nouveaux concepts qui définissent le domaine de la conscience civile : la légitime autonomie des réalités temporelles, la justification démocratique de la liberté politique, la neutralité idéologique de la sphère publique. La première réaction de l’Église s’explique à partir d’un contexte historique où le christianisme représentait la religion d’État et la religion dominante de fait dans la société occidentale. La mise en place agressive d’un laïcisme d’État qui répudiait le christianisme de la communauté a d’abord fait l’objet d’une lecture théologique en termes d’« apostasie » de la foi, plutôt que de légitime « séparation » entre l’État et l’Église. L’évolution de cette position initiale de la question a été favorisée essentiellement par deux développements : une meilleure auto-compréhension de l’autorité de l’Église dans le contexte du pouvoir politique et un élargissement progressif des raisons de la liberté de l’Église dans le cadre des libertés fondamentales de l’homme[4].

16. Dans le sillage de ce dynamisme des droits humains, saint Jean XXIII avait ouvert la voie au Concile. Dans Pacem in terris, il décrit les droits et devoirs des hommes, dans une perspective ouverte à la Déclaration universelle des droits de l’homme, et il enseigne que la convivance des hommes doit s’effectuer dans la liberté, « c’est-à-dire de la façon qui convient à des êtres raisonnables, faits pour assurer la responsabilité de leurs actes » [5]. Comme telle, la liberté favorise le dynamisme de la convivance humaine dans l’histoire et l’ordre de création voulu par Dieu l’authentifie. En effet, elle est la capacité dont le Créateur a doté l’homme afin qu’il puisse chercher la vérité avec son intelligence, choisir le bien avec sa volonté, et adhérer de tout son cœur à la promesse divine du salut, qui rachète et achève dans l’amour de Dieu sa vocation à la vie. Cette disposition de la liberté de l’être humain doit être défendue contre toute espèce de prévarication, intimidation ou violence[6] .

Les points saillants de Dignitatis Humanae

17. Nous abordons maintenant, bien que d’une façon très synthétique, l’enseignement du Concile Vatican II. D’une manière solennelle la Déclaration affirme : « Le droit à la liberté religieuse a son fondement réel dans la dignité même de la personne humaine telle que l’ont fait connaître la Parole de Dieu et la raison elle-même. Ce droit de la personne humaine à la liberté religieuse dans l’ordre juridique de la société doit être reconnu de telle manière qu’il constitue un droit civil ». (DH 2a). Dignitatis humanae propose quatre arguments qui justifient le choix de la liberté religieuse précisément comme un droit qui se fonde sur la dignité de la personne humaine (cf. DH 1-8). Ces arguments sont repris de façon ample à la lumière de la Révélation divine (cf. DH 9-11), librement accueillie dans l’acte de foi (cf. DH 10), précisant également l’usage qu’en a fait l’Église (cf. DH 12-14)[7].

18. Le premier argument est l’intégrité de la personne humaine, c’est-à-dire l’impossibilité de séparer sa liberté intérieure de sa manifestation publique. Ce droit de la liberté n’est pas un fait subjectif, mais il jaillit ontologiquement de la nature et de la vocation foncière par laquelle tout être humain est une personne, douée de raison et de volonté, en vertu desquelles elle est appelée à entrer en une relation avec le bien, la vérité, la justice, qui l’implique existentiellement. En termes religieux, cette vocation intrinsèque de l’être personnel, c’est l’être humain selon le dessein divin originaire : créé comme capax Dei, ouvert à la transcendance. Tel est le fondement radical et ultime de la liberté religieuse (cf. DH 2a, 9, 11, 12). Le point central est donc la liberté sacro-sainte de l’individu de ne pas être contraint ou empêché dans l’exercice authentique de la religion. Tout individu, à cet égard, doit répondre de ses actes d’une manière responsable : dans le sérieux de sa conscience du bien et dans la liberté de sa recherche de la vérité (et de la justice ; cf. DH 2, 4, 5, 8, 13).

19. Le second argument est intrinsèque au devoir de chercher la vérité, qui requiert et présuppose le dialogue entre êtres humains selon leur nature, donc d’une manière sociale. La liberté religieuse, loin d’évacuer l’importance du lien social, demeure la condition partagée d’une recherche de la vérité digne de l’homme. La valeur du dialogue est décisive puisque « la vérité ne s’impose que par la force de la vérité elle-même qui pénètre l’esprit avec autant de douceur que de puissance » (DH 1c). Le dialogue mis en œuvre par cette recherche permettra à tous, sans discriminations, d’exposer et argumenter la vérité reçue et découverte, afin d’en reconnaître l’importance pour la communauté humaine tout entière (cf. DH 3b[8]). Le sujet de la liberté religieuse n’est donc pas seulement l’individu, mais aussi la communauté et, en particulier, la famille. D’où le rappel de la nécessité de l’exercice de la liberté dans la transmission des valeurs religieuses à travers l’éducation et l’enseignement (cf. DH 4, 5, 13b). Pour ce qui concerne la famille et les parents, il est affirmé : « Chaque famille, en tant que société jouissant d’un droit propre et primordial, a le droit d’organiser librement sa vie religieuse à la maison, sous la direction des parents. À ceux-ci revient le droit de décider, selon leur propre conviction religieuse, de la formation religieuse à donner à leurs enfants. C’est pourquoi le pouvoir civil doit leur reconnaître le droit de choisir en toute liberté les écoles ou autres moyens d’éducation » (DH 5a).

20. Le troisième argument découle de la nature de la religion, que l’homo religiosus, en tant qu’être social, vit et manifeste dans la société à travers actes internes et culte public[9]. Le droit à la liberté religieuse s’exerce, en effet, dans la société humaine et permet à l’homme avant tout l’immunité à l’égard de n’importe quelle coercition extérieure pour ce qui touche au rapport avec Dieu (cf. DH 2, 3c-e, 4, 10, 11, 13). Les autorités civiles et politiques, dont la finalité propre est de prendre soin du bien commun temporel, n’ont aucun droit de s’ingérer dans les questions concernant la sphère de la liberté religieuse personnelle, qui demeure intangible dans la conscience de l’individu, ni non plus dans sa manifestation publique, à moins qu’il ne s’agisse d’une question d’ordre public juste, fondée, en tous les cas, sur des faits avérés et des informations correctes (cf. DH 1, 2, 5)

21. Le quatrième argument, enfin, concerne les limites du pouvoir purement humain, civil et juridique, en matière de religion. Il faut aussi que la religion elle-même ait une pleine conscience de la légitimité ou non de sa manifestation publique. En effet l’explicitation des limites de la liberté religieuse, en vue de la sauvegarde de la justice et de la paix, sont parties intégrantes du bien commun (cf. DH 3, 4, 7, 8) et implique les croyants eux-mêmes (cf. DH 7, 15).

La liberté religieuse après le Concile Vatican II

22. Avec le principe de la liberté religieuse désormais clairement défini en tant que droit civil du citoyen et des groupes à vivre et à manifester la dimension religieuse inhérente à l’homme, les Pères conciliaires laissent encore ouvert un approfondissement ultérieur. Ayant souligné les fondements, la déclaration Dignitatis Humanae favorise une maturation des points qui ressortent du document conciliaire. En effet aujourd’hui encore « il est des régimes, où, bien que la liberté de culte religieux soit reconnue dans la Constitution, les pouvoirs publics eux-mêmes s’efforcent de détourner les citoyens de professer la religion et de rendre la vie des communautés religieuses difficile et précaire. Saluant avec joie les signes favorables qu’offre notre temps, mais dénonçant avec tristesse ces faits déplorables, le saint Concile demande aux catholiques, mais prie aussi instamment tous les hommes d’examiner avec le plus grand soin à quel point la liberté religieuse est nécessaire, surtout dans la condition présente de la famille humaine » (DH 15b-c). C’est ainsi que cinquante ans plus tard les nouvelles menaces à la liberté religieuse ont pris des dimensions globales, mettant en danger aussi d’autres valeurs morales, et interpellent le Magistère pontifical dans ses principales interventions internationales, discours et enseignements[10]. Les Papes de notre époque laissent clairement entendre que ce thème, comme expression plus profonde de la liberté de conscience, pose, en amont, des questions anthropologiques, politiques et théologiques qui apparaissent maintenant décisives pour le sort du bien commun et de la paix entre les peuples du monde.

23. Pour saint Paul VI le droit à la liberté religieuse est une question liée à la vérité de la personne humaine. Doué d’intellect et de volonté, l’homme a une dimension spirituelle qui fait de lui un être d’ouverture, de relation, et de transcendance[11]. La vérité sur l’homme révèle qu’il cherche à franchir les limites de la temporalité, jusqu’à reconnaître qu’il créé par Dieu et, en tant que croyant, jusqu’à la conscience d’être appelé à participer à la Vie divine. Cette dimension religieuse est enracinée dans sa conscience, et sa dignité consiste précisément à correspondre à la vérité des impératifs moraux et à dialoguer avec les autres. Dans le contexte d’aujourd’hui le dialogue engage aussi les religions, qui doivent avoir des attitudes d’ouverture les unes à l’égard des autres, sans condamner a priori et en évitant les polémiques qui pourraient offenser injustement les autres croyants.

24. Saint Jean-Paul II affirme que la liberté religieuse, fondement de toutes les autres libertés, est une exigence inaliénable de la dignité de tout homme. Elle n’est pas un droit parmi d’autres mais constitue « la garantie de toutes les libertés qui fondent le bien commun des personnes et des peuples »[12]. Il s’agit d’une « pierre angulaire dans l’édifice des droits humains »[13] comme aspiration et tension vers une espérance plus haute, espace de liberté et de responsabilité. Par conséquent, la liberté de l’homme dans la recherche de la vérité et dans la profession des convictions religieuses doit trouver une garantie claire dans l’ordre juridique de la société ; autrement dit, elle doit être reconnue et sanctionnée par le droit civil. Il faut que les États s’engagent à travers des documents normatifs à reconnaitre le droit des citoyens à la liberté religieuse, base d’une convivance civile pacifique, élément substantiel d’une véritable démocratie, garantie nécessaire pour la vie, la justice, la vérité, la paix, et la mission des chrétiens et de leurs communautés[14].

25. On peut indiquer comme synthèse de la pensée de Benoit XVI sur la liberté religieuse le message pour la célébration de la Journée mondiale de la paix de 2011[15]. Il enseigne que le droit à la liberté religieuse s’enracine dans la dignité de la personne humaine comme être spirituel, relationnel et ouvert à la transcendance. Ce n’est donc pas un droit réservé aux seuls croyants mais il vaut pour tous, parce que synthèse et sommet des autres droits fondamentaux. Comme origine de la liberté morale, la liberté religieuse, si elle est respectée par tous, est le signe d’une culture politique et juridique qui garantit la réalisation d’un authentique développement humain intégral. C’est pourquoi elle promeut la justice, l’unité et la paix pour la famille humaine, favorise la recherche de la vérité qui se concentre sur Dieu, sur les valeurs éthiques et spirituelles, universelles et partagées, et enfin suscite le dialogue de tous pour le bien commun. C’est ainsi que se construit l’ordre social et pacifique. Au contraire, le fait de ne pas respecter la liberté religieuse à quelque niveau que ce soit de la vie individuelle, communautaire, civile et politique, offense Dieu, la dignité humaine elle-même, et crée des situations contraires à l’harmonie sociale. Malheureusement on enregistre encore dans le monde de fréquents épisodes de négation de la liberté religieuse qui se manifestent dans les formes équivoques de religion comme le sectarisme ou le fondamentalisme violent, dans la discrimination religieuse et aussi dans les manipulations idéologiques de type laïciste. Il y a donc besoin d’une laïcité positive des institutions étatiques pour promouvoir l’éducation religieuse, « route privilégiée pour donner aux nouvelles générations la possibilité de reconnaître en l’autre un frère et une sœur, avec qui marcher ensemble et collaborer »[16]. Les religions doivent, de leur côté, s’insérer dans une dynamique de purification et de conversion, œuvre de la droite raison éclairée elle-même par la religion.

26. Le pape François souligne que la liberté religieuse ne vise pas à préserver une « sous-culture » comme le voudrait un certain laïcisme, mais constitue un don précieux de Dieu pour tous, garantie fondamentale de toute autre expression de liberté, rempart contre les totalitarismes et contribution décisive à la fraternité humaine. Certains textes classiques des religions ont une force de motivation qui ouvre des horizons toujours nouveaux, stimule la pensée et fait grandir l’intelligence et la sensibilité. Ainsi peuvent-ils aussi offrir un sens pour toutes les époques. Les gouvernements doivent – parmi toutes leurs tâches – protéger et défendre les droits humains comme la liberté de conscience et religieuse. En effet, respecter le droit à la liberté religieuse rend une nation plus forte et la renouvelle. Pour cette raison, François porte une grande attention aux nombreux martyrs de notre temps, victimes des persécutions et des violences pour motifs religieux comme des idéologies qui excluent Dieu de la vie des individus et des communautés. Selon le Pontife, la religion authentique doit arriver, à partir de sa propre intériorité, à rendre compte de l’existence de l’autre pour favoriser un espace commun, un milieu de collaboration avec tous, dans la détermination de marcher ensemble, de prier ensemble, de travailler ensemble, de nous aider ensemble à établir la paix[17].

Un seuil de nouveauté ?

27. Face à certaines difficultés dans la réception de l’orientation nouvelle de Dignitatis Humanae, le Magistère postconciliaire a souligné la dynamique immanente au processus de l’évolution homogène de la doctrine, que Benoit XVI a désignée comme « ‘herméneutique de la réforme’, du renouveau dans la continuité de l’unique sujet-Église »[18]. La déclaration elle-même en anticipait le sens : « Cette doctrine, reçue du Christ et des Apôtres, l’Église l’a donc, au cours des temps, gardée et transmise. Bien qu’il y ait eu parfois dans la vie du peuple de Dieu, cheminant à travers les vicissitudes de l’histoire humaine, des manières d’agir moins conformes, bien plus même contraires à l’esprit évangélique, l’Église a cependant toujours enseigné que personne ne peut être amené par contrainte à la foi » (DH 12, §1). Le texte conciliaire ramène donc à son donné fondamental l’enseignement du christianisme selon lequel on ne doit pas contraindre à la religion parce que cette contrainte n’est pas digne de la nature humaine créée par Dieu et ne correspond pas à la doctrine de la foi professée par le christianisme. Dieu appelle à Lui tout homme, mais ne contraint personne. C’est pourquoi cette liberté devient un droit fondamental que l’homme peut revendiquer en conscience et de façon responsable vis-à-vis de l’État.

28. Telle est la dynamique de l’inculturation de l’Evangile qui est une libre immersion de la Parole de Dieu dans les cultures pour les transformer de l’intérieur, en les éclairant à la lumière de la Révélation, de telle façon que la foi elle-même se laisse interpeller par les réalités historiques contingentes – interculturalité – comme point de départ pour pouvoir discerner des significations plus profondesde la vérité révélée, laquelle doit à son tour être reçue dans la culture du contexte[19].

3. Le droit de la personne à la liberté religieuse

29. Dans l’anthropologie chrétienne, chaque personne individuelle est toujours en relation avec la communauté humaine, depuis sa conception et tout du long de la maturation de sa vie : « Lorsqu’on parle de la personne, on fait référence à l’identité irréductible et à l’intériorité qui constituent l’être individuel particulier, ainsi qu’à la relation fondamentale avec d’autres personnes qui est le fondement de la communauté humaine »[20]. Cette relation, dans laquelle se façonne historiquement la qualité humaine de l’individu et de la société, est une dimension propre de l’existence humaine et de sa condition spirituelle elle-même. Le bien de la personne et le bien de la communauté ne doivent pas être compris comme des principes opposés, mais comme finalités convergentes de l’engagement éthique et du développement culturel.

30. Le dialogue sur la vérité recherchée par tous et sur le bien désiré par tous, dans l’horizon de la convivance, nous engage par conséquent à développer les conditions les meilleures pour penser et pratiquer la vérité sur l’anthropologie et sur les droits de la personne dans le dialogue. Nous devons certainement faire davantage, puisqu’il s’agit de la question culturelle probablement la plus décisive pour renouer les liens de la civilisation moderne, de l’économie et de la technique avec l’humanisme intégral de la personne et de la communauté. C’est aussi une question cruciale pour la crédibilité humaine de la foi chrétienne, qui reconnait dans le dévouement pour la justice de cet humanisme intégral un témoignage d’importance universelle pour la conversion de l’esprit et du cœur à la vérité de l’amour de Dieu.

La discussion sur les fondements théoriques

31. La réaction contre l’expérience traumatisante des totalitarismes qui au XXème siècle ont massacré les individus au nom du pouvoir de l’État, considéré comme un absolu dans lequel les personnes sont absorbées comme fonctions et instruments de sa réalisation, joue un rôle central dans le développement et la défense actuelle des droits inaliénables de chaque individu. Dans ce cadre, le droit à la liberté religieuse apparait comme un des droits fondamentaux de toute personne humaine[21]. Presque tout le monde s’accorde sur le fait que les « droits fondamentaux de l’homme » sont fondés sur la « dignité de la personne humaine ». Mais la nature de cette dignité est objet de discussion et d’opposition. Ce fondement transcende–t-il objectivement l’auto-détermination humaine ou bien dépend- il exclusivement de la reconnaissance sociale ? Est-il d’ordre ontologique ou bien de nature purement légale ? Quel est son rapport avec la liberté des choix personnels, avec la sauvegarde du bien commun, avec la vérité de la nature humaine ? Faute d’un consensus – ou du moins d’une orientation commune – quant à l’identification des critères de l’exercice juste des droits à la liberté religieuse, le caractère arbitraire des pratiques et le conflit des interprétations va devenir ingérable pour la société civile (et dangereux pour la communauté humaine). Le risque est redoublé dans les sociétés dans lesquels l’ouverture religieuse à la transcendance n’est plus perçue comme un élément unifiant pour la confiance partagée à l’égard du sens de la condition humaine, mais plutôt comme la survivance historique d’une vision archaïque et désormais révolue.

Dignité et vérité de la personne humaine

32. L’incipit de Dignitatis Humanae rattache les droits de la personne humaine, et spécialement le droit à la liberté religieuse, à la dignité de la personne humaine. En un sens très général, la dignité renvoie à l’inaliénable perfection de l’être-sujet dans l’ordre ontologique moral ou social[22]. La notion est employée dans l’ordre moral des relations intersubjectives pour désigner ce qui possède une valeur en soi-même et ne peut par suite jamais être traité comme s’il n’était qu’un simple moyen. La dignité est donc une propriété inhérente à la personne comme telle.

33. Dans la perspective de la métaphysique classique, intégrée et réélaborée par la réflexion chrétienne, la personne a été définie traditionnellement, eu égard à sa singularité irréductible et à sa dignité individuelle, comme « une substance individuelle de nature rationnelle »[23]. Tous les individus qui, en vertu de leur filiation biologique, appartiennent à l’espèce humaine participent de cette nature. Chaque individu de nature humaine, par conséquent, quel que soit l’état de son propre développement biologique ou psychologique, quel que soit son sexe ou son ethnie, réalise la notion de personne et appelle de la part des autres le respect absolu qui lui est dû. La nature humaine dans son irréductibilité est située à l’horizon du monde spirituel et du monde corporel[24]. La dignité de la personne humaine concerne donc également le corps qui en est dimension constitutive et « participe à l’imago Dei »[25]. Le corps ne peut pas être traité comme un simple moyen ou un instrument, comme s’il n’était pas une dimension intégrante de la dignité personnelle. Le corps partage le destin de la personne et sa vocation à la divinisation[26].

34. La dimension intrinsèquement personnelle de la nature humaine se déploie dans l’ordre moral comme capacité de s’autodéterminer et de s’orienter vers le bien, c’est-à-dire comme liberté responsable. Cette qualité constitue radicalement la dignité de la nature humaine, objet de responsabilité et de soin pour la communauté humaine tout entière. « Il existe aussi une écologie de l’homme. L’homme aussi possède une nature qu’il doit respecter et qu’il ne peut manipuler à volonté. L’homme n’est pas seulement une liberté qui se crée de soi. L’homme ne se crée pas lui-même »[27]. Depuis le commencement, en effet, l’homme et la femme se découvrent ultimement eux-mêmes comme donnés à soi-même par Dieu à travers leurs parents. Cet « être-donné » requiert d’être reçu, en s’intégrant avec le développement de la conscience. Il ne constitue pas une limite pour la liberté de se réaliser soi-même, mais représente plutôt la condition qui oriente la liberté en tant qu’« être-don » pour l’autre. Cette reconnaissance originaire barre la route à une conception auto-référencée de l’individualité, en orientant la construction de la personne vers le développement partagé de la réciprocité.

35. « Dans la tradition théologique chrétienne, la personne présente deux aspects complémentaires »[28]. La notion de personne « renvoie à l’unicité d’un sujet ontologique qui, étant de nature spirituelle, jouit d’une dignité et d’une autonomie qui se manifeste dans la conscience de soi et la libre maîtrise de son agir »[29]. Ce même sujet spirituel « se manifeste dans sa capacité à entrer en relation : la personne déploie son action dans l’ordre de l’intersubjectivité et de la communion dans l’amour »[30]. La nécessité de rendre plus parfaitement évidente la raison métaphysique du lien originaire entre être-individuel et être-relationnel, qui s’est affirmée à l’intérieur de l’intelligence de la foi, a produit des développements qui ont enrichi de façon décisive la pensée chrétienne et ses potentialités de dialogue avec la culture moderne. La philosophie, la science, l’anthropologie sociale de la modernité, de leur côté, en accueillant aussi la sollicitation même de la vision chrétienne originaire, ont donné une vigoureuse impulsion aux structures de l’être personnel – notamment, conscience et liberté – en les identifiant comme dimensions constitutives de la nature humaine.

36. Dans cette mise en valeur moderne de la singularité humaine, les dimensions de l’historicité et de la praxis ont acquis un relief inédit par rapport à la tradition précédente. Cette légitime mise en valeur, dans ses multiples interprétations, ne s’est pas effectuée sans contradictions, qui se reflètent maintenant en bien des processus de la société et de la culture contemporaine. Par exemple, dans l’accent mis sur l’instance inconditionnelle de la liberté individuelle dans le domaine politique, affectif, moral, en un contexte où apparaît de plus en plus forte la prise en compte scientifique des conditionnements impersonnels et matériels qui déterminent les pensées, les sentiments, les décisions. La théologie, de son côté, dès avant le Concile Vatican II, avait déjà commencé à se confronter, à la lumière de la Révélation, avec les instances de la nouvelle culture anthropologique. Soit en considérant plus profondément la vocation divine de chaque personne individuelle à la responsabilité de se réaliser elle-même à travers son agir historique. Soit en explorant plus profondément la qualité sociale de l’être personnel, appelé à se définir lui-même par rapport à Dieu, aux autres hommes, au monde et à l’histoire.

L’être-personne est inhérent à la condition humaine

37. Dans ce cadre dialectique, on pourrait résumer synthétiquement le point anthropologique central du document conciliaire.Dignitatis Humanae établit le lien radical des droits inviolables de l’homme, et donc de sa liberté individuelle, avec la nature même de son être-personne. Il y a en effet un unique critère pour la reconnaissance effective de l’a priori personnel : l’appartenance biologique au genre humain. La dignité personnelle, et les droits humains qui lui sont inhérents, sont déjà inscrits de façon inconditionnelle dans cette appartenance. L’être-personne, en ce sens, n’est pas une attribution liée à une qualité ou un don spécifique de l’être humain, comme le fait d’être conscient ou la capacité d’auto-détermination. Il ne s’agit pas non plus d’une potentialité ou d’un effet de sa maturation. La dignité personnelle est déjà radicalement inhérente à chaque individu, comme facteur constitutif de sa condition humaine : celle-ci est la matrice de toute qualité individuelle, de toute condition existentielle, de tout degré de développement. L’exister personnel évolue et se développe, certes ; l’être–personne cependant n’est pas quelque chose que chacun peut s’ajouter à lui-même (ou à quelqu’un d’autre). Il n’y a pas de processus de l’être humain par lequel « quelque chose » devient « quelqu’un » : on est toujours et inséparablement être-humain et être-personne, parce qu’on ne devient pas humain si on est quelque chose d’autre. Et la manière humaine d’être est d’être individualité personnelle.

38. La reconnaissance de l’être-personne, comme dimension inhérente à chaque être humain individuel, fonde la communauté des êtres humains, à l’intérieur de laquelle chacun occupe une place irrévocable et se pose comme titulaire de droits inaliénables. En ces termes, on peut dire que les droits de la personne sont les droits de l’homme. La communauté humaine qui prétendrait exproprier l’individu de sa qualité humaine-personnelle, commencerait donc à ce moment même à violer sa propre dignité et à se détruire elle-même : aussi bien en tant que communauté qu’en tant qu’humaine. D’un autre côté, il apparaît également clair que la reconnaissance de l’inaliénable qualité personnelle de tout être humain est le principe même de l’appartenance à l’humanité de chaque individu. Et justement cette appartenance, qui rend légitime le projet d’une pleine réalisation de soi, n’est pas livrée à son arbitraire, mais à sa responsabilité envers l’humain, qui est commun. Et donc envers tous. La reconnaissance et la pratique de la communauté humaine, en tant qu’humaine et constituée de personnes, est précisément la manière dont chacun réalise et honore sa propre et irréductible qualité personnelle humaine. Dans cette perspective, il apparaît définitivement clair que le respect de la dignité personnelle de l’individu et la participation de l’individu à la construction communautaire de l’humain se correspondent radicalement.

39. L’engagement à soutenir une conception relationnelle de l’être personnel revêt pour cela une importance spéciale, en développant une réflexion anthropologique en mesure de corriger de façon convaincante les visions individualistes du sujet[31]. D’autre part, non seulement les orientations les plus importantes de la pensée philosophique récente, mais aussi des courants majeurs du savoir politique, économique et même scientifique, convergent de façon significative pour mettre en lumière de la dimension constitutive des dynamiques relationnelles. L’interaction et la réciprocité qui caractérisent l’existence personnelle correspondent à la condition profonde de la singularité humaine, dans la vie du corps comme dans celle de l’esprit. La personne se manifeste dans toute sa beauté justement à travers sa capacité de se réaliser en relation avec l’intériorité spirituelle dans l’ordre des rapports intersubjectifs et dans celui de la nature du monde. Il n’est point besoin de souligner ici l’importance fondamentale qu’assume la communion entre les personnes, finalisée ultimement par la vérité de l’amour, dans la vision chrétienne de la personne et de la communauté[32].

La médiation de la conscience

40. Cette vérité de la condition humaine interpelle la personne au moyen de la conscience morale, c’est-à-dire du « jugement de la raison par lequel la personne humaine reconnaît la qualité morale d’un acte concret qu’elle va poser, est en train d’exécuter ou a accompli »[33]. La personne ne doit jamais agir contre le jugement de sa propre conscience – qu’elle a la responsabilité de former de manière droite avec toutes les aides nécessaires. Ce serait de sa part consentir à agir contre ce qu’elle croit être l’exigence du bien, et par conséquent, en dernière analyse, la volonté de Dieu[34]. Parce que c’est Dieu qui nous parle dans ce « centre le plus secret de l’homme, le sanctuaire où il est seul avec Dieu »[35]. Agir contre le jugement de sa propre conscience, correctement formée, est moralement erroné. Au devoir moral de ne pas agir contre le jugement de sa propre conscience, même invinciblement erronée, correspond le droit de la personne à n’être jamais contrainte par personne à agir contre sa propre conscience, spécialement en matière religieuse. Les autorités civiles ont le devoir corrélatif de respecter et de faire respecter ce droit fondamental dans les justes limites du bien commun.

41. Le droit de ne pas être contraint à agir contre sa propre conscience est en profonde harmonie avec la conviction chrétienne que l’appartenance religieuse se définit essentiellement par une attitude – la foi – qui, de par sa nature, ne peut pas ne pas être libre. Cette insistance chrétienne sur l’indispensable liberté de l’acte de foi a vraisemblablement joué un rôle de premier plan dans le processus historique d’émancipation de l’individu dans la première modernité. « L’obéissance de la foi » (Rm 1,5) est une libre adhésion de la personne au dessein d’amour du Père qui, par le Christ et dans la puissance de l’Esprit, invite tout homme à entrer dans le mystère de la communion trinitaire. L’acte de foi est l’acte par lequel « l’homme s’en remet tout entier et librement à Dieu […] dans un assentiment volontaire à la révélation qu’il fait »[36]. Ainsi, malgré les comportements historiques des chrétiens en sérieuse contradiction avec sa doctrine constante [37], l’Église sait que Dieu respecte la liberté de l’agir humain et son insertion dans les processus de la vie et de l’histoire. En défendant la liberté de l’acte de foi, l’Église offre à tous les hommes un haut témoignage : s’il est vrai que la liberté grandit avec la vérité, il tout aussi évident que la vérité a besoin d’un climat de liberté pour s’épanouir (cf. Jn 8,32).

42. En effet, à bien y réfléchir, la liberté de la foi est le modèle le plus élevé que l’on puisse concevoir pour la dignité de l’homme. Dans ce cadre on comprend que l’Église interprète sa mission fondamentale en termes de rachat de la liberté à l’égard de la puissance du péché et du mal, qui veut convaincre la créature de l’impossibilité de l’amour de Dieu. Le soupçon insinué par le serpent malin dont parle le livre de la Genèse (cf. Gn 3), enferme l’être humain dans la pensée d’une secrète hostilité de Dieu. Cette corruption de l’image de Dieu engendre conflit entre les êtres humains, étouffe la liberté, détruit les relations. L’image despotique de Dieu, insinuée par la tromperie du malin, se reflète en tous le rapports humains (en commençant par celui entre l’homme et la femme) et donne naissance à un histoire de violence et d’assujettissement, qui conduit à la dégradation de la dignité personnelle et à la corruption du lien social[38]. La doctrine sociale de l’Église affirme explicitement que le centre et la source de l’ordre politique et social ne peut être que la dignité de la personne humaine, inscrite dans la forme de la liberté[39]. Il s’agit d’un principe absolu, inconditionnel. Cette approche converge, sur ce point, avec un principe universellement accepté par la modernité philosophique et politique : la personne humaine ne peut jamais être considérée simplement comme un moyen, mais comme une fin[40].

4. Le droit des communautés à la liberté religieuse

Dimension sociale de la personne humaine

43. La conception chrétienne des droits de la personne – qui trouverait des échos dans l’anthropologie explicite ou implicite d’autres traditions religieuses – affirme que la liberté inhérente au sujet humain est appelée à vivre dans la responsabilité pour le bien de tous. Cependant elle n’a aucune possibilité de grandir en force et sagesse sans la médiation de relations humanisantes qui aident cette liberté à s’engager, à s’éduquer, à s’affermir et aussi à se transmettre, au-delà des aliénations où l’individualité pure, ravalée à l’individualisme, ne peut que végéter. En d’autres termes, aucune personne, de fait, ne vit seule dans l’univers, mais elle est toujours ensemble avec d’autres, avec lesquels elle est appelée à constituer une communauté[41]. Il a été reconnu depuis longtemps que nous ne pourrions jamais juger si une chose est meilleure par rapport à une autre si une conscience élémentaire de la vérité n’avait été déjà instillée en nous. Le jugement de la conscience sur la rectitude de l’agir est élaboré sur la base de l’expérience personnelle, à travers la réflexion morale ; et ce jugement se définit par rapport à l’ethos communautaire qui instruit et qui rend manifeste la valeur des comportements vertueux conformes à la vérité de l’humain[42]. En ce sens, les communautés d’appartenance (famille, nation, religion) précèdent l’individu pour l’accueillir et l’assister dans la grande aventure anthropologique de sa personnalisation intégrale[43]. Ici se vérifie la forme historique et sociale de réalisation de la nature humaine, qui comporte un mouvement d’intégration réciproque entre vérité et liberté.

44. La reconnaissance de l’« égale dignité » des personnes, en tout cas, ne se résout pas dans la simple formulation juridique des « droits égaux ». Une conception trop abstraite et formelle de l’égalité juridique des individus, dans le cadre de la légalité institutionnelle, tend à ignorer la richesse des différences qui peuvent et doivent être valorisées et mises en relation comme source de richesse humaine, et non neutralisées comme si elles étaient, en elles-mêmes, fondement de discrimination et exténuation de l’identité. D’un autre côté, il convient de distinguer les différences qui structurent la condition humaine de l’arbitraire des inclinations subjectives privées. L’État qui se bornerait à enregistrer ces désirs subjectifs, en les transformant en liens juridiques, sans aucune considération du rapport avec le bien commun risquerait d’affaiblir le soutien institutionnel qui est dû aux raisons éthiques qui protègent le lien social[44]. La protection de l’humain, qui est notre bien commun le plus précieux, est de cette façon exposée à une inévitable érosion, qui finit par faire tort aussi à l’individu[45]. En particulier, nous le reconnaissons aujourd’hui avec une évidence qui n’a pas été aussi forte à d’autres époques, l’égale dignité de la femme doit se traduire par la pleine reconnaissance des droits humains égaux. De fait, « la Bible n’apporte aucun appui à l’idée d’une supériorité naturelle du sexe masculin sur le sexe féminin »[46]. Bien qu’on puisse reconnaître clairement dans le texte vétérotestamentaire (cf. Gn 2,18-25), comme aussi dans les paroles et l’attitude de Jésus (Cf. Mt 27, 55 ; 28, 6 ; Mc 7, 24-30 ; Lc 8, 1-3 ; Jn 4, 1-42 ;11, 21-27 ; 19, 25), l’égale dignité de la créature de Dieu, en vertu de laquelle la réciprocité doit mettre en valeur et non éliminer la différence de son être « homme et femme »[47], l’élaboration concrète et universelle de ce principe ne fait que commencer, non seulement dans la pensée chrétienne, mais encore dans la culture civile[48].

Subsidiarité et récit fondateur

45. L’évacuation procédurale des institutions conduit à ignorer le rôle humanisant propre à la famille, dans laquelle le lien intime de l’homme et de la femme assure une continuité personnelle dans la génération et l’éducation des enfants. L’unité – biologique et spirituelle – de cette introduction à la condition humaine et à l’identité personnelle, dans un milieu primordial de réciprocité et de responsabilité affective, constitue une prémisse indispensable pour l’acquisition du sens humain de la socialité[49]. La société entière vit de ce fondement : l’expérience millénaire des communautés humaines, dans l’extrême variété de leurs cultures, en sait très bien le caractère irremplaçable.

En second lieu, l’obsession d’une parfaite neutralité éthique – qui tend vers l’agnosticisme – à l’égard de la vision religieuse du sens, incline inévitablement la légalité institutionnelle à prendre ses distances par rapport à tout l’univers symbolique de la communauté civile, c’est-à-dire de la culture proprement humaine. Toute communauté religieuse puise à cette matrice symbolique et s’exprime en la mettant en lumière et en l’interprétant. L’indifférence de l’État le rend progressivement étranger aux fonctions symboliques dont se nourrit l’appartenance sociale et il devient de plus en plus incapable de les comprendre, et donc de les respecter, comme il déclare vouloir le faire.

46. L’expérience religieuse est gardienne du niveau de réalité où la convivance sociale vit et affronte les thèmes et les contradictions qui sont propres à la condition humaine (l’amour et la mort, le vrai et le juste, ce qu’on ne peut comprendre et ce qu’on peut espérer). Le témoignage religieux est le gardien de ces thèmes de la vie et du sens avec toute leur mystérieuse profondeur. La religion en effet explicite et maintient la transcendance des fondements éthiques et affectifs de l’humain : elle les soustrait au nihilisme de la volonté de puissance et les restitue à la foi dans l’amour de l’Autre. L’unité indissoluble de l’amour de Dieu et du prochain, scellée dans la foi chrétienne, confère au récit familial de la justice et de la destinée des affections l’horizon de l’unique vérité de l’espérance réellement à la hauteur des promesses de la vie.

Pratiques religieuses et humanité concrète

47. La promesse d’un rachat éternel pour l’aventure des affections humaines, qui correspond à l’espérance qu’elles seront justifiées et sauvés –au-delà même de toute espérance humaine – barre la route à un mélancolique repli sur soi individualiste et matérialiste de la condition humaine et de la culture civile elle-même. L’universelle mémoire affective des défunts, qui a été – et demeure – une caractéristique de la communauté religieuse, démontre la force de la fidélité au caractère irrévocable des liens humains. En eux quelque chose d’inachevé demeure en attente de rachat, même lorsqu’ils sont défiés par la mort. La tradition la plus ancienne de l’humanité atteste que l’humain est originairement disposé à accueillir une vérité transcendante des langages symboliques de la vie, qui résiste spontanément à sa réduction biologique et ouvre ses liens au mystère de la vie divine. D’autre part, dans les conditions-limite des événements tragiques qui bouleversent la vie et ses liens, même dans beaucoup d’États sécularisés on fait place publiquement à la vérité symbolique de la célébration religieuse. Lorsqu’une catastrophe de grande envergure frappe la communauté civile, la fermeté de la résistance religieuse au nihilisme de la mort apparaît à tous comme un irremplaçable rempart d’humanité. La justice des affections de la famille et de la communauté, qui apparaît inaccessible à l’impuissance des ressources humaines, ne renonce pas à son espérance, qui ne peut qu’être confiée à la justice et à l’amour du Créateur. Dans de tels cas, le thème du sens et de la destinée ultime de l’humain apparaît en toute son évidence de question publique. Et la « forme religieuse » de cette reconnaissance se légitime pour ainsi dire d’elle-même, comme une véritable « fonction publique », même dans le cadre de l’État laïc.

48. Le récit national, dans lequel les destinées individuelles tentent de s’inscrire à travers la succession des générations – pour trouver leurs racines et leur identité profonde avant et au-delà de la forme spécifique de l’État – est aujourd’hui un défi de géopolitique globale. S’il est vrai – et il est vrai – que la liberté et la dignité des personnes ne peuvent être façonnées que par les traditions et les récits qui les expriment et les actualisent, alors il est urgent que le récit national parvienne à s’enrichir, en acceptent la complexité et la différenciation de leurs apports, moyennant le récit familial de chaque citoyen, en référence au récit global de l’universel humain. Donc, directement ou indirectement, également à travers le récit particulier de la communauté religieuse[50]. Pour cette raison, ceux qui, ne connaissant désormais plus le christianisme, le confondent avec une idéologie, un moralisme, une discipline, ou bien avec une superstructure archaïque, ne pourront être approchés de nouveau qu’à travers une rencontre familiale–humaine, où l’on peut écouter le récit de l’histoire qui a permis de reconnaitre Dieu et dans laquelle on doit garder les générations qui se suivent : « Lorsqu’à l’avenir ton fils te demandera : ‘Que signifient ces instructions, ces lois et ces normes que le Seigneur notre Dieu vous a données ? tu répondras à ton fils : ‘Nous étions esclaves de Pharaon en Egypte et le Seigneur nous fit sortir d’Egypte (…) Il nous fit sortir de là pour nous conduire au pays qu’il avait juré à nos pères de nous donner. Alors le Seigneur nous ordonna de mettre en pratique toutes ces lois, de craindre le Seigneur notre Dieu pour que nous ayons du bonheur et qu’il nous garde en vie’ » (Dt 6, 20-24).

Éducation intégrale et incorporation à la communauté

49. La libre adhésion à la personne de Jésus, à ses paroles et à ses gestes, est vécue à travers une communauté, l’Église, dans laquelle la relation de chacun des croyants avec le Christ présent est rendue existentiellement possible et se déploie socialement dans la communion ecclésiale [51]. Ainsi, l’existence chrétienne unit-elle la liberté individuelle de l’acte de foi et l’insertion dans une tradition communautaire, comme les deux faces d’un même dynamisme personnel. L’évocation de cette généalogie de la foi chrétienne nous ramène à la conviction, essentielle dans l’optique anthropologique, que la liberté humaine, protégée par la reconnaissance des droits humains, ne peut être réalisée de façon spontanée et individualiste. Les hommes libres viennent à la lumière dans la relation avec d’autres qui ont déjà conquis plus de liberté, et apprennent de ceux qui sont davantage libres à corriger en eux-mêmes tout ce qui demeure encore en dépendance des pulsions, des conditionnements, des contraintes conformistes, de l’auto-confirmation narcissique. Quelles que soient les qualifications – ‘démocratique’, ‘libéral’, ‘pluraliste’ – avec lesquelles l’État moderne entendait se définir comme structure solide et pérenne, naturelle et historique, dans laquelle les citoyens peuvent développer leurs droits humains, il est essentiel de comprendre de quelle manière ce processus peut être soutenu et régulé de la façon la plus juste et efficace.

50. En d’autres termes, il s’agit de spécifier de quelle manière ces formules générales sont en mesure d’assumer le mouvement de la vie et la participation à la citoyenneté, dans des conditions aptes à harmoniser les différences des processus d’humanisation et l’unité de l’histoire qui engendre la communauté nationale [52] . Il n’y a pas un seul État qui puisse garantir d’une autre manière les communautés qui le composent, et à travers elles, la vitalité de sa « démocratie » comme bien commun[53]. Dans le cas contraire, même les formules les plus nobles demeureront de pures paroles, voire même deviendront des fétiches bien plus trompeurs et vains que les arcana imperii d’antan. La conception chrétienne du bon gouvernement inclue l’idée que la liberté humaine n’a pas en elle–même sa propre fin, comme si son sens et son achèvement coïncidaient avec l’arbitraire illimité et indéterminé de toutes les possibilités de l’affectivité et du vouloir. La fin de la liberté réside plutôt dans sa cohérence avec la dignité humaine de l’affectivité et du vouloir, qui se tourne toujours vers la qualité du bien par rapport auquel elle se détermine.

51. La qualité humaine, personnelle et relationnelle, qui se réalise à travers la liberté instruite par la raison et par la révélation du bien, est la fin propre de la liberté humaine. C’est à partir de là que se mesure son progrès dans la manière de construire l’histoire et d’habiter la terre. Cette idée est aujourd’hui incluse dans l’expression bien connue de « écologie humaine », à savoir l’engagement pour une organisation de la vie et de l’habitat humain cohérente avec les raisons suprêmes (naturelles et divines) de son origine et de sa destination. C’est pour cela qu’on a élargi l’expression jusqu’à proposer une « écologie intégrale » qui embrasse clairement ses dimensions humaines et sociales [54]. Dans la vision chrétienne qui a inspiré de nouvelles voies dans l’histoire de la liberté et de la responsabilité humaine par rapport à la constitution et à la destinée de la personne, la liberté est certainement le reflet merveilleux du geste créateur de Dieu à l’égard de l’homme et de la femme. Le passage à travers la conscience et la liberté est fondamental pour la sauvegarde et l’accroissement de la dignité de la créature, et en ce sens il est une condition essentielle pour la réalisation de l’histoire du salut. Le libre vouloir et l’affection intime de l’être humain dans la relation avec Dieu, décide de la qualité salvifique de l’histoire humaine, conçue comme projet d’alliance et de communion avec un Dieu qui veut être cru et aimé et pas seulement subi passivement.

La valeur des corps intermédiaires et l’État

52. Pour élargir cette réflexion sur la dimension sociale on peut encore rappeler l’importance spécifique de ce que l’on appelle les ‘corps intermédiaires’, c’est-à-dire des formations sociales qui se présentent et s’auto-représentent dans des secteurs ou des lieux déterminés de la société civile[55]. En tant que tels, ils assurent une fonction de médiation entre les droits personnels et le gouvernement de l’État. Il faut les distinguer des groupes d’opinion ou de revendication (comme par exemple les lobbies de pression ou les groupes de class action), qui entendent procurer des avantages exclusivement au groupe de conviction et d’agrégation, sans égard pour le bien commun. Les corps intermédiaires exercent une médiation active vis-à-vis de l’État avec des fonctions de subsidiarité institutionnelle et dans l’intérêt du bien commun[56].

53. L’Église catholique refuse d’être identifiée à un sujet d’intérêt privé qui se bat pour affirmer se privilèges. La mission de l’Église est l’évangélisation qui annonce la justice de l’amour universel de Dieu et ne se laisse pas réduire à un intérêt politique partisan. Par conséquent, sa contribution à la bonne culture et aux pratiques de l’éthique publique passe à travers le lien social et la participation à la vie civile. La valeur publique de cette médiation renvoie à l’intérêt pour le bien commun et au souci pour l’humanisme politique. En ce sens on peut dire que l’Église est principe animateur d’institutions intermédiaires, qui concourent loyalement à soutenir l’éthique publique et le lien social à l’intérieur des possibilités et des limites du gouvernement étatique sur le plan national et aussi sur le plan international. Partant, elle ne s’identifie pas comme un simple groupe d’opinion ou de pression. Elle ne se place pas non plus en compétition avec l’État dans la fonction de gouvernement de la société civile. Dans cette perspective, qui refuse de toutes façons le modèle du gouvernement théocratique, l’Église contribue, même d’un point de vue méthodologique, à définir le cadre correct de la liberté religieuse dans la sphère publique. L’instance de liberté en laquelle l’Église s’inscrit idéalement prend, en effet, ses distances par rapport au modèle d’un multiculturalisme agnostique, qui accepte la pure autoréférentialité des corporations idéologiques ou religieuses, en les excluant en même temps de toute légitime fonction médiatrice – éthique, culturelle, communautaire – entre citoyenneté active et gouvernement de l’État.

L’État, la toile et les communautés de conviction

54. Après le développement des communications à travers internet et les réseaux sociaux, on peut entrevoir les potentialités des nouvelles ressources technologiques pour l’interaction entre les hommes. Le thème est bien connu et sa complexité requiert une attention constante. Les réseaux de l’information moderne donnent un relief exceptionnel aux manifestations des religions, mais diffusent aussi, et amplifient, des théories et des pratiques qui leur sont attribuées indûment. La facilité et la rapidité d’intervention sur la plateforme de la toile, à bien des niveaux, ouvre des potentialités de participation sociale inaccessibles jusqu’à hier. Nous ne pouvons qu’apprécier ces nouvelles possibilités. Néanmoins, elles favorisent un style d’interaction émotif, d’une intensité croissante, comme le soulignent désormais les observateurs. L’apparente liberté des formes de l’expression individuelle online, jointe à la difficulté grandissante de vérifier la fiabilité des contenus, favorise des phénomènes de massification de fausses nouvelles (fake news) et de polarisation de la violence persécutrice (haters). Tous ces éléments rendent ambivalente la valeur des effets d’information/discussion, et de consensus/désaccord, qui caractérisent la participation à cette nouvelle agora. Leur poids ne saurait être sous-estimé, même du point de vue des effets de type politique et social.

55. La liberté d’expression et la responsabilité de la participation peuvent facilement être dissociées dans le milieu de l’interaction online, exposant les personnes et les collectivités à de nouvelles formes de pression, qui au lieu de favoriser une éthique de la liberté réfléchie et partagée, peuvent servir à une manipulation plus subtile de l’ethos. Dans ce nouveau cadre, les formes expressives de la religion sont parmi les plus exposées à l’émotivité incontrôlée et au malentendu piloté. Avec le temps, la communauté globale apprendra les règles qui conviennent à la gestion des formes de ce nouvel échange privé-publique. Dès maintenant, il faut que la communauté chrétienne soit capable d’identifier des instruments d’éducation qui répondent de façon adéquate au caractère envahissant de la sphère médiatique dans les processus de la construction de l’ethos relationnel et de la formation du consensus politique[57]. En ce sens, la communauté chrétienne doit porter une attention spéciale à la nécessité de ne pas se laisser enfermer médiatiquement dans l’image d’une corporation partisane, d’un lobby de pression, d’une idéologie de pouvoir en compétition avec le légitime gouvernement de l’État de droit et de la société civile.

5. L’État et la liberté religieuse

Christianisme et dignité de l’État

56. En termes généraux, déjà la révélation de l’Ancien Testament affirme toujours clairement la priorité de la souveraine seigneurie de Dieu comme objet de la libre obéissance de la foi dans la logique de l’alliance exclusive avec Dieu (cf. Dt 6, 4-6). Cependant, elle ne fait pas de cette obéissance une alternative à la constitution d’un légitime pouvoir de gouvernement du peuple, qui répond à des règles intrinsèques à la constitution de cadres institutionnels – politiques, économiques, juridiques – dotés de leur rationalité d’exercice, en correspondance avec toutes les formes normales de développement des fonctions d’administration et d’organisation de la « nation ». De fait, la forme instituée du gouvernement du peuple de Dieu dans l’histoire connaît des formes diverses d’organisation et d’exercice (depuis la fédération des tribus jusqu’à la formalisation de la [double] monarchie). Dans ce cadre, même s’il est conditionné par l’étroite conjonction de la dimension politico-institutionnelle et de la dimension théologico-cultuelle, caractéristique de toutes les civilisations antiques, on peut remarquer deux aspects importants. Le premier réside justement dans le fait que le lien de l’obéissance de la foi vis-à-vis des commandements de Dieu est solidement enraciné dans la forme de l’alliance, comme libre choix de suivre Dieu. D’autre part, la fidélité à l’alliance, et donc l’observation de la loi divine, passe à travers la liberté d’une décision, toujours renouvelée, de veiller à la cohérence du commandement de Dieu avec le souci pour le bien commun du peuple (cf. Dt 7, 7-16 ; Jr 11,1-7). Cette même alliance doit par conséquent être toujours alimentée de la fidélité du cœur et de la pratique de la justice.

57. C’est la fidélité même à l’esprit de l’Alliance qui requiert de ne pas se transformer dans le privilège d’une élection qui dispense de l’observation de la justice économique, du bien commun, du respect réciproque, de la convivance solidaire. Dans l’histoire de l’ancienne alliance, une certaine distinction entre pouvoir politique et institutions religieuses apparaît durant la période des rois. Le pouvoir politique du roi est distinct du pouvoir religieux du prêtre, même si c’est au roi que revient ensuite le privilège de nommer le grand-prêtre, et si le prêtre garde une influence pratique à l’égard du roi (cf. 2 R 11-12). Lorsque la domination étrangère (Nabuchodonosor) abolit la royauté, se produit une concentration du pouvoir civil et religieux en la personne du grand-prêtre comme personne de confiance : mais demeure une certaine distinction entre les fonctions proprement politiques et les prérogatives spécifiquement religieuses[58]. L’exigence d’harmoniser la fidélité à Dieu et à ses commandements avec la pratique de la justice et de la solidarité dans le cadre de la vie sociale représente néanmoins l’inspiration profonde du code d’une conduite de la vie politique cohérente avec les principes de l’alliance avec Dieu. Lorsque les prophètes dénonceront l’injustice sociale et la corruption politique, l’intimidation violente et la prévarication économique, ils stigmatiseront en même temps la trahison de l’alliance religieuse avec Dieu et la dégénération de l’ethos politique (pensons à Samuel en 1 S 13, Nathan en 2 S 12, Élie en 1 R 17-19, ainsi qu’aux écrits prophétiques comme Am 4-6, Os 4, Is 1, Mi 1, etc.). Le caractère concret de la dénonciation, avec ses exemples circonstanciés, fait appel, pour ainsi dire, à une « rationalité intrinsèque » à la justice politique, dont la foi religieuse fait une partie intégrante de la « loi divine ».

58. En ouverture de sa mission d’annonce et d’instauration du Royaume de Dieu, Jésus reprendra, de façon radicale mais dans le même sens, l’esprit de la critique prophétique : aussi bien dans son enseignement en paraboles que dans sa critique du légalisme (cf. Mt 23,14-28 ; Lc 10, 29-37 ; 18,11-12). Dans cette perspective, Jésus se place certainement dans la ligne de la distinction entre l’exercice du pouvoir économique et politique, selon les possibilités et les limites des conditions historiques, et la sollicitude religieuse et pastorale pour le peuple, dans laquelle il inscrit la nouveauté absolue de la révélation et de l’action de Dieu qu’Il incarne. La légitimité de principe du pouvoir politique, distinct de l’autorité religieuse, ne fait pas débat dans la communauté primitive. Signe qu’il s’agit d’une consigne que l’on peut paisiblement rattacher à Jésus lui-même. Les recommandations de saint Paul et saint Pierre concernant le respect pour l’autorité civile légitime (cf. Rm 13,1-7 ; 1 P 2, 13-14) sont claires à ce sujet. Le pouvoir de gouvernement politique, accordé par Dieu en vue du bien du peuple, représente une médiation de l’ordre historique et séculier de la justice qui ne peut être annulée. En effet, la représentation de cet ordre, inscrite dans le pouvoir politique légitime, renvoie ultimement au soin que Dieu prend de sa créature. Il n’y a pas de raison d’annuler la distinction ; d’autre part, justement par rapport à elle on doit toujours mettre en évidence la spécificité de la mission évangélique et ecclésiale et du pouvoir pastoral qui prend forme en elle, sur indication explicite de Jésus. En ce sens, il doit apparaitre clairement que le Royaume inauguré avec Jésus n’est pas « de ce monde » (Jn 18, 36) ; et que l’exercice du pouvoir pastoral ne doit pas être confondu avec les logiques des puissants « qui dominent sur les nations » (Lc 22, 25). De toute façon, l’espace pour une légitime et nécessaire reconnaissance des prérogatives de l’autorité publique (« César ») n’est pas en discussion, à condition, naturellement, que celle-ci ne prétende pas occuper la place de Dieu (cf. Mt 22, 21)[59]. Dans ce cas, en effet, il ne fait pas de doute pour le chrétien que la suprême obéissance ne doive être réservée à Dieu, et à lui seul (cf. Ac 5,29). La liberté de cette obéissance, que le disciple du Seigneur revendique justement come expression radicale de la liberté de la foi (cf. 1 P 3, 14-17), n’empiète par elle-même sur la liberté individuelle de personne, ni n’entend menacer l’ordre public légitime d’aucune communauté (1 P 2, 16-17).

59. Pour s’en tenir au contexte de l’empire romain, le témoignage de la résistance chrétienne face aux interprétations persécutrices de la religio civilis et à l’imposition du culte de l’empereur ne fait pas défaut[60]. Le culte religieux de l’empereur apparaît comme une véritable religion alternative à la foi christologique – laquelle représente l’unique incarnation authentique de la seigneurie de Dieu – imposée à travers la violence par le pouvoir politique[61]. L’inspiration évangélique – qui justifie le pouvoir civil soucieux du bien commun, mais résiste lorsqu’il prend la forme d’un substitut à la religion – est reprise par saint Augustin dans la Cité de Dieu[62]. Loin de dénigrer l’État, Augustin, avec l’idée que la tâche suprême de l’État qui est de garantir la paix temporelle se rattache à la destinée de paix promise par Dieu dans la vie éternelle, restitue à l’État l’intégrité de sa fonction. Le bien temporel de la communauté humaine et le bien éternel de la communion avec Dieu ne sont pas deux biens complètement séparés, comme on le laisse souvent entendre dans la vulgarisation de la pensée augustinienne des « deux cités ». Et de même la simplification selon laquelle l’État gouverne séparément « les corps », tandis que l’Église gouverne les « âmes », doit être considérée – des deux côtés – comme une simplification réductrice de la pensée d’Augustin.

60. Les coordonnées du problème de la liberté religieuse et des rapports entre l’Église et les autorités politiques apparaissent changées à partir des lois de l’empereur Théodose (vers 380-390). Le fait d’aboutir à une certaine interprétation du concept d’« État chrétien », où il n’y a pas plus d’espace officiel pour le pluralisme religieux, introduit une variante décisive dans la présentation du thème[63]. La réflexion chrétienne a cherché à maintenir une juste distinction entre le pouvoir politique et le pouvoir spirituel de l’Église sans jamais renoncer à penser leur articulation intrinsèque. Cependant, cet équilibre a toujours été menacé par une double tentation. La première est la tentation théocratique de faire découler l’origine et la légitimité du pouvoir civil de la plenitudo potestatisde l’autorité religieuse, comme si l’autorité politique s’exerçait en vertu d’une simple délégation, toujours révocable, de la part du pouvoir ecclésiastique. La seconde tentation est celle d’absorber l’Église dans l’État, comme si l’Église était un organe ou une simple fonction de l’État, chargé de la dimension religieuse. La formule théologique de l’équilibre, toujours cherchée néanmoins dans un cadre qui prévoit la supériorité de la compétence spirituelle de la sacra potestas par rapport au soin de l’ordre public reconnu comme appartenant au pouvoir politique, apparaît sous des formes variées et dans des contextes divers déjà à partir du Vème siècle. (Gélase I, 494) jusqu’à la fin du XIXème siècle (Léon XIII, 1885)[64]. Le modèle de la recherche d’une juste harmonisation dans la distinction est confirmé par Gaudium et Spes, qui propose de l’interpréter à la lumière des principes d’autonomie et de coopération entre communauté politique et Église[65]. Le changement des coordonnées socio-politiques, qui recommandent de prendre des distances par rapport à la prétention de légitimer religieusement les compétences éthico-sociales du gouvernement politique, se produit dans le contexte contemporain à travers l’approfondissement de la valeur de la libre adhésion à la foi. Et en général, de la valeur d’une convivance civile qui exclut toute forme de contrainte, même psychologique, dans le domaine de l’adhésion aux valeurs de l’expérience éthico-religieuse. Cette vision apparaît comme un fruit mûr de la tradition chrétienne et, en même temps, comme un principe universel du respect pour la dignité humaine que l’État doit garantir.

La dérive « monophysite » dans les relations entre religion et État

61. La cité de Dieu vit et se développe « à l’intérieur » de la cité de l’homme. De là vient la conviction de la Doctrine sociale de l’Église, qui reconnaît comme une bénédiction l’engagement de toutes les personnes de bonne volonté à promouvoir le bien commun dans le cadre de la condition temporelle de la vie humaine[66]. La doctrine chrétienne des « deux cités » affirme leur distinction, mais ne l’explique pas en termes d’opposition entre réalités temporelles et spirituelles. Certes, Dieu n’impose pas une forme déterminée de gouvernement temporel ; reste cependant la donnée théologique que toute autorité de l’homme sur l’homme dérive ultimement de Dieu et est jugée selon la justice de Dieu. Malgré ce renvoi au fondement ultime posé par Dieu, le lien social et son gouvernement politique demeurent une entreprise humaine. Mais c’est justement cela qui pose une limite précise au pouvoir conféré à l’autorité terrestre concernant le gouvernement des personnes et des communautés humaines – et une dépendance ultime par rapport au jugement de Dieu[67]. De ce point de vue, par conséquent, on doit dire également qu’une « théocratie d’État », comme aussi un « athéisme d’État », qui prétendent, de manière diverse, imposer une idéologie qui substitue au pouvoir de Dieu le pouvoir de l’État, produisent respectivement une déformation de la religion et une perversion de la politique. Dans ces modèles, on peut saisir une certaine analogie politique du monophysisme christologique, qui confond – et finalement annule – la distinction des deux natures, réalisée dans l’Incarnation, en compromettant l’harmonie de leur unité. Dans cette phase historique, il apparaît évident que la tentation du « monophysisme politique », qu’on a connue dans l’histoire chrétienne, se fait jour de nouveau plus clairement dans certains courants radicaux de traditions religieuses non chrétiennes.

La réduction « libérale » de la liberté religieuse

62. Le concept d’égalité des citoyens, qui était à l’origine limité à la relation légale entre l’individu et l’État, telle que chaque membre d’un système donné de gouvernement était considéré égal devant la loi de ce système de gouvernement, a été transposé dans le monde de l’éthique et de la culture. Par cette extension, la simple possibilité qu’une évaluation morale différente ou une appréciation diverse des pratiques culturelle puissent être supérieures à d’autres ou contribuer plus que d’autres au bien commun, est devenue maintenant une question politique controversée. D’après cette idée de la neutralité, tout l’univers de la moralité humaine et du savoir social doit être lui-même démocratisé[68]. La perte de signification de l’ethos et de la culture, qui découle de l’application de cette idéologie égalitaire qui refuse d’exprimer quelque jugement de valeur que ce soit, ne peut qu’éveiller des inquiétudes. Les pratiques formatives et le lien social de la communauté sont amenés à la paralysie de leurs présupposés eux-mêmes. En outre, on ne peut s’empêcher de remarquer que lorsqu’un État de ce type, « moralement neutre », se met à contrôler le domaine de tous les jugements humains, il commence à assumer les traits d’un État « éthiquement autoritaire ». Dans son rapport originaire à la vérité, l’exercice de la liberté de conscience – au nom de laquelle tout jugement de valeur est censuré – finit par se trouver en constant danger. Au nom de cette « éthique d’État », on met parfois indûment en question, au-delà du critère de l’ordre public juste, la liberté des communautés religieuses à s’organiser selon leurs principes[69].

63. La neutralité morale de l’État peut se rattacher à certaines des diverses compréhensions de l’État libéral moderne. En effet, le libéralisme, comme théorie politique, a une histoire longue et complexe, qui ne se laisse pas réduire à une conception univoque et partagée par tous. Parmi ses diverses élaborations théoriques – certaines sont plus directement liées à une vision anthropologique d’inspiration radicalement individualiste, d’autres adhèrent davantage à une conception où son application politico-sociale est liée à la négociation –, on peut identifier au moins quatre interprétations principales de la neutralité de l’État. (a) Une présentation qui définit pragmatiquement les matières qui peuvent être objet de normes contraignantes pour la liberté individuelle ; (b) une théorie qui précise le type de rationalité définissant la compétence normative du législateur ; (c) une théorie qui rend acceptables des effets différenciés, en rapport avec les avantages des divers groupes sociaux, à condition que ces avantages ne soient pas la raison formelle de la norme ; (d) une théorie qui garantit un exercice des libertés politiques n’impliquant pas la référence obligatoire à une notion transcendante du bien. Dans cette dernière acception, le libéralisme politique apparaît étroitement associé avec des limitations de la liberté qui concernent la parole, la pensée, la conscience, la religion. La neutralité de la sphère publique, en effet, ne se borne pas en ce cas à garantir l’égalité des personnes devant la loi, mais impose l’exclusion d’un ordre déterminé de préférences, qui associent la responsabilité morale et l’argumentation éthique à une vision anthropologique et sociale du bien commun. L’État tend à assumer, dans ce cas, la forme d’une ‘imitation laïciste’ de la conception théocratique de la religion, qui décide de l’orthodoxie et de l’hérésie de la liberté au nom d’une vision politico-salvifique de la société idéale : en décrétant a priori son identité parfaitement rationnelle, parfaitement civile, parfaitement humaine. L’absolutisme et le relativisme de cette moralité libérale sont ici en contradiction, ce qui induit des effets d’exclusion antilibérale dans la sphère publique, à l’intérieur de la prétendue neutralité libérale de l’État.

Ambiguïté de l’État moralement neutre

64. La conscience morale exige la transcendance de la vérité et du bien moral : sa liberté est définie par cette référence, qui indique précisément ce qui la justifie pour tous, sans qu’elle puisse être la propriété à la disposition de personne. Parler de liberté de la conscience individuelle signifie parler d’un droit originaire de l’humain, qui ne peut être amputé de cette référence responsable à l’universel humain, soustrait à l’arbitraire des hommes. Faute de cela, nous ne parlons plus de conscience éthiquement inviolable, mais du simple reflet du monde donné ou de l’arbitraire voulu. L’instance éthique ne se superpose pas à la liberté de conscience et au bien de la convivance comme un élément optionnel ou idéologique. Elle est plutôt la condition de leur harmonisation intrinsèque avec la dignité de la personne. La référence à Dieu, comme principe transcendant de l’instance éthique qui habite le cœur de l’homme, doit être entendue, en dernière analyse, comme la limite posée à toute prévarication de l’homme sur l’homme et la défense de toute convivance fraternelle d’êtres libres et égaux. Lorsque la place de Dieu, dans la conscience collective d’un peuple, est occupée abusivement par les idoles fabriquées par l’homme, le résultat n’est pas un climat de liberté plus avantageux pour chacun, mais bien plutôt une servitude plus insidieuse pour tous. La neutralité idéologique présumée de l’État libéral, qui exclut sélectivement la liberté d’un témoignage transparent de la communauté religieuse dans la sphère publique, ouvre une brèche à la fausse transcendance d’une idéologie occulte du pouvoir. Le pape François nous a mis en garde contre cette sous-estimation de l’indifférence religieuse : « Quand, au nom d’une idéologie, on veut expulser Dieu de la société, on finit par adorer des idoles, et bien vite aussi l’homme s’égare lui-même, sa dignité est piétinée, ses droits violés »[70].

65. Pour le christianisme, le problème naît au moment où les chrétiens eux-mêmes sont amenés à se considérer comme membres d’une ‘société neutre’, qui, dans les principes et dans les faits, ne l’est pas. Dans ce cas, leur condition de membres de communautés diverses, mais non opposées (la famille, l’État, l’Église) est amenée à se traduire dans le choix d’habiter de façon privée (d’une manière autoréférentielle) la communauté familiale ou ecclésiale, pour se concevoir ensuite comme appartenance neutre (non-religieuse) à la société libérale et politique. Autrement dit, dans le sillage de cette dérive, les chrétiens commencent à s’envisager eux- mêmes, dans la sphère publique, seulement comme membres de cette polis « moralement neutre » à laquelle il est arrivé par hasard de se constituer en un contexte historiquement chrétien. Lorsque les chrétiens acceptent passivement cette dichotomie de leur être entre une extériorité gouvernée par l’État et une intériorité gouvernée par l’Église, ils ont, de fait, déjà renoncé à leur liberté de conscience et d’expression religieuse. Les chrétiens ne peuvent pas, au nom du pluralisme de la société, favoriser des solutions qui compromettent la sauvegarde d’exigences éthique fondamentales pour le bien commun[71]. Il ne s’agit pas, en soi, d’imposer des « valeurs confessionnelles » particulières, mais de concourir à la sauvegarde d’un bien commun qui ne perde pas de vue la référence obligatoire de la ‘sphère publique’ à la vérité de la personne et à la dignité de la convivance humaine. Comme nous le verrons ultérieurement dans les chapitres suivants, la foi chrétienne a une attitude de coopération avec l’État, justement en vertu de la juste distinction des tâches, pour rechercher ce que Benoit XVI a qualifié de « laïcité positive » dans le rapport entre le domaine politique et le domaine religieux[72].

6. La contribution de la liberté religieuse à la convivance et à la paix sociale

Liberté religieuse pour le bien de tous

66. Dans les chapitres précédents nous avons pris en considération les divers aspects du sujet personnel et communautaire de la liberté religieuse, approfondissant surtout les dimensions anthropologiques de la liberté religieuse, et aussi sa place vis-à-vis de l’État. Notre réflexion, développée dans la perspective unitaire de la dignité de la personne humaine, a décrit la signification et les implications de la liberté de conscience – d’un côté – et la valeur des communautés religieuses – de l’autre. Dans un deuxième temps, nous avons présenté quelques mises au point concernant les contradictions inscrites dans l’idéologie de l’État neutre, lorsque cette « neutralité » est déclinée en termes d’« exclusion » de la légitime participation de la religion à la formation de la culture publique et du lien social. Il convient maintenant de nous arrêter sur l’exercice concret de la liberté religieuse, c’est-à-dire sur les thèmes pratiques de la médiation entre vie sociale et institution juridique qui doit régler son exercice concret.

L’être-ensemble a qualité de bien

67. Être ensemble, vivre ensemble, est, en soi, un bien, tant pour les individus que pour la communauté. Ce bien ne résulte pas de l’adoption d’une vision théorique particulière ; sa justification ressort de l’évidence même de son advenir[73]. Dans la mesure où ce fait est reconnu, apprécié et défendu, il contribue à la paix sociale et au bien commun. L’acceptation de la convivance humaine et la recherche de sa meilleure qualité représentent la prémisse fondamentale d’une entente – une alliance, pourrait-on dire – qui crée d’elle-même les conditions d’une vie bonne pour tous. De fait, une des données les plus impressionnantes, au sujet des conflits qui suscitent maintenant les plus graves préoccupations, est justement le fait que les fractures et les horreurs qui allument les foyers d’une guerre mondiale « par morceaux »[74], dévastent avec furie soudaine des convivances pacifiques longuement expérimentées et sédimentées dans le temps, et laissent derrière elles une série interminable de souffrances pour les personnes et pour les peuples[75]. Dans le contexte tourmenté d’aujourd’hui, nous ne pouvons pas ignorer les effets concrets qu’entraînent, pour le juste exercice de la liberté religieuse dans le monde, les migrations dues à des conflits politiques ou à des conditions économiques précaires, parce que les migrants se déplacent avec leur religion[76].

68. C’est seulement là où il y a la volonté de vivre ensemble que l’on pourra construire un avenir bon pour tous : sinon, il n’y aura d’avenir bon pour personne. À l’ère de la globalisation, le besoin humain fondamental de sécurité et de communauté n’a pas changé : naître dans un lieu concret implique toujours interagir avec d’autres, en commençant par les plus proches, mais en réalité interagir avec le monde entier. Ce fait même nous rend responsables les uns des autres, proches et lointains. Aujourd’hui les responsabilités sont de plus en plus interdépendantes, dépassant les différences sociales ou les frontières. Les problèmes décisifs pour la vie humaine ne peuvent être résolus de manière adéquate que dans une perspective d’interaction aussi bien locale que temporelle. Pour cette raison, le bien pratique du vivre ensemble n’est pas un bien statique mais en continuelle évolution, qui, pour pouvoir se développer d’une manière convenable doit être assuré aussi politiquement[77]. Les communautés religieuses, mises en condition de promouvoir les raisons transcendantes et les valeurs humaines de la convivance, sont un principe de vitalité de l'amour mutuel pour unir la famille humaine toute entière. Le bien du vivre ensemble devient une richesse pour tous, lorsque tous ont le souci de vivre bien ensemble.

69. Particulièrement importante, pour l’harmonisation des dimensions constitutives de la vie en commun, est la sphère des croyances religieuses et des convictions éthiques les plus intimes des hommes : c’est-à-dire celles où ils investissent leur identité profonde et orientent leurs attitudes à l’égard de la conscience et des comportements des autres. On ne voit pas pourquoi il devrait être impossible, dans le respect mutuel, de partager comme un bien à la disposition de tous la relation personnelle et communautaire que les communautés religieuses cultivent à l’égard de Dieu. En tout cas, ce n’est certainement pas un bien que cette expérience soi cultivée clandestinement, sans possibilité que tous les membres de la société la reconnaissent librement et y aient accès. L’esprit religieux cultive la relation avec Dieu comme un bien qui concerne l’être humain : la sincérité et la bénédiction de cette conviction doivent pouvoir être vérifiées et appréciées par tous. De là découle aussi l’engagement des croyants à améliorer la qualité du dialogue entre expérience religieuse et vie sociale. Tous ont intérêt à dépasser la dérive du savoir social relatif au sens vers l’indifférentisme et le relativisme radical.

Le juste discernement de la liberté religieuse

70. Comme nous l’avons déjà fait remarquer, on ne peut pas reconnaître la même valeur à toutes les formes possibles de l’expérience religieuse – individuelles ou collectives, historiques ou récentes. Il est donc nécessaire d’évaluer les diverses formes de religiosité et les comparer en fonction de leur aptitude à sauvegarder le sens universel et le bien commun de l’être ensemble[78]. En ce sens, chacune des religions actives dans une société doit accepter de « se présenter » devant les justes exigences de la raison « digne » de l’homme. Il revient, de fait, à l’autorité politique, gardienne de l’ordre public, de défendre les citoyens, spécialement les plus faibles, contre les dérives sectaires de certaines prétentions religieuses (manipulation psychologique et affective, exploitation économique et politique, isolationnisme…). Parmi les justes exigences de la raison dans ses implications juridico-politiques on peut citer – dans les années récentes – la réciprocité pacifique des droits religieux, y compris celui de la liberté de conversion[79]. Réciprocité pacifique des droits signifie qu’à la liberté d’expression et de pratique qu’un pays accorde à une identité religieuse minoritaire, correspond une reconnaissance symétrique de la liberté pour les minorités religieuses des pays où cette identité est, en revanche, majoritaire. Cette réciprocité pacifique des droits va au-delà du célèbre principe cuius regio eius et religio consacré par la paix d’Augsbourg (1555). Le lien d’une religion d’État, qui fut proposé à un moment donné de l’histoire européenne pour contenir les excès de ce qu’on appelle les « guerres de religion », semble maintenant dépassé avec l’évolution actuelle du principe de citoyenneté, qui implique la liberté de conscience.

Les extensions de la liberté religieuse

71. De fait, dans certains pays il n’y a aucune liberté juridique de religion, tandis que dans d’autres la liberté juridique est drastiquement limitée à l’exercice communautaire du culte ou de pratiques strictement privées. Dans de tels pays l’expression publique d’une croyance religieuse n’est pas autorisée, toute forme de communication religieuse est généralement interdite, et des peines sévères, y compris la peine de mort, sont réservées à celui qui désire se convertir ou cherche à convertir d’autres personnes. Dans les pays à régime dictatorial où prévaut une pensée athée – et même, avec toutes les distinctions voulues, dans certains pays qui se considèrent démocratiques – les membres des communautés religieuses sont souvent persécutés ou soumis à des traitements défavorables dans leur lieu de travail, sont exclus des fonctions publiques et empêchés d’accéder à certains niveaux d’assistance sociale. Pareillement, les œuvres sociales fondées par des chrétiens (dans le domaine de la santé, de l’éducation…) sont soumises à des limitations sur le plan législatif, financier ou des communications, qui rendent difficile sinon impossible leur développement. Dans toutes ces circonstances il n’y a pas de vraie liberté de religion. Une véritable liberté de religion est possible seulement si elle peut s’exprimer activement[80].

72. Une conscience libre et éclairée nous permet de respecter tout individu, d’encourager l’accomplissement de l’homme et de refuser un comportement qui nuirait à l’individu ou au bien commun. L’Église s’attend à ce que tous ses membres puissent vivre leur foi librement et que les droits de leur conscience soient garantis dès lors qu’ils respectent, eux, les droits des autres. Vivre la foi peut parfois demander l’objection de conscience. En effet les lois civiles n’obligent pas en conscience lorsqu’elles contredisent l’éthique naturelle, et par conséquent l’État doit reconnaitre le droit des personnes à l’objection de conscience[81]. Le lien ultime de la conscience est avec le Dieu unique, Père de tous. Le refus de cette référence transcendante expose fatalement à la prolifération d’autres dépendances, selon l’aphorisme incisif de saint Ambroise : « Combien de maitres a celui qui en a fui un seul ! »[82]

7. La liberté religieuse dans la mission de l’Église

Le libre témoignage de l’amour de Dieu

73. L’évangélisation ne consiste pas seulement dans la proclamation confiante de l’amour salvifique de Dieu, mais dans la mise en œuvre d’une vie fidèle à la miséricorde qu’Il a manifestée dans l’événement de Jésus Christ, par lequel l’histoire tout entière s’ouvre à la réalisation du Règne de Dieu. La mission de l’Église inclue une double action qui se déploie dans l’engagement pour l’humanisme de la charité et le dévouement pour la responsabilité de l’éducation des nouvelles générations.

74. De cette façon l’Église exprime sa profonde union avec les hommes et les femmes, dans toutes les conditions de vie, en montrant une attention spéciale pour les pauvres et les persécutés. Dans cette prédilection apparaît clairement le sens de sa totale ouverture au partage des espérances et des angoisses de l’humanité entière[83]. Ce dynamisme correspond à la vérité de la foi, selon laquelle l’humanité du Christ, « homme parfait » (Ep 4,13), est intégralement assumée et non annulée dans l’Incarnation du Fils[84]. Et d’autre part, le mystère du salut en Jésus Christ implique que l’humain soit pleinement restitué – comme « création nouvelle » (2 Co 5,17) – à sa nature originaire « d’image et ressemblance » de Dieu[85]. En ce sens, l’Église est intrinsèquement orientée vers service du mystère salvifique de Dieu dans lequel l’humanité des hommes est radicalement rachetée et pleinement réalisée. Ce service est proprement un acte d’adoration de Dieu, qui Lui rend gloire pour son alliance avec la créature humaine.

L’Église proclame la liberté religieuse pour tous

75. La liberté religieuse ne peut être réellement garantie que dans l’horizon d’une vision humaniste ouverte à la coopération et à la convivance, profondément enracinée dans le respect pour la dignité de la personne et pour la liberté de la conscience. Du reste, amputée de cette ouverture humaniste, qui œuvre comme levain de la culture civile, l’expérience religieuse elle-même perd son authentique fondement dans la vérité de Dieu, et devient vulnérable à la corruption de l’humain[86]. Le défi est de taille. Les adaptations de la religion aux formes du pouvoir séculier, bien que justifiées au nom des possibilités d’obtenir de meilleurs avantages pour la foi, sont une tentation constante et un risque permanent. L’Église doit développer une sensibilité particulière dans le discernement de ce compromis, s’engageant constamment à se purifier des faiblesses face à la tentation de la « mondanité spirituelle »[87]. L’Église doit s’examiner elle-même pour retrouver avec un élan toujours renouvelé le chemin de la véritable adoration de Dieu « en esprit et en vérité » (Jn 4, 23) et du « premier amour » (Ap 2, 4). Elle doit ouvrir, justement à travers cette continuelle conversion, l’accès de l’Évangile à l’intime du cœur humain, en ce point où celui-ci cherche – secrètement et même sans le savoir – à reconnaître le vrai Dieu et la vraie religion. L’Évangile est réellement capable de démasquer la manipulation religieuse, qui produit des effets d’exclusion, d’avilissement, d’abandon et de séparation entre les hommes.

76. En définitive, la vision proprement chrétienne de la liberté religieuse puise son inspiration la plus profonde dans la foi en la vérité du Fils fait homme pour nous et pour notre salut. Par Lui, le Père attire à soi tous les fils dispersés et toutes les brebis sans pasteur (cf. Jn 12, 32 ; 10, 11-16 ; Mt 9, 36 ; Mc 6, 34). Et l’Esprit recueille les gémissements (cf. Rm 8,22), même les plus confus et imperceptibles, de la créature otage des puissances du péché, et les transforme en prière. L’Esprit de Dieu agit de toute façon, librement et avec puissance. Cependant, là où l’être humain est en mesure d’exprimer librement son gémissement et son invocation, l’action de l’Esprit devient reconnaissable pour tous ceux qui cherchent la justice de la vie. Et sa consolation devient témoignage d’une humanité réconciliée. La liberté religieuse libère l’espace pour la conscience universelle d’appartenir à une communauté d’origine et de destin qui ne veut pas renoncer à maintenir vivante l’attente d’une justice de la vie que nous sommes en mesure de reconnaitre, mais incapables d’honorer avec nos seules forces. Le mystère de la récapitulation en Christ de toutes choses garde pour nous et pour tous l’attente amoureuse des fruits de l’Esprit pour chacun, et l’émouvante annonce de la venue du Fils pour tous (cf. Ep 1,3-14).

Le dialogue interreligieux comme voie vers la paix

77. Le dialogue interreligieux est favorisé par la liberté religieuse, dans la recherche du bien commun ensemble avec les représentants d’autres religions. Il est une dimension inhérente à la mission de l’Église[88]. Il n’est pas en tant que tel le but de l’évangélisation, mais il concourt grandement à celle-ci. Il ne doit donc pas être compris ni pratiqué en alternative ou en contradiction avec la mission ad gentes[89]. Le dialogue éclaire, déjà dans sa bonne disposition au respect et à la coopération, cette forme relationnelle de l’amour évangélique qui trouve son principe ineffable dans le mystère de la vie de Dieu[90]. L’Église reconnaît en même temps la capacité particulière de l’esprit de dialogue à saisir – et à nourrir – une exigence particulièrement ressentie dans le cadre de la culture démocratique actuelle[91]. La disponibilité au dialogue et la promotion de la paix sont en effet étroitement liées. Le dialogue nous aide à nous orienter dans la nouvelle complexité des opinions, des savoirs, des cultures : aussi, et surtout, en matière de religion.

78. Dans le dialogue sur les thèmes fondamentaux de la vie humaine, les croyants des diverses religions mettent en lumière les valeurs les plus importantes de leur tradition spirituelle, et rendent plus reconnaissable leur sincère implication dans ce qu’ils jugent essentiel pour le sens ultime de la vie humaine, et pour la justification de leur espérance en une société plus juste et plus fraternelle[92]. L’Église est certainement disponible à entrer en un dialogue concret et constructif avec tous ceux qui œuvrent en vue de cette justice et de cette fraternité[93]. Dans l’exercice de la mission évangélique à travers le dialogue, l’Évangile fait encore mieux resplendir sa lumière parmi les peuples et les religions.

Le courage du discernement et du refus de la violence au nom de Dieu

79. Le christianisme lui-même, d’autre part, peut saisir, en même temps que les inévitables différences – voire même dissonances –, des affinités et ressemblances qui rendent encore plus appréciable l’universalisme de la foi théologale[94]. Le droit de chacun à sa propre liberté religieuse est nécessairement connexe avec la reconnaissance du droit identique pour tous les autres, étant sauf le maintien général de l’ordre public[95]. Dans cette perspective, la question de la liberté religieuse se rattache au thème traditionnel de la tolérance civile. La véritable liberté religieuse doit se concilier avec le respect de la population religieuse et – symétriquement – aussi de celle qui n’a pas d’identité religieuse spécifique. On ne doit cependant pas négliger le fait que la simple tolérance relativiste, dans ce domaine, peut conduire – en contradiction même avec son intention de respecter la religion – à l’évolution du comportement vers l’indifférence à l’égard de la vérité de sa propre religion[96]. Lorsque, d’autre part, la religion devient une menace pour la liberté religieuse d’autres hommes, aussi bien dans les paroles que dans les faits, allant même jusqu’à la violence au nom de Dieu, on franchit une limite qui appelle l’énergique dénonciation en premier lieu des hommes religieux eux-mêmes[97]. Pour ce qui concerne le christianisme, ses « adieux définitifs » aux ambiguïtés de la violence religieuse peuvent être considérés comme un kairos qui favorise une nouvelle réflexion sur ce thème dans toutes les religions[98].

80. La recherche d’une adhésion plénière à la vérité de sa propre religion et d’une attitude résolue de respect vis-à-vis des autres religions, peut engendrer des tensions à l’intérieur de la conscience individuelle, comme aussi de la communauté religieuse. L’éventualité, tout autre qu’abstraite, qu’il en jaillisse un dynamisme de critique dans la mise en œuvre de la religion propre, qui demeure néanmoins à l’intérieur de celle-ci, fait naitre à l’intérieur de la société civile une nouvelle problématique spécifique de la liberté religieuse. Il ne s’agit plus seulement d’appliquer la liberté religieuse au respect pour la religion des autres, mais aussi à la critique de sa propre religion. Cette situation pose des problèmes délicats d’équilibre dans l’application de la liberté religieuse. Dans ces cas, le défi de la protection de la liberté religieuse atteint un point-limite autant pour la communauté civile que pour la communauté religieuse. L’aptitude à concilier le souci de l’intégrité de la foi commune, le respect pour le conflit de conscience, l’engagement pour la sauvegarde de la paix sociale, requièrent la médiation d’une maturité personnelle et d’une sagesse partagée qu’il faut demander sincèrement comme une grâce et un don d’en-Haut.

81. Le « martyre », comme suprême témoignage non-violent de la fidélité à la foi, devenue objet de haine spécifique, intimidation et persécution, est le cas limite de la réponse chrétienne à la violence qui prend pour cible la confession évangélique de la vérité et de l’amour de Dieu, introduite dans l’histoire – profane et religieuse – au nom de Jésus-Christ. Le martyre devient ainsi le symbole extrême de la liberté d’opposer l’amour à la violence, et la paix au conflit. Dans beaucoup de cas, la détermination personnelle du martyr de la foi à accepter la mort est devenue semence de libération religieuse et humaine pour une multitude d’hommes et de femmes, jusqu’à obtenir la délivrance de la violence et le dépassement de la haine. L’histoire de l’évangélisation chrétienne en témoigne, aussi à travers la mise en route de processus et de mutations sociales de portée universelle. Ces témoins de la foi sont un juste motif d’admiration et d’imitation de la part des croyants, mais également de respect de la part de tous les hommes et les femmes qui ont à cœur la liberté, la dignité, la paix entre les peuples. Les martyrs ont résisté à la pression des représailles, annulant l’esprit de vengeance et de violence par la force du pardon, de l’amour et de la fraternité[99]. De cette façon, ils ont rendu évidente pour tout le monde la grandeur de la liberté religieuse comme semence d’une culture de la liberté et de la justice.

82. Parfois, les personnes ne sont pas tuées au nom de leur pratique religieuse mais elles doivent subir des attitudes profondément blessantes, qui les confinent aux marges de la vie sociale : exclusion des fonctions publiques, interdiction sans discernement de leurs symboles religieux, exclusion de certains avantages économique et sociaux… Ce qu’on appelle le « martyre blanc », comme exemple de confession de la foi[100]. Ce témoignage se rencontre encore aujourd’hui en de nombreuses parties du monde : il ne doit pas être minimisé, comme s’il s’agissait d’un simple effet collatéral des conflits pour la suprématie ethnique ou pour la conquête du pouvoir. La beauté de ce témoignage doit être bien comprise et bien interprétée. Il nous instruit sur le bien authentique de la liberté religieuse de la façon la plus limpide et la plus efficace. Le martyre chrétien montre à tous ce qui se produit lorsque la liberté religieuse de l’innocent est contrariée et supprimée : le martyre est le témoignage d’une foi qui demeure fidèle à elle-même en refusant jusqu’au bout de se venger et de tuer. En ce sens, le martyr de la foi chrétienne n’a rien à voir avec le suicide-homicide au nom de Dieu : une telle confusion est déjà en elle-même une corruption de l’esprit et une blessure de l’âme.

83. Le christianisme ne renferme pas l’histoire du salut entre les bornes de l’histoire de l’Église. Au contraire, dans le prolongement de l’enseignement du Concile Vatican II et dans l’horizon de l’Encyclique Ecclesiam suam de saint Paul VI, l’Église ouvre l’histoire humaine tout entière à l’action de l’amour de Dieu, qui « veut que tous les hommes soient sauvés et parviennent à la connaissance de la vérité » (1 Tm 2,4). La forme missionnaire de l’Église, inscrite dans la disposition même de la foi, obéit à la logique du don, c’est-à-dire de la grâce et de la liberté, et non à celle du contrat et de l’imposition. L’Église est consciente du fait que, même avec les meilleures intentions, cette logique a été contredite – et risque toujours de l’être – à cause de comportements qui ne sont ni conformes ni cohérents avec la foi reçue. Néanmoins, nous, chrétiens, nous professons avec une humble fermeté notre conviction que l’Église est toujours guidée par le Seigneur et soutenue par l’Esprit tout au long du chemin de son témoignage rendu à l’action salvifique de Dieu dans la vie de toutes les personnes et de tous les peuples. Et toujours à nouveau elle s’engage à honorer sa vocation historique, annonçant l’évangile de la véritable adoration de Dieu en esprit et en vérité. Sur ce chemin, dans lequel la liberté et la grâce se rencontrent dans la foi, l’Église se réjouit d’être confirmée par le Seigneur, qui l’accompagne, et d’être entraînée par l’Esprit, qui la précède. Par conséquent, toujours à nouveau elle déclare sa ferme intention de se convertir à la fidélité du cœur, de la pensée et des œuvres qui rétablissent la pureté de sa foi.

84. Le témoignage de la foi chrétienne habite le temps et l’espace de la vie personnelle et communautaire qui sont propres à la condition humaine. Les chrétiens sont conscients du fait que ce temps et cet espace ne sont pas des espaces vides. Ni des espaces indistincts, c’est-à-dire neutres et indifférenciés par rapport au sens, aux valeurs, aux convictions et aux désirs qui donnent une forme à la culture proprement humaine de la vie. Ce sont des espaces et des temps habités par le dynamisme des communautés et des traditions, des regroupements et des appartenances, des institutions et du droit. La conscience plus forte du pluralisme des diverses manières de reconnaître et d’atteindre le sens de la vie individuelle et collective, qui concourt à la formation du consensus éthique et à la manifestation du consentement religieux, engage justement l’Église à élaborer un style de témoignage de la foi tout à fait respectueux de la liberté individuelle et du bien commun. Ce style, loin d’atténuer la fidélité à l’événement salvifique qui est l’objet de l’annonce de la foi, doit rendre encore plus transparente sa prise de distance par rapport à un esprit de domination, intéressé par la conquête du pouvoir comme une fin en soi. C’est justement la fermeté avec laquelle le magistère définit aujourd’hui la sortie théologique de cette équivoque qui permet à l’Église de solliciter une élaboration plus cohérente de la doctrine politique.

85. En tant que membres du Peuple de Dieu, nous nous proposons humblement de demeurer fidèles à la mission confiée par le Seigneur, qui envoie les disciples à tous les peuples de la terre pour annoncer l’évangile de la miséricorde de Dieu (cf. Mt 28,19-20 ; Mc 16,15), Père de tous, et ouvrir librement les cœurs à la foi dans le Fils, fait homme pour notre salut. L’Église ne confond pas sa propre mission avec la domination sur les peuples du monde et le gouvernement de la cité terrestre. Elle voit plutôt une tentation maligne dans la prétention à une instrumentalisation réciproque du pouvoir politique et de la mission évangélique. Jésus a rejeté l’avantage apparent d’un tel projet comme une séduction diabolique (Mt 4,8-10). Il a repoussé clairement la tentative de transformer le conflit avec les gardiens de la loi (religieuse et politique) en un conflit en vue de remplacer le pouvoir de gouvernement des institutions et de la société. Jésus a aussi clairement mis en garde ses disciples au sujet de la tentation de se conformer, dans le soin pastoral de la communauté chrétienne, aux critères et au style des puissants de la terre (cf. Mt 20, 25; Mc 10, 42; Lc 22, 25). Le christianisme sait bien, par conséquent, quelle signification et quelle image doit assumer l’évangélisation du monde. Son ouverture au thème de la liberté religieuse est donc une clarification cohérente avec le style d’une annonce évangélique et d’un appel à la foi qui présupposent l’absence de privilèges indus de certaines politiques confessionnelles et la défense des justes droits de la liberté de conscience. Cette clarté, en même temps, requiert la pleine reconnaissance de la dignité de la profession de foi et de la pratique du culte dans la sphère publique. Dans la logique de la foi et de la mission, la participation active et réfléchie à la pacifique construction du lien social, comme aussi le généreux partage de l’intérêt pour le bien commun, sont des implications du témoignage chrétien.

86. L’engagement culturel et social de l’agir croyant, qui s’exprime aussi dans la constitution de regroupements intermédiaires et dans la promotion d’initiatives publiques, est également une dimension de cet engagement que les chrétiens sont appelés à partager avec tout homme et toute femme de leur temps, indépendamment des différences de culture et de religion. En disant « indépendamment », on n’entend naturellement pas dire que ces différences doivent être ignorées et considérées comme insignifiantes. On veut plutôt signifier qu’elles doivent être respectées et jugées comme des composantes vitales de la personne, et convenablement valorisées dans la richesse de leurs contributions à la vitalité concrète de la sphère publique. L’Église n’a aucun motif de choisir une voie différente de témoigner. Que tout soit fait, recommande l’Apôtre Pierre « avec douceur et respect, ayant une bonne conscience, afin que, sur le point même où l'on vous calomnie, vous couvriez de confusion ceux qui diffament votre bonne conduite dans le Christ » (1 P 3,16). Et on ne voit aucun argument raisonnable qui devrait imposer à l’État d’exclure la liberté de la religion dans la participation à la réflexion et à la promotion des raisons du bien commun dans le cadre de la sphère publique. L’État ne peut être ni théocratique, ni athée, ni « neutre » (au sens d’une indifférence qui s’imagine que la culture religieuse et l’appartenance religieuse sont insignifiantes dans la constitution du sujet démocratique réel). Il est plutôt appelé à exercer une « laïcité positive » vis-à-vis des formes sociales et culturelles qui assurent le rapport nécessaire et concret de l’État de droit avec la communauté effective des ayants-droit.

87. De cette manière, le christianisme se dispose à soutenir l’espérance d’une commune destination vers le but eschatologique d’un monde transfiguré, selon la promesse de Dieu (cf. Ap 21,1-8). Le foi chrétienne est consciente du fait que cette transfiguration est un don de l’amour de Dieu pour la créature humaine, et non le résultat de nos efforts pour améliorer la qualité de la vie personnelle ou sociale. La religion existe pour maintenir éveillé ce sens de la transcendance du rachat de la justice de la vie et de l’achèvement de son histoire. Le christianisme, en particulier, est fondé sur l’exclusion du délire de toute-puissance de tout messianisme mondain, qu’il soit laïc ou religieux, qui débouche toujours sur la servitude des peuples et la destruction de la maison commune. Le soin de la création, confié dès le commencement à l’alliance de l’homme et de la femme (cf. Gn 1, 27-28), et l’amour du prochain (cf. Mt 22, 39), qui scelle la vérité évangélique de l’amour de Dieu, sont le sujet d’une responsabilité sur laquelle tous nous serons jugés – les chrétiens en premier – à la fin du temps que Dieu nous a donné pour nous convertir à son amour. Le Règne de Dieu est déjà à l’œuvre dans l’histoire, dans l’attente de l’avènement du Seigneur, qui nous introduira dans son achèvement. L’Esprit qui dit « Viens ! » (Ap 22, 17), qui recueille les « gémissements de la création » (Rm 8,22) et « fait toutes choses nouvelles », porte dans le monde le courage de la foi qui soutient (cfr. Rm 8,1-27), au bénéfice de tous, la beauté « de la raison [logos] de l’espérance qui est en nous » (1 P 3,15). Et la liberté, pour tous, de l’écouter et de le suivre.



[1] Le Concile se proposait de discerner la signification de la liberté religieuse en tenant compte de la compréhension qu’en avaient non seulement les communautés ecclésiales mais aussi les gouvernements, les institutions, la presse, les juristes de l’époque. Voir l’explication de A. J. De Smedt, Relatio (23 septembre 1964) (Acta synodalia III/2, p. 349). Une référence importante à ce sujet était la « Déclaration universelle des droits de l’homme » (1948), mais aussi d’autres expressions de la pensée philosophique et juridique. La Commission Théologique Internationale a proposé une hiérarchie des divers droits de l’homme, en renvoyant aux Documents internationaux où ils sont présentés : Dignité et droits de la personne humaine (1983), 1.2. (Commission Théologique Internationale, Textes et documents I [1969-1985], Préface du Cardinal J. Ratzinger, Cerf, Paris, 2013, p. 301-302).

[2] Cfr., entre autres, les études de J. Hamer – Y. Congar, La Liberté religieuse. Déclaration «Dignitatis humanae personae», Cerf, Paris, 1967; R. Minnerath, Le Droit de l’Église à la liberté. Du Syllabus à Vatican II, Beauchesne, Paris, 1982 ; D. Gonnet, La Liberté religieuse à Vatican IILa contribution de John Courtney Murray, Cerf, Paris, 1994 ; S. Scatena, La Fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa del Vaticano II, Il Mulino, Bologna, 2003 ; R. A. Siebenrock, «Theologischer Kommentar zur Erklärung über die Religionsfreiheit Dignitatis Humanae », dans Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, Bd. IV, Herder, Freiburg, 2005, p. 125-218 ; G. del Pozo, La Iglesia y la libertad religiosa, BAC,Madrid, 2007 ; R. Latala – J. Rime (éd.), Liberté religieuse et Église catholique. Héritage et développements récents, Academic Press Fribourg, Fribourg, 2009 ; J. L. Martínez, Libertad religiosa ydignidad humana. Claves católicas de una gran comprensión, San Pablo-UPC, Madrid, 2009 ; D. L. Schindler – N. J. Healey Jr., Freedom, Truth, and Human Dignity. The Second Vatican Council’s Declaration on Religious Freedom, Eerdmans, Grand Rapids (Mi), 2015 ; S. Noceti – R. Repole (a cura di), Commentario ai Documenti del Vaticano II, Vol. 6 : Ad Gentes, Nostra Aetate, Dignitatis Humanae, Dehoniane, Bologna, 2018.

[3] Cf. Grégoire XVI, Lettre encyclique Mirari vos (15 août 1832) ; Bx Pie IX, Lettre encyclique Quanta cura (8 décembre 1864).

[4] Cf. Pie XII, Radiomessage de Noël «Benignitas et Humanitas » aux peuples du monde entier (24 décembre 1944) (AAS 37 [1945], p. 10-23).

[5] Cf. saint Jean XXIII, Lettre encyclique Pacem in terris (11 avril 1963), n. 18 (AAS 55 [1963], p. 261).

[6] Ibid., n. 9, 14, 45-46, 64, 75 (AAS [1963], p. 260-261, 268-269, 275, 279). Ces perspectives deviendront constantes à partir du Concile œcuménique Vatican II. Cf. Constitution pastorale Gaudium et spes (7 décembre 1965), n. 17 ; saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Veritatis Splendor (6 août 1993), n. 35-41 (AAS 85 [1993], p. 1161-1166) ; Catéchisme de l’Église Catholique, n. 1731-1732 ; Benoit XVI, Lettre encyclique Caritas in veritate (9 juin 2009), n. 9, 17 (AAS 101 [2009], p. 646-647, 652-653).

[7] À ce sujet, voir plus avant les numéros 41, 42 et 76.

[8] Cf. aussi Concile œcuménique Vatican II, Déclaration Nostra Aetate (28 octobre 1965), n. 1, 5.

[9] Lorsqu’il se réfère à l’athéisme le Concile propose une description existentielle de la condition religieuse comme appartenant à l’expérience commune des hommes. (Cf. Concile œcuménique Vatican II, Constitution pastorale Gaudium et Spes [7 décembre 1965], n. 19-21). C’est une réflexion constante dans les textes ecclésiaux postconciliaires. Voir les synthèses du Catéchisme de l’Église Catholique, n. 27-30 ou du Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 14-15, et aussi les documents de la Commission Théologique Internationale Le Christianisme et les religions (1996), n. 107-108 (Commission Théologique Internationale, DocumentsII [1986-2009], édité par G. Emery, o.p., Préface du Cardinal William Joseph Levada, Cerf, Paris, 2013, p. 260-262) ; Dieu Trinité, unité des hommes. Le monothéisme chrétien contre la violence (2014), n. 1-2.

[10] Voir plus loin le n. 44. Une synthèse significative sur la doctrine ecclésiale se trouve dans le Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 421-423.

[11] Cf. saint Paul VI, Lettre encyclique Ecclesiam suam (6 août 1964), n. 30, 72, 81, 90 et passim (AAS 56 [1964], p. 618-619, 641-642, 644, 646-647) ; Discours au corps diplomatique accrédité près le Saint Siège, 14 janvier 1978 (AAS 70 [1978)], p. 168-174).

[12] Saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Redemptoris missio (7 décembre 1990), n. 39 (AAS 83 [1991], p. 286-287).

[13] Saint Jean-Paul II, Message pour la célébration de la XXIe Journée Mondiale de la Paix, « La liberté religieuse, condition pour vivre ensemble la paix » (1 janvier 1988) (AAS 80 [1988], p. 278-286).

[14] Cf. saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Redemptor hominis (4 mars 1979), 12b-c ; 17f-i (AAS 71 [1979], p. 279-281, 297-300) ; Rencontre avec les représentants des religions non chrétiennes à Madras (5 Février 1986), n. 5 (AAS 78 [1986], p. 766-771) ; Exhortation apostolique Christifideles laici (30 décembre 1988), n. 39 (AAS 81 [1989], p. 466-468) ; Message pour la célébration de la XXIe Journée Mondiale de la Paix, «La liberté religieuse, condition pour vivre ensemble la paix » (1er janvier 1988) (AAS 80 [1988], p. 278-286) ; Message pour la célébration de la XXIIe Journée Mondiale de la Paix, «Pour construire la paix, respecter les minorités »(1er janvier 1989) (AAS 81 [1989], p. 95-103) ; Message pour la célébration de la XXIVe Journée Mondiale de la Paix« Si tu veux la paix, respecte la conscience de tout homme » (1 janvier 1991) (AAS 83 [1991], p. 410-421).

[15] Cf. Benoît XVI, Message pour la célébration de la XLIVe Journée Mondiale de la Paix, « Liberté religieuse, chemin vers la paix », (1er janvier 2011)(AAS 103 [2011], p. 46-58). Voir aussi : Lettre encyclique Caritas in veritate (29 juin 2009), n. 29 (AAS 101 [2009], p. 663-664) ; Discours aux membres du Corps diplomatique accrédité auprès du Saint Siège (12 mai 2005) (AAS 97 [2005], p. 789-791) ; Discours à la curie romaine à l’occasion de la présentation des vœux de Noël (22 décembre 2006) (AAS 99 [2007], p. 26-36) ; Discours aux représentants de la science,« Foi, raison et université. Souvenirs et réflexions » (Ratisbonne, 12 septembre 2006) (AAS98 [2006], p. 728-739) ; Discours aux membres duCorps diplomatique accrédité auprès du Saint Siège (10 janvier 2011)(AAS 103 [2011], p. 100-107) ; Discours aux autorités civiles, Westminster, 17 septembre 2010 (AAS 102 [2010], p. 633-635) ; Discours aux représentants institutionnels et laïcs des autres religions (London Borough of Richmond, 17 septembre 2010) (AAS 102 [2010], p. 635-639) ; Homélie (La Havane, Cuba, 28 mai 2012) (AAS 104 [2012], p. 322-326).

[16] Benoît XVI, Message pour la célébration de la XLIVe Journée Mondiale de la Paix, « Liberté religieuse, chemin vers la paix », (1erjanvier 2011), n. 4(AAS 103 [2011], p. 49-50). Pour la signification de l’expression « laïcité positive », voir plus loin note 72. Benoît XVI propose en d’autres occasions le terme de « saine laïcité » pour identifier la modalité valable du rapport entre la dimension éthico-religieuse et la politique « (…) où la dimension religieuse, dans la diversité de ses expressions, est non seulement tolérée, mais valorisée comme ‘âme’ de la nation et garantie fondamentale des droits et des devoirs de l’homme » (Audience générale, 30 avril 2008). Déjà Pie XII avait parlé de « légitime saine laïcité de l’État » : Discours aux gens des Marches résidents à Rome, 23 mars 1958 (AAS 50 [1958], p. 220).

[17] Cf. François, Exhortation apostolique Evangelii gaudium (24 novembre 2013), n. 257(AAS 105 [2013], p. 1123) ; Discours lors de la rencontre avec les autorités (Ankara, 28 novembre 2014) (AAS 106 [2014], p. 1017-1019) ; Discours lors de la rencontre avec les leaders des autres religions et autresdénominations chrétiennes à l’Université Catholique « Nostra Signora del Buon Consiglio » (Tirana, 21 septembre 2014) (Enchiridion Vaticanum. Documenti ufficiali della Santa Sede, vol. 30 [2014], Dehoniane, Bologna, 2016, p. 1023-1027) ; Discours lors de la rencontré pour la liberté religieuse avec la communauté hispanique et autres immigrés (Philadelphie, 26 septembre 2015) (AAS 107 [2015], p. 1047-1052).

[18] Benoît XVI, Discours à la Curie romaine à l’occasion de la présentation des vœux de Noël (22 décembre 2005) (AAS 98 [2006], p. 46) ; cf. François, Exhortation apostolique Evangelii gaudium, n. 129 (AAS 105 [2013], p. 1030-1033).

[19] Cf. Concile œcuménique Vatican II, Constitution pastorale Gaudium et spes, n. 53c ; saint Paul VI, Exhortation apostolique Evangelii nuntiandi (8 décembre 1975), n. 18-20 (AAS 68 [1976], p. 17-19) ; saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Slavorum Apostoli(2 juin 1985), n. 21 (AAS 77 [1985], p. 802-803) ; François, Exhortation apostolique Evangelii gaudium, n. 116-117 (AAS 105 [2013], p. 1068-1069) ; Commission Théologique Internationale, Foi et inculturation (1988) 1.[11] (Documents II, p. 35). Pour la distinction entre « inculturation » et « interculturalité », voir J. Ratzinger, « Christ, Faith and The Challenge of Cultures », Address Given to the Presidents of Asian Bishops’ Conferences and Chairmen of Theological Commissions, Hong-Kong, March 2-5, 1993 (voir le texte sur le site officiel http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/index_it.htm).

[20] Commission Théologique Internationale, Communion et service : la personne humaine créée à l’image de Dieu (2004), n41 (Documents II, p. 457-458), qui réfère la socialité constitutive à sa racine ultime dans le mystère trinitaire : « Dans la perspective chrétienne, cette identité personnelle qui est en même temps une orientation vers l’autre se fondeessentiellement dans la Trinité des personnes divines » ; cf. aussi n. 42-43 (Documents II, p. 458-459). Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 149 : « La personne est de par saconstitution un être social, car ainsi l’a voulue Dieu qui l’a créée ».

[21] Déclaration universelle des droits de l’homme (1948), art.18 : « Toute personne a droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion ; ce droit implique la liberté de changer de religion ou de conviction ainsi que la liberté de manifester sa religion ou sa conviction seule ou en commun, tant en public qu'en privé, par l’enseignement, les pratiques, le culte et l'accomplissement des rites ».

[22] Voir à ce sujet Commission Théologique Internationale, Dignité et droits de la personne humaine (1983) 2 (Documents I, p. 303-310) ; Compendium de la Doctrine sociale de l’Église, n.144-148.

[23] Boèce, Liber de persona et duabus naturis. Contra Eutychen et Nestorium, dans C. Moreschini (ed.), A.M.S. Boethius, De consolatione philosophiae. Opuscula theologica (= Bibliotheca scriptorum graecorum et romanorum teubneriana), Saur, Monachii – Lipsiae, 2000, p. 206–241 [p. 214]. Cf. saint Bonaventure, Commentaria in quatuor libros sententiarum Magistri Petri Lombardi, I, d. 25, a. 1, q. 2, dans Opera omnia, vol. ITypographia Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas, 1882, p. 439-441; saint Thomas d’Aquin, Summa Theologiae, Ia, q. 29, a. 1, dans Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, vol.1, ex Typographia Polyglotta, Romae, 1888, p. 327-329.

[24] Cf. saint Thomas d’Aquin, Summa contra gentiles, II, c. 68, dans Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, vol.13, Typis Riccardi Garroni, Romae, 1918, p. 440-441. Cf. Concile de Vienne (DS 902) ; Concile de Latran V (DS 1440) ; Concile œcuménique de Vatican II, Constitution pastorale Gaudium et Spes, n. 14 ; Catéchisme de l’Église Catholique, n. 362-368.

[25] Commission Théologique Internationale, Communion et service, n. 31 (Documents II, p. 453).

[26] La Sainte Écriture est constante dans son enseignement à ce sujet : « Ne savez-vous pas que votre corps est le temple de l’Esprit-Saint qui est en vous ? » (1 Co 6,19). Par conséquent, dans le Christ, comme l’enseigne le Catéchisme de l’Église catholique, n. 999 « tous ressusciteront avec leur propre corps, qu’ils ont maintenant’ (DS 801), mais ce corps sera ‘transfiguré en corps de gloire’ (Ph 3, 21), en ‘corps spirituel’ (1 Co 15, 44) ». Voir aussi Commission Théologique Internationale, Communion et service, n. 26-31 (Documents II, p. 450-453).

[27] Benoît XVI Discours devant le Bundestag, Berlin, 22 septembre 2011 (AAS 103 [2011], p. 663-669).

[28] Commission Théologique Internationale, À la recherche d'une éthique universelle : nouveau regard sur la loi naturelle (2009), n. 67 (Documents II, p. 598).

[29] Ibid.

[30] Ibid. Voir aussi Commission Théologique Internationale, Dignité et droits de la personne humaine (1983) 2.2.1 (Documents I, p. 306-307). Sur le rapport créatif entre théologie et philosophie, voir la synthèse de saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Fides et Ratio,n. 73-79 (AAS 91 [1999], p. 61-67).

[31] Sur les implications théologiques de la conception de l’être humain comme « imago Dei » cf. Commission Théologique Internationale, Communion et service, 2 (Documents II, p. 450-464).

[32] Cf. Commission Théologique Internationale, Dignité et droits de la personne humaine (1983), 2.2.1 (Documents I, p. 306-307) ; également Communion et service, n. 40-43 (Documents II, p. 457-459).

[33] Catéchisme de l’Église Catholique, n. 1778.

[34] Cf. saint Thomas d’Aquin, Summa Theologiae, Ia-IIae, q. 19, a. 5, dans Opera omnia iussu Leonis XIII P.M. edita, vol. 6, Ex Typographia Polyglotta, Romae, 1891, p. 145-146.

[35] Concile œcuménique Vatican II, Constitution pastorale Gaudium et Spes, n. 16.

[36] Concile œcuménique Vatican II, Constitution dogmatique Dei Verbum (18 novembre 1965), n. 5.
[37] Cf. Commission Théologique Internationale, Mémoire et réconciliation : l’Église et les fautes du passé (2000), 5.c (Documents II, p. 307-308).

[38] Dans la culture romaine, Virgile décrit avec perspicacité comment la déesse Junon, pour se venger d’Énée, envoie la Furie Alecto semer haine et division dans les cœurs des habitants du Latium, avec le résultat effectif qu’une guerre cruelle, pleine de jalousies et de rancunes, éclate, et le jeune héros ne peut pas atteindre son but. Cf.Virgile, Aeneis, VII, 341-405, dans O. Ribbeck (ed.), P. Vergilii Maronis Opera, Lipsiae, Teubner, 1895, p. 554-557.

[39]Concile œcuménique Vatican II, Constitution pastorale Gaudium et Spes, n. 25a : « La personne humaine qui, de par sa nature même, a absolument besoin d’une vie sociale, est et doit être le principe, le sujet et la fin de toutes les institutions ».

[40] Cf. E. Kant, Critique de la raison pratique, Première partie, livre I, chap. III ; Commission Théologique Internationale, À la recherche d'une éthique universelle, n. 84 (Documents II, p. 607) : « La personne est au centre de l’ordre politique et social parce qu’elle est une fin et non un moyen ».

[41] Cf. Commission Théologique Internationale, À la recherche d'une éthique universelle, n. 41 (Documents II, p. 582-583) ;Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 110, 149.

[42] Cf. Commission Théologique Internationale, À la recherche d'une éthique universelle, n. 38 (Documents II, p. 580-581).

[43]Cf. Commission Théologique Internationale, Communion et service, n. 41-45 (Documents II, p. 457-460) ; Foi et inculturation, 1.6 (Documents II, p.34).

[45] À l’occasion du soixantième anniversaire de la Déclaration des droits de l’homme, le Saint-Siège a attiré l’attention sur le fait qu’il y a aujourd’hui un problème avec la reconnaissance arbitraire de pures options et inclinations, manipulées idéologiquement, qui n’ont pas grand-chose à voir avec les droits de l’homme authentiques. Dans beaucoup de cas, l’aptitude de ces contenus à représenter la dignité de l’humain universel n’est pas réellement examinée d’après le critère de son apport effectif au bien commun. Cf. Mgr S. M. Tommasi, Intervention à la sixième session ordinaire du Conseil des droits de l’homme, 10 décembre 2007, Genève.

[46] Commission Théologique Internationale, Communion et service, n. 36 (Documents II, p. 455).

[47] Cf. saint Jean-Paul II, Lettre apostolique Mulieris Dignitatem (15 août 1988), n. 12-16 (AAS 80 [1988], 1681-1692).

[48] Cf. saint Jean-Paul II, Exhortation apostolique Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 22-24 (AAS 74 [1982], p. 84-91) ; Lettre apostolique Mulieris dignitatem, n. 1 (AAS 88 [1988], p. 1653-1655).

[49] Cf. saint Jean-Paul II, Exhortation apostolique Familiaris consortio, n. 4-10, 36-41 (AAS 74 [1982], p. 84-91, 126-133). Voir les défis récents identifiés par François, Exhortation apostolique Amoris Laetitia (19 mars 2016), n. 50-56 (AAS 108 [2016], p. 331-335). Cf. Commission Théologique Internationale, À la recherche d'une éthique universelle, n. 35, 92 (Documents II, p. 578-579 ; 611).

[50] C’est là une des contributions maintenant reçues de Paul Ricœur. Voir, par exemple, Temps et récit, 1. L’intrigue et le récit historique, Seuil, Paris, 1983.

[51] Cf. Concile œcuménique Vatican II, Constitution dogmatique Dei Verbum, n. 7-8 ; Constitution dogmatique Lumen Gentium (21 novembre 1964), n. 3-4 et passim. Aussi Commission Théologique Internationale, Thèmes choisis d’ecclésiologie (1984), 1 (Documents I, p. 326-329).

[52] Cf. Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 151.

[53] Sur ce sujet, demeure comme référence le dialogue de J. Habermas – J. Ratzinger, Raison et religion. La dialectique de la sécularisation, Salvator, Paris, 2010.

[54] Cf. François, Lettre encyclique Laudato Si’ (24 mai 2015), n. 137-162 (AAS 107 [2015], p. 902-912).

[55] Le concept de corps intermédiaires appartient à l’origine à la doctrine sociale de l’Église. Le pape Léon XIII le propose déjà dans l’encyclique Rerum Novarum (15 mai 1891) au n. 10-11 (sur la famille) et aux n. 38 et 41 (pour d’autres associations : societates/sodalitates) (ASS 23 [1891], p. 646, 665-666). Saint Jean XXIII dans l’encyclique Mater et Magistra (15 mai 1961), n. 52 (AAS 53 [1961], p. 414), affirme : « Nous estimons, en outre, nécessaire que les corps intermédiaires et les initiatives sociales diverses, par lesquelles surtout s’exprime et se réalise la ‘socialisation’, jouissent d’une autonomie efficace devant les pouvoirs publics, qu’ils poursuivent leurs intérêts spécifiques en rapports de collaboration loyale entre eux et de subordination aux exigences du bien commun. Il n’est pas moins nécessaire que ces corps sociaux se présentent en forme de vraie communauté ; cela signifie que leurs membres seront considérés et traités comme des personnes, stimulés à participer activement à leur vie ». Saint Jean-Paul II le reprend dans la lettre encyclique Centesimus annus (1er mai 1991), n. 13 (AAS 83 [1991], p. 809-810). L’idée décisive n’est pas celle de « corps », mais celle d’« intermédiaires ». Chaque groupe intermédiaire doit être conscient de sa fonction de médiation au sein de la société toute entière et pour le service du bien commun

[56] Cf. Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 185-186, 394 ; aussi Catéchisme de l’Église Catholique, n. 1880-1885, sur le principe de subsidiarité.

[57] Voir à ce sujet Concile œcuménique Vatican II, Décret Inter mirifica (4 décembre 1963) ; saint Jean-Paul II, Lettre apostolique Le progrès rapide (24 janvier, 2005) (AAS 97 [2005], p. 188-190) ; id., Lettre encyclique Redemptoris missio, n. 37 (AAS 83 [1991], p 282-286) ; id., Message pour la XXXVIe Journée Mondiale des Communications Sociales : « Internet : un nouveau forum per proclamer l’Évangile » (24 janvier 2002) (Enchiridion Vaticanum 21 [2002], p. 29-36) ; François, Message pour la Le Journée des Communications Sociales : « Communications e miséricorde : une rencontre féconde » (24 janvier 2016) (AAS 108 [2016], p. 157-160) ; Conseil Pontifical pour les Communications Sociales, Église et Internet (2 février 2002), n. 4.

[58]Cf. S. C. Mimouni, Le Judaïsme ancien du VIe siècle avant notre ère au IIIe siècle de notre ère : des prêtres aux rabbins, Paris, Presses universitaires de France, Collection « Nouvelle Clio », 2012.

[59] Voir le commentaire du Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 379.

[60] Cf. Pline le Jeune, Epistula X, 96 dans R.A.B. Mynors (ed.), C. Plini Secundi epistularum libri decem, Clarendon Press, Oxford 1963, p. 338-340.

[61] La persécution à cause de la foi et la confession du martyre marquent la réflexion de l’Apocalypse, à la lumière du premier témoin fidèle qu’est le Christ ; cf. Ap 1,5 ; 7,9-17 ; 13-14, etc.
[62] Cf. saint Augustin, De civitate Dei, XIX, 17 (CCSL 48, 683-685).

[63] Augustin lui-même en viendra à adhérer à la nécessité d’un « contrôle religieux » de la part de l’État. Ce changement d’opinion est présenté comme rendu nécessaire par le fait que les hérétiques et les schismatiques, les premiers, ont fait appel au « pouvoir civil » pour faire reconnaître la légitimité de leur déviation religieuse par rapport à la foi chrétienne orthodoxe. Cf. saint Augustin, Epistula XCIII, 12-13.17 (CCSL 31A, p. 175-176.179-180) ; aussi Epistula CLXXIII, 10 (PL 33, col. 757) ; Sermo XLVI, 14 (CCSL 41, p. 541).

[64] Dans des contextes historiques très différents, Gelase, Epistula “Famuli vestrae pietatis” ad Anastasium I imperatorem (494, DS347) ; Léon XIII, Lettre encyclique Immortale Dei (1 novembre 1885), nº 6 (ASS 18 [1885]), p. 166), pour la correcte distinction mais non la séparation radicale entre l’ordre politique et l’ordre religieux.

[65] Concile œcuménique Vatican II, Constitution pastorale Gaudium et Spes, n. 76. « Sur le terrain qui leur est propre, la communauté politique et l’Église sont indépendantes l’une de l’autre et autonomes. Mais toutes deux, quoique à des titres divers, sont au service de la vocation personnelle et sociale des mêmes hommes. Elles exerceront d’autant plus efficacement ce service pour le bien de tous qu’elles rechercheront davantage entre elles une saine coopération, en tenant également compte des circonstances de temps et de lieu. L’homme, en effet, n’est pas limité aux seuls horizons terrestres, mais, vivant dans l’histoire humaine, il conserve intégralement sa vocation éternelle ». On verra aussi les précisions apportées par la Congrégation pour la Doctrine de la Foi : Note doctrinale à propos de questions sur l’engagement et le comportement des catholiques dans la vie politique (24 novembre 2002), n. 6.

[66] Cf. Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 167.

[67] Cf. Compendium de la Doctrine Sociale de l’Église, n. 396.

[68] Pour un vaste panorama historique et sociologique du développement du soi-disant « humanisme exclusif », entendu comme unique espace public de référence, cf. C. Taylor, L’Âge séculier, traduit de l’anglais par P. Savidan, « Les livres du nouveau monde », Seuil, Paris, 2011.

[69] Ce phénomène se produit souvent aussi dans des continents comme l’Asie, bien que dans un contexte différent : « La limitation de la liberté religieuse dans beaucoup de constitutions s’exprime moyennant la clause ‘pourvu que cela ne soit pas contraire aux devoirs civiques ou à l’ordre public ou à la droite morale’ ; cependant, le bien commun et l’ordre public sont définis par les cercles du pouvoir et dans certaines occasions la phrase ‘soumis à la loi, l’ordre public ou à la moralité’ a été utilisée pour nier de facto la liberté à certains groupes » (Federation of Asian Bishops’ Conferences Office of Theological Concerns, FABC Papers, n. 112, « Religious Freedom in the Context of Asia », p. 7). Surtout dans la situation des minorités, il est important que les autorités de l’État assurent un « respect égal pour toutes les religions », en tant que celles-ci sont en mesure de préserver le sens universel du bien commun (cf. infra n° 70).

[70] François, Discours lors de la rencontre avec les responsables des diverses confessions religieuses à l’Université catholique « Notre-Dame du Bon Conseil » (Tirana, 21 septembre 2014) (Enchiridion Vaticanum 30 [2014], p. 1514-1524, 1515).

[71] Se référant à cette mentalité la Congrégation pour la Doctrine de la Foi rappelle que « aucun fidèle chrétien ne peut cependant en appeler au principe du pluralisme et de l’autonomie des laïcs en politique pour favoriser des solutions qui compromettent ou qui atténuent la sauvegarde des exigences éthiques fondamentales pour le bien commun de la société » (Note doctrinale concernant certaines questions sur l’engagement et le comportement des catholiques dans la vie politique, n. 5).

[72] « Vous avez d’ailleurs utilisé, Monsieur le Président, la belle expression de ‘laïcité positive’ pour qualifier cette compréhension plus ouverte. En ce moment historique où les cultures s’entrecroisent de plus en plus, je suis profondément convaincu qu’une nouvelle réflexion sur le vrai sens et sur l’importance de la laïcité est devenue nécessaire. Il est en effet fondamental, d’une part, d’insister sur la distinction entre le politique et le religieux, afin de garantir aussi bien la liberté religieuse des citoyens que la responsabilité de l’État envers eux, et d’autre part, de prendre une conscience plus claire de la fonction irremplaçable de la religion pour la formation des consciences et de la contribution qu’elle peut apporter, avec d’autres instances, à la création d’un consensus éthique fondamental dans la société » (Benoît XVI, Rencontre avec les autorités à l’Élysée, Paris [12 septembre 2008] ; La Documentation catholique 105 [2008], p. 824-825).

[73] Saint Jean-Paul II utilise la catégorie du bien de l’« être-ensemble » à propos de la famille dans la Lettre aux famillesGratissimam sane (2 février 1994), n. 15 f (AAS 86 [1994], p. 897). François parle d’« être ensemble dans la proximité » pour « promouvoir la reconnaissance réciproque » (Exhortation apostolique Amoris Laetitia, n. 276-277 ; AAS 108 [2016], p. 421-422).

[74] François a parlé d’une « troisième guerre menée ‘par morceaux’, avec crimes, massacres, destructions… » dans l’homélie de la Messe au Cimetière Militaire de Redipuglia à l’occasion du centenaire du début de la Première Guerre Mondiale, 13 septembre 2014 (AAS 106 [2014], p. 744).

[75] Selon les statistiques du Haut-Commissariat des Nations Unies aux Réfugiés, il y a dans le monde environ 65,6 millions de personnes forcées à laisser leur habitat, le chiffre le plus élevé jamais rencontré, dont 22,5 millions de réfugiés (voir le site officiel : http://www.unhcr.org/data.html).

[76] Cfr. François, Discours lors de la rencontre pour la liberté religieuse avec la communauté hispaniqueet d’autres immigrés(Philadelphia26 Septembre 2015) (AAS 107 [2015], p. 1047-1052). Pour le panorama contemporain on peut consulter : C. Grütters – D. Dzananovic (eds.), Migration and Religious Freedom. Essays on the Interaction between Religious Duty and Migration Law, Wolf Legal Publisher, Nijmegen, 2018.

[77] Pie XII avait déjà rappelé en des temps bien sombres la sauvegarde de ce bien élémentaire qu’est « l’inaliénable droit de l’homme à la sécurité juridique, et par là même à une sphère concrète de droit, protégée contre toute atteinte arbitraire » (Radiomessage pour la Vigile de Noël [24 décembre 1942], n. 4 ; AAS 35 [1943], p. 21-22).

[78] Cf. Benoît XVI, « Foi, Raison et Université : souvenirs et réflexions » Discours lors de la rencontre avec les représentants du monde des sciences à l'Université de Ratisbonne (12 septembre 2006) (AAS 98 [2006], p. 728-739).

[79] Cf. quelques références du magistère pontifical à la réciprocité dans les rapports internationaux, en particulier en matière religieuse : saint Jean XXIII, Pacem in terris, n. 15 (AAS 55 [1963], p. 261 ; saint Paul VI, Ecclesiam suam, n. 112 (AAS 56 [1964], p. 657) ; saint Jean-Paul II, Rencontre avec les jeunes musulmans (Casablanca, 19 août 1985) (AAS 78 [1986], p. 99) : « Le respect et le dialogue requièrent donc la réciprocité en tous les domaines, surtout en ce qui concerne les libertés fondamentales et plus particulièrement la liberté religieuse. Ils favorisent la paix et l’entente entre les peuples. Ils aident à résoudre ensemble les problèmes des hommes et des femmes d’aujourd’hui, in particulier ceux des jeunes » ; id., Exhortation apostolique Ecclesiain Europa (28 juin 2003), n. 57 (AAS 95 [2003], p. 684-685) ; Benoît XVI, Rencontre avec le corps diplomatique près la République de Turquie (28 novembre 2006) (AAS 98 [2006], p. 905-909) ; id., Rencontre avec les représentants des autres religions (Washington D.C., 17 avril 2008) (AAS 100 [2008], 327-330). L’Exhortation apostolique Verbum Domini (30 septembre 2010), n. 120, invite aussi à la réciprocité en matière de liberté religieuse (AAS 102 [2010], p. 783-784).

[80] On peut voir les rapports sur la situation de la liberté religieuse dans le monde, présentés régulièrement par des institutions de référence comme Kirche in Not (voir le site officiel http://religious-freedom-report.org) ou Pew Research Center (voir le site officiel http://www.pewresearch.org/).

[81] Cf. saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Evangelium Vitae (25 mars 1995), n. 73-74 (AAS 87 [1995], p. 486-488).

[82]Saint Ambroise, Epist. extra coll. 14, 96, dans M. Zelzer (ed.), Epistularum liber decimus. Epistulae extra collectionem. Gesta concili Aquileiensis (CSEL 82/3), Hoelder-Pichler-Tempsky, Vindobonae 1982, p. 287.

[83] Cf. Concile œcuménique Vatican II, Déclaration Ad Gentes (7 décembre 1965), n. 12. On trouve un exemple concret de la réflexion des Églises locales per mettre en œuvre l’enseignement de Ad Gentes 12 dans : Federation of Asian Bishops’ Conferences Papers, n. 138, « FABC at Forty Years : Responding to the Challenges of Asia : 10th FABC Plenary Assembly, 10-16 December 2012, Vietnam », p. 1-84.

[84] Sur le rapport entre anthropologie et christologie, cf. Commission Théologique Internationale, Questions choisies de christologie (1979), III (Documents I, p. 228-232) ; Théologie, christologie, anthropologie (1981), I, D (Documents I, p. 249-252) ; Communion et service, n. 52 (Documents II, p. 462-463).

[85] Cf. saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Redemptor Hominis (4 mars 1979), n. 10 (AAS 71 [79], p. 274-275).

[86] Cf. François, Lettre encyclique Laudato Si’, n. 115-121 (AAS 107 [2015], p. 893-895).

[87] Cf. François, Exhortation apostolique Evangelii Gaudium, n. 93-97 (AAS 105 [2013], p.1059-1061).

[88] Cf. François, Discours lors de la rencontre pour la liberté religieuse avec la communauté hispanique et autres immigrés(Philadelphie26 Septembre 2015) (AAS 107 [2015], p. 1047-1052).

[89] Cf. saint Paul VI, Lettre encyclique Ecclesiam suam, n. 67-81 (AAS 56 [1964], p. 640-645) ; saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Redemptoris Missio, n. 55 (AAS 83 [1991], p. 302-304) ; François, Exhortation apostolique Evangelii Gaudium, n. 250-251 (AAS 105 [2013], p. 1120-1121). Voir la vaste documentation recueillie dans : Conseil pontifical pour le dialogue interreligieux, Le Dialogue interreligieux dans l’enseignement officiel de l'Église catholique, Du Concile Vatican II à Jean-Paul II (1963-2005), Documents rassemblés par Mgr Francesco Gioa, Éditions de Solesmes, Solesmes, 2006.

[90] Cf. saint Jean-Paul II, Exhortation apostolique Ecclesia in Asia (6 novembre 1999), n. 31 (AAS 92 [2000], p. 501-503).

[91] Cf. ibid., n. 29 (AAS 92 [2000], p. 498-499).

[92] Cf. saint Jean-Paul II, Lettre encyclique Redemptoris Missio, n. 57 (AAS 83 [1991], p. 305).

[93] Cf. Concile œcuménique Vatican II, Déclaration Ad Gentes, n. 12.

[94] Cf. Concile œcuménique Vatican II, Déclaration Nostra Aetate, n. 2.

[95] Cf. Concile œcuménique Vatican II, Déclaration Dignitatis Humanae, n. 2-4.

[96] Cf. saint Paul VI, Lettre encyclique Ecclesiam suam, n. 91 (AAS 56 [1964], p. 648-649).

[97] « Personne ne peut utiliser le nom de Dieu pour commettre de la violence ! Tuer au nom de Dieu est un grand sacrilège ! Discriminer au nom de Dieu est inhumain » : François, Rencontre avec les responsables des diverses Confessions religieuses à l’Université catholique « Notre-Dame du Bon Conseil » (Tirana, 21 septembre 2014) (Enchiridion Vaticanum 30 [2014], p. 1514-1524, 1518).

[98] Cf. Commission Théologique Internationale, Dieu Trinité, unité des hommes. Le monothéisme chrétien contre la violence (2014), n. 64.

[99] Le témoignage exceptionnel rendu par le testament du P. Christian de Chergé, prieur du monastère cistercien de Notre-Dame de l’Atlas à Thibirine et récemment proclamé bienheureux avec dix-huit autres martyrs en Algérie (8 décembre 2018), montre cette paradoxale force d’union de l’amour jusqu’au cas limite du martyre. Cf. Christian de Chergé, Lettres à un ami fraternel, Bayard, Paris, 2015.

[100] Cf. François, Discours à l’Ordre du Saint-Sépulcre (16 novembre 2018) dans Osservatore Romano 21 novembre 2018, Anno CLVIII/262 (2018), p. 8.

Saint AGUSTIN CALOCA CORTES, prêtre et martyr

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Agustín Caloca Cortés
1898-1927

Agustín était né le 5 mai 1898 à Teúl de González Ortega (Zacatecas, Mexique), un des dix enfants de J.Edwiges Caloca et María Plutarca Cortés.

A cinq ans, le petit Agustín eut la variole, dont les conséquences firent que ses bras restèrent comme atrophiés, ce qui ne l’empêcha pas de jouer allègrement avec ses camarades.

Il reçut sa première formation du curé du village lequel, voyant des signes de vocation sacerdotale, le dirigea vers le séminaire de Guadalajara (1912).

Après deux années, il fut obligé de revenir chez lui, car le séminaire était menacé par les troupes révolutionnaires. 

Lorsque le curé de Totatiche ouvrit un séminaire dans sa paroisse, Agustín y fut admis pour terminer ses études de latin et de philosophie. Or, le curé était justement Cristóbal Magallanes.

Après les études de théologie, Agustín fut ordonné prêtre en 1923. A la demande du même Cristóbal Magallanes, Agustín fut nommé vicaire de Totatiche et professeur au séminaire : c’est que, durant ses années de préparation, on avait noté ses qualités excellentes d’humilité, d’obéissance, de piété. On jugeait avec raison qu’il pouvait être un excellent modèle pour les jeunes séminaristes.

Au début de 1927, il fut contraint, avec les douze séminaristes, de se réfugier à Cocoazco. En mai, il dut cependant se rendre à Totatiche pour voir où en était la situation des autres séminaristes. Or, le 21 mai vers dix heures du matin, on apprit que des soldats se trouvaient à l’entrée de Totatiche. Le père Agustín conseilla à tout le monde de se disperser rapidement dans les maisons alentour.

Lui et un autre séminariste cherchèrent à mettre en sûreté des livres ; en cours de route, Agustín remarquait l’inquiétude du séminariste et le rassura.

A un certain moment, Agustín conseilla au séminariste de cacher les livres sous une grosse pierre. Pendant qu’il y était, une troupe de soldats passa, bousculant des Cristeros. Le séminariste était derrière un tronc d’arbre ; quand il sortit de sa cachette, le père Agustín avait disparu.

En réalité, la troupe, guidée par le général Goñi, avait enlevé Agustín et l’avait emmené à Totatiche. Le même jour, on arrêta le curé, Cristóbal Magallanes. Tous deux se retrouvèrent en prison, avec quatre Cristeros.

On proposa à Agustín la liberté, en raison de son jeune âge, mais il ne voulut pas se séparer de son curé.

Les habitants supplièrent le général de libérer ces prêtres qui étaient si pacifiques. Le général promit sur l’honneur de les transférer à Mexico, où leur vie ne serait pas en danger. Les faits furent assez différents.

Le 23 au matin, les deux prêtres furent conduits, via Momáx, à Colotlán, où ils arrivèrent le 25 au matin. Un ordre semblait devoir les faire partir pour Mexico : c’était en réalité pour aller les fusiller.

Devant la mort, le père Agustín dit seulement ces mots de saint Paul : 

C’est pour Dieu que nous vivons, c’est pour Lui que nous mourons (cf. Rm 14:8).

Agustín eut un moment de panique, comme pour éviter la décharge en se détournant ; le chef du peloton vint le «remettre en place» à coups de crosse dans le visage. Le père Magallanes le tranquillisa : Calme-toi, Père, Dieu a besoin de martyrs ; juste un instant, et nous serons au Ciel.

Les deux corps furent ensevelis sur place. Lorsqu’on voulut les transférer, en 1933, on s’aperçut que le cœur du père Caloca était incorrompu, parmi les os du Martyr. Une balle était restée incrustée dans ce cœur, preuve du martyre.

Le père Agustín Caloca a été béatifié en 1992 et canonisé en 2000.

Saint Agustin Caloca Cortes


Also known as
  • Agustin Caloca
  • Augustine Caloca
Profile

Studied at the seminary in Guadalajara, Mexico until it was closed down by anti-clerical government forces. He resumed his studies in the covert Auxiliary Seminary of Our Lady of Guadalajara founded by Saint Cristobal Magallanes. Ordained on 5 August1923. Prefect of the Auxiliary Seminary. Arrested for his continued religious work, and for unfounded suspicion of involvement in the armed Cristeros rebellion. Martyred with Saint Cristobal Magallanes. One of the Martyrs of the Cristera War.

Born

CALOCA CORTÉS, AGUSTÍN, ST.

Martyr, priest; b. May 5, 1898, La Presa Ranch, San Juan Bautista del Teúl, Zacatecas, Archdiocese of Guadalajara, Mexico; d. May 25, 1927, Colotitlán, Jalisco, Diocese of Zacatecas. After revolutionaries seized the seminary in Guadalajara, he retreated to his home, then resumed his studies in a minor seminary directed by Fr. magallanes. In 1919, he returned to the one at Guadalajara and was ordained (Aug. 15, 1923). He served as priest of the parish of Totatiche, Jalisco, as well as prefect of its minor seminary. He was also responsible for the surrounding ranches, founded catechetical centers, and organized a weekly social. He was arrested while helping his seminarians to escape and imprisoned with Magallanes at Totatiche. Because of his youth, he was offered his liberty, but he refused unless Magallanes was also released. General Goñi had him transferred to Colotitlán, where the prisoners were lined up against the wall for execution. His body was transferred to the parish church of Totalice (1933). In April 1952, his remains were translated to the parish of San Juan Bautista de Teúl. Fr. Caloca was both beatified (Nov. 22, 1992) and canonized (May 21, 2000) with Cristobal magallanes [see mexico, mar tyrs of, ss.] by Pope John Paul II.
Feast: May 25 (Mexico).
Bibliography: j. cardoso, Los mártires mexicanos (Mexico City 1953). j. dÍaz estrella, El movimiento cristero: sociedad y conflicto en los Altos de Jalisco (Mexico City 1979). v. garcÍa juÁrez, Los cristeros (Fresnillo, Zac. 1990).
[K. i. rabenstein]

Sant' Agostino Caloca Cortes Sacerdote e martire



San Juan Bautista de Teúl, Messico, 5 maggio 1898 - Catatlán, Messico, 25 maggio 1927

Nacque a San Juan Bautista de Teúl, Zacatecas (Arcidiocesi di Guadalajara), il 5 maggio 1898. Priore (diacono, economo) nella parrocchia di Totatiche e Prefetto del Seminario Ausiliare sito nello stesso paese, fu un esempio di purezza sacerdotale. Un militare, commosso per la sua giovane età, gli offrì la libertà; lui l'avrebbe accettata solo se fosse stata concessa anche al parroco Don Cristobal Magallanes. Di fronte al plotone di esecuzione, l'atteggiamento e le parole di quest'ultimo lo colmarono di forza, tanto che esclamò: "Grazie a Dio viviamo e per Lui moriamo". Il 25 maggio 1927 vennero fucilati insieme a Catatlán. Papa Giovanni Paolo II il 21 maggio 2000 li ha canonizzati insieme ad altre ventitré vittime della medesima persecuzione, uccise per aver difeso la loro fede in Cristo Re.

Emblema: Palma

Martirologio Romano: Nella cittadina di Catatlán nel territorio di Guadalajara in Messico, santi Cristoforo Magallanes e Agostino Caloca, sacerdoti e martiri, che, durante la persecuzione messicana, confidando strenuamente in Cristo Re, ottennero la corona del martirio. 

A 29 anni si può ancora aver paura di morire. Soprattutto se si ha, per natura, un carattere troppo sensibile, come Padre Agostino Cortes Caloca. In quei momenti è davvero una fortuna avere al proprio fianco un maestro, anzi un padre, che ti fa coraggio e ti sostiene. Agostino è nato in Messico il 5 maggio 1898 e nel suo fisico porta le conseguenze del vaiolo che lo ha colpito all’età di 5 anni: le sue braccia non si sono sviluppate come il resto del corpo e malgrado ciò è cresciuto vivace, allegro e molto socievole, facendo sport e giocando insieme ai coetanei, per supplire con l’esercizio fisico a quanto la malattia gli ha menomato.  In compenso ha un’intelligenza viva e una gran voglia di studiare, facendo intravedere anche i segni inequivocabili della vocazione al sacerdozio. Ed è così che a 14 anni si trova in seminario, ma due anni dopo deve tornare a casa perché questo ha chiuso i battenti a causa della persecuzione anticlericale che avanza. Non perde, però, la vocazione per strada: se ne accorge il parroco di Totatiche, Christopher  Magallanes, che si prende cura di lui e del suo cammino vocazionale. Così, appena la persecuzione sembra rallentare, lo fa rientrare in seminario per proseguire gli studi interrotti. E quando il 5 agosto 1923 viene ordinato sacerdote, chiede ed ottiene che Padre Agostino gli venga assegnato come collaboratore parrocchiale. Il parroco è come conquistato da quel giovane, profondamente buono, autenticamente puro, umile fino all’eccesso, che si dedica con entusiasmo alla pastorale parrocchiale e che sa conquistare i giovani. Generoso e disponibile, Padre Agostino si divide tra la parrocchia e il seminario, dove insegna e dove fa anche da assistente ai giovani seminaristi. Pallamano, nuoto e allegria, insieme al suo entusiasmo di giovane prete, sono la sua ricetta per agganciare i giovani e per proporre ad alcuni di entrare in seminario: anche se i tempi  non sono dei migliori, la situazione precipita e di lì a poco inizierà la “caccia al prete”. Infatti,nel 1927, tocca a lui chiudere il seminario e rimandare a casa gli studenti, per evitare che vengano massacrati: solo dopo aver avuto la certezza che tutti sono al sicuro, anche lui si dà alla fuga, portando con sé il più giovane: che è del suo paese, ma che è anche il più impaurito. Entrambi portano sottobraccio alcuni dei loro amati libri dai quali non si vogliono separare e cammin facendo padre Agostino si fa premura di confortare il giovane e terrorizzato Raffaele, al quale ricorda che anche Gesù nel Getsemani ha avuto paura. Raffaele, che è stato uno dei principali testimoni al processo di beatificazione, ricorda che ad un tratto padre Agostino gli dice: “non succederà nulla, a te!”, con un tono così fermo e rassicurante da far sparire come d’incanto la paura. Il senso di quella frase lo scoprirà solo in seguito, perché da quel momento gli avvenimenti incalzano,si sentono delle voci, si sentono degli spari. Padre Agostino dice a Raffaele di cercare un posto in cui nascondere i libri e, quando il ragazzo ritorna, di lui non c’è più traccia: si è trattato solo di un piccolo espediente per distaccarlo da sé ed impedirgli di fare la sua stessa fine, perché, proprio in quella manciata di minuti, i soldati hanno messo le mani su Agostino, arrestandolo e trascinandolo nel carcere di Totatiche. Dove, appena un paio d’ore dopo, ha la sorpresa di trovarsi in compagnia del suo parroco Magallanes, che la soldataglia è andata prelevare in canonica. Poiché è evidente a cosa vanno incontro i due preti, la gente del villaggio si raduna davanti al carcere chiedendo la loro liberazione e il generale Francisco Goñi sembra cedere per evitare una sommossa popolare. A padre Agostino, solo perché così giovane e forse perché ancora poco coinvolto, viene offerta la libertà, che lui rifiuta se anche il suo parroco non viene graziato: così poco dopo si trovano entrambi davanti al plotone d’esecuzione. Soltanto quando si vede le armi puntate contro, padre Agostino ha un attimo di paura e di sbandamento, ma prontamente il suo parroco lo tranquillizza: sarà solo “una questione di minuti, dopo ci sarà il paradiso”. Sono le ultime parole, stroncate da una raffica di colpi e subito i corpi dei due martiri sono sepolti in gran fretta: è il 25 maggio 1927. Quando, alcuni anni dopo, i loro resti vengono recuperati, nella fossa di padre Agostino invasa dall’acqua e in cui galleggiano le sue povere ossa, trovano, sorprendentemente incorrotto, il suo cuore che conserva ancora le schegge di quella pallottola che ha stroncato la sua giovane vita.  Padre Agostino Cortes Caloca,insieme al suo parroco e ad altri 23 martiri, è stato canonizzato nel 2000.

Autore: Gianpiero Pettiti





Naque a San Juan Bautista de Teúl, Zacatecas (Arcidiocesi di Guadalajara), il 5 maggio 1898. Cooperatore nella parrocchia di Totatiche e prefetto del Seminario Ausiliare sito nello stesso paese, fu un esempio di purezza sacerdotale. Dopo aver aiutato i seminaristi a fuggire, fu fatto prigioniero e condotto nella stessa prigione nella quale si trovava il suo parroco, il signor curato Magallanes. Un militare, commosso per la sua giovane età, gli offrì la libertà. Lui l'avrebbe accettata solo se veniva concessa anche al parroco. Di fronte al plotone di esecuzione, l'atteggiamento e le parole del suo parroco lo colmarono di forza, tanto che esclamò: «Grazie a Dio viviamo e per Lui moriamo». Il 25 maggio 1927 venne fucilato a Colotlán, Jalisco (Diocesi de Zacatecas, Zac.). Di fronte al carnefice ebbe la forza di confortare il suo ministro e compagno di martirio, che lo consolò, dicendogli: «Stai tranquillo, figliolo, solo un momento e poi il cielo». Dopo, rivolgendosi alla truppa, esclamò:«Io muoio innocente e chiedo a Dio che il mio sangue serva per l'unione dei miei fratelli messicani».


AGUSTÍN CALOCA CORTÉS

Nació en San Juan Bautista del Teúl, Zac. (Arquidiócesis de Guadalajara), el 5 de mayo de 1898. Ministro en la parroquia de Totatiche y Prefecto del Seminario Auxiliar establecido en la misma población, para quienes fue un modelo de pureza sacerdotal. Fue hecho prisionero después de ayudar a escapar a los seminaristas y conducido a la misma prisión en donde se encontraba su párroco el Sr. Cura Magallanes. Un militar, en atención a su juventud, le ofreció la libertad, pero no aceptó si no la concedían también al señor Cura. Frente al pelotón encargado de su ejecución, la actitud y las palabras de su párroco lo llenaron de fortaleza y pudo exclamar: «Por Dios vivimos y por Él morimos». Sufrió el martirio el 25 de mayo de 1927 en Colotlán, Jalisco (Diócesis de Zacatecas, Zac.). Frente al verdugo tuvo la fuerza de confortar a su ministro y compañero de martirio, que lo consoló, diciéndole: «Reanímate, Dios quiere mártires; un momento, Padre, y estaremos en el cielo». Después volviéndose a las tropas exclamó: «Soy y muero inocente y pido a Dios que mi sangre sirva para la paz de mexicanos desunidos».


Saint ANDREW KAGGWA, martyr

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Monument honorant le martyre d’Andrew Kaggwa, 
Munyonyo. au lieu même de son supplice le 26 mai 1886

Saint André Kogwa

Martyr en Ouganda ( 1886)

et saint Pontien Ngondwemartyrs en Ouganda, victimes de la haine du roitelet de ce pays, qui ne pouvait assouvir sur eux ses actes vicieux.

À Numyanyo en Ouganda, l'an 1886, saint André Kaggwa, martyr. Chef des joueurs de tambourin du roi Mwanga et son familier, à peine fut-il initié au Christ, qu'il forma les païens et les catéchumènes à la doctrine de l'Évangile, et pour cela, il fut tué avec cruauté.
Martyrologe romain

Kaggwa, Andrew

-1855/1886 
Église Catholique 
Ouganda 


André Kaggwa était membre de la tribu des Nyoro, les ennemis traditionnels des Ganda. A un jeune âge il a été capturé et enlevé comme esclave par un groupe de Ganda qui faisaient des raids dans le territoire de frontière appelé Bugangadzi. C’était un garçon bien fait et beau, et il a donc été présenté au roi comme partie du butin royal. Il a été mis avec les pages du roi, où sa disposition gaie et sa gentillesse ont fait de lui un des favoris de ce groupe. Il était encore page quand l’explorateur H.M.Stanley a visité Buganda en 1875. Stanley avait amené avec lui des tambours européens qui ont fort intéressé le roi, Mutesa I. Ayant acquis une douzaine de ces tambours, le roi a envoyé Kaggwa chez son factotum, Toli, un musulman du Madagascar, qui avait visité la France, pour qu’il apprenne à les jouer. A cette époque, Kaggwa est devenu musulman. Toli, cependant, était aussi menuisier au service des missionnaires catholiques, et il est probable qu’il leur aura présenté Kaggwa. Quoi qu’il en soit, Kaggwa s’est inscrit au catéchisme catholique en juin, 1880. Apparemment, il aura peut-être aussi pris des cours sur la Bible donnés par le missionnaire anglican, Alexander Mackay.

Kaggwa, qui avait maintenant à peu près vingt-cinq ans, a été nommé maître des tambours du roi, et dirigeait une quinzaine d’autres joueurs de tambour. Peu après, il est devenu chef de fanfare et dirigeait tous les musiciens de la cour, y compris les joueurs de trompette et de cymbales. On lui a donné un terrain à Natete, non loin de la capitale, et c’est là qu’il a bâti une maison dans laquelle il a vécu avec sa femme, Clara Batudde, après leur mariage. Il a été baptisé le 30 avril, 1882.
Deux ans plus tard, il y a eu un accès de peste bubonique dans la capitale, et Kaggwa s’est occupé des catéchumènes mourants et abandonnés dans son enceinte. Puisque les missionnaires catholiques avaient quitté l’Ouganda à cette époque, il a aussi instruit, baptisé et enterré ceux qu’il avait pris chez lui. D’autres chrétiens ont suivi son exemple. Mutesa I est mort en octobre 1884, et a été succédé par Mwanga, qui avait été très proche de beaucoup des serviteurs du roi quand il était encore jeune prince. C’était aussi le cas avec Kaggwa, qui a donc été nommé une fois de plus chef de fanfare, mais aussi Mugowa, un titre qui le rendait chef de la milice entière de laquelle les musiciens étaient tirés. Ce titre venait du seul autre groupe musical de genre européen dans toute l’Afrique de l’est, qui appartenait au Sultan de Zanzibar, et qui était composé de musiciens en provenance de Goa. On lui a aussi donné un fief à la colline de Kiwatule, qui a été appelé par la suite Kigowa. Kaggwa est devenu le grand favori du nouveau roi, et celui-ci l’invitait à l’accompagner lors des expéditions de chasse et de voyages en bateau.
Parmi les nombreux convertis faits par Kaggwa à la cour, il y avait plusieurs futurs martyrs. Un de ceux-ci, James Buzabaliawo, qui était aussi membre du groupe musical, avait été instruit par Kaggwa dans la foi catholique ainsi que dans la musique, et il était devenu le premier assistant de Kaggwa. Lorsque l’orage de la persécution a éclaté le 25 mai, 1886, le roi était à Munyonyo, un enclos royal bâti sur une colline près du lac Victoria, non loin de la capitale. C’est là que Charles Lwanga et les pages chrétiens ont été condamnés à mort, en dépit des vaines tentatives du missionnaire catholique Siméon Lourdel, qui avait essayé d’obtenir une audience auprès du roi pour que celui-ci remette les exécutions. Plus tard dans la journée, Lourdel est revenu au palais sous prétexte d’informer le roi de l’arrivée imminente du premier évêque catholique, Léon Livinhac. Le roi semblait être content d’entendre que l’évêque allait arriver, mais il refusa d’accorder le sursis aux martyrs.
Le jour suivant, Mukasa, le chancelier, a rappelé au roi Mwanga que Kaggwa était toujours en liberté. Le roi a répondu qu’il ne pouvait pas se permettre de perdre son chef des tambours. Mukasa a répondu en lui disant que Kaggwa était l’enseignant chrétien le plus important vis-à-vis des pages et des autres serviteurs du roi, et qu’il ne mangerait pas jusqu’à ce qu’on lui donne Kaggwa, pour qu’il puisse s’occuper de sa fin lui-même. Mwanga a accédé à cette demande, mais il était trop gêné pour annoncer la nouvelle à Kaggwa en personne. Quand les messagers du chancelier sont arrivés, Kaggwa était prêt. Il s’était rendu à la mission le matin même pour recevoir l’eucharistie, et il était rentré à son poste, à Munyonyo. Les émissaires du roi ont demandé, “Donne-nous tous les chrétiens qui sont chez toi.” “Il n’y en a qu’un,” a déclaré Kaggwa, “Je suis moi-même chrétien.” Arrivé à la maison du chancelier, il a été interrogé par Mukasa, et a été grondé pour avoir aussi enseigné le catéchisme aux enfants de celui-ci. “Enlevez cet homme et mettez-le à mort,” a ordonné le chancelier. “Amenez-moi son bras pour me prouver que vous avez fait votre besogne. Je ne mangerai rien avant de l’avoir vu.”
Les bourreaux ont tenté de remettre les choses, car ils s’attendaient à ce que le roi donne le sursis d’un moment à un autre. Cependant, Kaggwa les a poussés à le tuer rapidement et d’apporter son bras au chancelier. Quelques moments plus tard ils ont amené le bras sanglant à Mukasa. Les témoins du martyre ont dit que Kaggwa portait un linge d’écorce par-dessus un pagne blanc et qu’il portait un petit livre à la main. Il a supplié les bourreaux de ne pas le mettre à nu, et ils y ont consenti. Le jettant à terre, ils lui ont coupé le bras avec un couteau. Kaggwa a seulement crié, “Mon Dieu.” Après, ils l’ont décapité et ils ont coupé son corps en morceaux. Les chrétiens ont enterré ses restes à l’endroit même où il est mort, dans la révérence. Cet endroit n’est pas loin du séminaire majeur catholique moderne de Ggaba. Pendant bien des années, une simple dalle de béton et une croix ont marqué le site. Cela a été remplacé plus tard par une église de pèlerinage moderne, bâtie sur le site du tombeau. André Kaggwa a été béatifié par le Pape Bénédicte XV en 1920. Il a été déclaré saint canonisé par le Pape Paul VI en 1964.
Aylward Shorter M. Afr.


Bibliographie

J.F. Faupel, African Holocaust [Holocauste africain] (Nairobi, St. Paul’s Publications Africa, 1984 [1962]).
J.P. Thoonen, Black Martyrs [Martyres noirs] (London: Sheed and Ward, 1941).



Cet article, soumis en 2003, a été recherché et rédigé par le dr. Aylward Shorter M. Afr., directeur émérite de Tangaza College Nairobi, université catholique de l’ Afrique de l’Est.



St. Andrew Kaggwa Muddu-aguma Mugoowa was a Munyoro by tribe from Bugangayizi county but his parents are not known as he was just captured from his home-land by Buganda raiders. He was the king Mwanga's bandmaster-General, the Mugowa.


He was baptized on 30 April 1882 by Pere Lourdel.

The day he met his death, he was arrested at his home and taken to Katikkiro (Chancellor) Mukasa who ordered the executioners to cut off his arm and take it to him before the Katikkiro could eat anything as a proof of Kaggwa's death. Kaggwa's arm was first cut off and taken to Mukasa before he was beheaded and hacked to pieces at Munyonyo. He died in the afternoon of Wednesday 26 May 1886.
Kaggwa is the patron of Catechists, Teachers and Families.


Sant' Andrea Kaggwa Martire



† Munyonyo, Uganda, 26 maggio 1886

Martirologio Romano: In località Munyonyo in Uganda, sant’Andrea Kaggwa, martire, che, capo dei suonatori di timpano del re Mwanga e suo familiare, da poco iniziato a Cristo, insegnò la dottrina del Vangelo ai pagani e ai catecumeni e fu per questo crudelmente ucciso. 

Fece un certo scalpore, nel 1920, la beatificazione da parte di Papa Benedetto XV di ventidue martiri di origine ugandese, forse perché allora, sicuramente più di ora, la gloria degli altari era legata a determinati canoni di razza, lingua e cultura. In effetti, si trattava dei primi sub-sahariani (dell’”Africa nera”, tanto per intenderci) ad essere riconosciuti martiri e, in quanto tali, venerati dalla Chiesa cattolica.


La loro vicenda terrena si svolge sotto il regno di Mwanga, un giovane re che, pur avendo frequentato la scuola dei missionari (i cosiddetti “Padri Bianchi” del Cardinal Lavigerie) non è riuscito ad imparare né a leggere né a scrivere perché “testardo, indocile e incapace di concentrazione”. Certi suoi atteggiamenti fanno dubitare che sia nel pieno possesso delle sue facoltà mentali ed inoltre, da mercanti bianchi venuti dal nord, ha imparato quanto di peggio questi abitualmente facevano: fumare hascisc, bere alcool in gran quantità e abbandonarsi a pratiche omosessuali. Per queste ultime, si costruisce un fornitissimo harem costituito da paggi, servi e figli dei nobili della sua corte.

Sostenuto all’inizio del suo regno dai cristiani (cattolici e anglicani) che fanno insieme a lui fronte comune contro la tirannia del re musulmano Kalema, ben presto re Mwanga vede nel cristianesimo il maggior pericolo per le tradizioni tribali ed il maggior ostacolo per le sue dissolutezze. A sobillarlo contro i cristiani sono soprattutto gli stregoni e i feticisti, che vedono compromesso il loro ruolo ed il loro potere e così, nel 1885, ha inizio un’accesa persecuzione, la cui prima illustre vittima è il vescovo anglicano Hannington, ma che annovera almeno altri 200 giovani uccisi per la fede.

Il 15 novembre 1885 Mwanga fa decapitare il maestro dei paggi e prefetto della sala reale. La sua colpa maggiore? Essere cattolico e per di più catechista, aver rimproverato al re l’uccisione del vescovo anglicano e aver difeso a più riprese i giovani paggi dalle “avances” sessuali del re. Giuseppe Mkasa Balikuddembè apparteneva al clan Kayozi ed ha appena 25 anni.

Viene sostituito nel prestigioso incarico da Carlo Lwanga, del clan Ngabi, sul quale si concentrano subito le attenzioni morbose del re. Anche Lwanga, però, ha il “difetto” di essere cattolico; per di più, in quel periodo burrascoso in cui i missionari sono messi al bando, assume una funzione di “leader” e sostiene la fede dei neoconvertiti.

Il 25 maggio 1886 viene condannato a morte insieme ad un gruppo di cristiani e quattro catecumeni, che nella notte riesce a battezzare segretamente; il più giovane, Kizito, del clan Mmamba, ha appena 14 anni. Il 26 maggio vemgono uccisi Andrea Kaggwa, capo dei suonatori del re e suo familiare, che si era dimostrato particolarmente generoso e coraggioso durante un’epidemia, e Dionigi Ssebuggwawo.

Si dispone il trasferimento degli altri da Munyonyo, dove c’era il palazzo reale in cui erano stati condannati, a Namugongo, luogo delle esecuzioni capitali: una “via crucis” di 27 miglia, percorsa in otto giorni, tra le pressioni dei parenti che li spingono ad abiurare la fede e le violenze dei soldati. Qualcuno viene ucciso lungo la strada: il 26 maggio viene trafitto da un colpo di lancia Ponziano Ngondwe, del clan Nnyonyi Nnyange, paggio reale, che aveva ricevuto il battesimo mentre già infuriava la persecuzione e per questo era stato immediatamente arrestato; il paggio reale Atanasio Bazzekuketta, del clan Nkima, viene martirizzato il 27 maggio.

Alcune ore dopo cade trafitto dalle lance dei soldati il servo del re Gonzaga Gonga del clan Mpologoma, seguito poco dopo da Mattia Mulumba del clan Lugane, elevato al rango di “giudice”, cinquantenne, da appena tre anni convertito al cattolicesimo.

Il 31 maggio viene inchiodato ad un albero con le lance dei soldati e quindi impiccato Noè Mawaggali, un altro servo del re, del clan Ngabi.

Il 3 giugno, sulla collina di Namugongo, vengono arsi vivi 31 cristiani: oltre ad alcuni anglicani, il gruppo di tredici cattolici che fa capo a Carlo Lwanga, il quale aveva promesso al giovanissimo Kizito: “Io ti prenderò per mano, se dobbiamo morire per Gesù moriremo insieme, mano nella mano”. Il gruppo di questi martiri è costituito inoltre da: Luca Baanabakintu, Gyaviira Musoke e Mbaga Tuzinde, tutti del clan Mmamba; Giacomo Buuzabalyawo, figlio del tessitore reale e appartenente al clan Ngeye; Ambrogio Kibuuka, del clan Lugane e Anatolio Kiriggwajjo, guardiano delle mandrie del re; dal cameriere del re, Mukasa Kiriwawanvu e dal guardiano delle mandrie del re, Adolofo Mukasa Ludico, del clan Ba’Toro; dal sarto reale Mugagga Lubowa, del clan Ngo, da Achilleo Kiwanuka (clan Lugave) e da Bruno Sserunkuuma (clan Ndiga).

Chi assiste all’esecuzione è impressionato dal sentirli pregare fino alla fine, senza un gemito. E’ un martirio che non spegne la fede in Uganda, anzi diventa seme di tantissime conversioni, come profeticamente aveva intuito Bruno Sserunkuuma poco prima di subire il martirio “Una fonte che ha molte sorgenti non si inaridirà mai; quando noi non ci saremo più altri verranno dopo di noi”.

La serie dei martiri cattolici elevati alla gloria degli altari si chiude il 27 gennaio 1887 con l’uccisione del servitore del re, Giovanni Maria Musei, che spontaneamente confessò la sua fede davanti al primo ministro di re Mwanga e per questo motivo venne immediatamente decapitato.

Carlo Lwanga con i suoi 21 giovani compagni è stato canonizzato da Paolo VI nel 1964 e sul luogo del suo martirio oggi è stato edificato un magnifico santuario; a poca distanza, un altro santuario protestante ricorda i cristiani dell’altra confessione, martirizzati insieme a Carlo Lwanga. Da ricordare che insieme ai cristiani furono martirizzati anche alcuni musulmani: gli uni e gli altri avevano riconosciuto e testimoniato con il sangue che “Katonda” (cioè il Dio supremo dei loro antenati) era lo stesso Dio al quale si riferiscono sia la Bibbia che il Corano.



Autore: Gianpiero Pettiti


Sainte THÉRÈSE-BÉNÉDICTE DE LA CROIX (Edith STEIN). La Prière de l'Église

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LA PRIÈRE DE L’ÉGLISE


PAR LUI, AVEC LUI ET EN LUI
VOUS EST DONNÉ, DIEU PÈRE
TOUT-PUISSANT, DANS L’UNITÉ
DU SAINT ESPRIT, TOUT HONNEUR
ET TOUTE GLOIRE

Par ces mots solennels, le prêtre achève les prières du Canon qui entourent le mystère de la Transsubstantiation. Là se trouve résumé, sous la forme la plus brève, tout le sens de la prière de l’Église : honneur et gloire à la divine Trinité, par, avec et en Jésus-Christ. Bien que ces paroles soient adressées au Père, il n’y a cependant pas de glorification du père qui ne soit en même temps glorification du Fils et du Saint-Esprit. Elles chantent la gloire que le Père donne au Fils et que tous les deux partagent avec le Saint-Esprit dans l’éternité.

Toute glorification de Dieu s’accomplit par, avecet en Jésus-Christ. Par Lui, car c’est par le Christ seul que l’humanité peut accéder au Père, et parce que son existence de Dieu-Homme et son œuvre rédemptrice sont la glorification la plus parfaite du Père. Avec Lui, car toute prière sincère est un fruit de l’union avec le Christ en même temps qu’une confirmation de cette union, et parce que toute louange du Fils est glorieuse au Père, et réciproquement. En Lui, car l’Église priante est le Christ Lui-même – chaque orant est membre de son Corps mystique – et parce que dans le Fils est le Père. Le Fils est le reflet du Père dont il rend visible la gloire.

Ce sens double de par, avec et en est la claire expression de la médiation du Dieu-Homme.

La prière de l’Église est la prière du Christ toujours vivant. Elle prolonge, en l’imitant, la prière du Christ pendant sa vie d’homme.

LA PRIÈRE DE L’ÉGLISE : LITURGIE ET EUCHARISTIE

Nous savons par les récits évangéliques que le Christ a prié comme un juif croyant et fidèle à la Loi (1). Au temps de son enfance, avec ses parents, puis plus tard avec ses disciples, il alla aux temps prescrits en pèlerinage à Jérusalem afin de participer aux fêtes qui se célébraient dans le Temple. Il chanta joyeusement avec les pèlerins : « Je me suis réjoui, car on m’a dit : nous allons dans la maison du Seigneur » (Ps. CXXI, I). Il prononça les antiques oraisons de bénédiction (2), que l’on récite encore aujourd’hui, pour le pain, le vin et les fruits de la terre, comme en témoignent les récits de la dernière Cène, toute consacrée à l’accomplissement d’une des plus saintes obligations religieuses : le solennel repas de la Pâque, qui commémoraient la délivrance de la servitude d’Égypte. Peut-être est-ce là que nous est donnée la vision la plus profonde de la prière du Christ, et comme la clef qui nous introduit dans la prière de l’Église.

« Pendant qu’ils mangeaient, jésus prit du pain ; et, prononçant la prière d’actions de grâces, le partagea et le donna à ses disciples avec ces mots : « Prenez, mangez, ceci est mon Corps. « Il prit ensuite une coupe, rendit grâces et la leur donna : « Buvez-en tous, car ceci est mon Sang, le sang de l’Alliance nouvelle, versé pour la multitude en vue de la rémission des péchés » (Matthieu, XXV, 26-28).

La bénédiction et le partage du pain et du vin faisaient partie du rite du repas pascal. Mais l’un et l’autre reçoivent ici un sns entièrement nouveau. Là prend naissance la vie de l’Église. Sans doute est-ce seulement à la Pentecôte qu’elle naît comme une communauté spirituelle et visible. Mais ici, à la Cène, s’accomplit la greffe du sarment sur le cep qui rend possible l’effusion de l’esprit. Les anciennes oraisons de bénédiction sont devenues dans la bouche du Christ paroles créatrices de vie. Les fruits de la terre sont devenus sa chair et son sang, remplis de sa vie. La création visible dans laquelle Il s’était inséré par son Incarnation est maintenant liée à Lui d’une manière nouvelle et mystérieuse. Les nourritures indispensables à l’épanouissement de l’organisme humain sont transformées dans leur essence, et si les hommes les prennent avec foi, ils sont eux aussi transformés, incorporés au Christ dans une union vivante et remplis de sa vie divine. La puissance vivifiante du Verbe est liée au Sacrifice. Le Verbe est devenu chair pour donner la vie qu’Il possède. Il s’est offert Lui-même et a offert la création rachetée par son offrande en sacrifice de louange au Créateur. La Pâque de l’Ancienne Alliance est devenue la Pâque de la nouvelle Alliance à la dernière Cène du seigneur, au Golgotha par le sacrifice de la Croix, entre la Résurrection et l’ascension par les agapes joyeuses où les disciples reconnaissaient le Seigneur à la fraction du pain, et, dans le sacrifice de la messe, par la sainte communion.

Quand le Seigneur prit le calice, Il rendit grâces : les bénédictions avant les repas dont en effet un remerciement au Créateur, et nous savons que le Christ avait coutume, avant de faire un miracle, de rendre grâces en levant les yeux vers son Père (3). Il rend grâces parce qu’Il se sait d’avance exaucé et aussi pour la force divine qu’Il porte en Lui par laquelle Il manifeste à la face des hommes la toute-puissance du Créateur. Il rend grâces pour l’œuvre de Rédemption qu’Il a le pouvoir d’accomplir et par cette œuvre qui est en elle-même une glorification de la Sainte Trinité puisqu’elle restaure dans une pure beauté l’image déformée du Créateur. On peut aussi considérer le don continuel du Christ sur la Croix dans la sainte messe, et dans l’éternelle gloire du ciel comme une seule grande action de grâces : l’Eucharistie. Action de grâces pour la Création, pour la Rédemption et pour son ultime accomplissement. Il s’offre Lui-même au nom de tout l’univers créé, dont il est la première figure, et dans lequel il est descendu afin de le renouveler intérieurement et de le conduire à la perfection. Cependant Il appelle aussi tout cet univers créé à rendre, en union avec Lui, la grâce due au Créateur. Ce sens eucharistique de la prière avait déjà son expression dans l’Ancien Testament. L’Arche de l’Alliance, et plus tard le Temple de Salomon qui fut érigé selon les indications divines, furent considérés comme les images de toute la création, unie dans l’adoration et dans le culte de son Seigneur. La tente autour de laquelle campait Israël lors de sa marche au désert s’appelait « la demeure de la Présence de Dieu » (Ex. XXXVIII, 21). Elle était opposée comme « demeure d’en-bas » à la « demeure d’en-haut » (4). « J’aime le séjour de Ta maison, le lieu où réside Ta gloire », chante le psalmiste (Ps. XXV, 8), parce que la tente de l’Alliance était le symbole de la création du monde. Selon les récits bibliques, le ciel fut déroulé comme un tapis, ainsi fut-il prescrit de tendre des tapis pour former les parois de la tente. Comme les eaux de la terre furent séparées des eaux du ciel, de même le voile séparait le Saint des Saints des parvis extérieurs. La mer contenue par les rivages était symbolisée par la mer d’airain. Les lumières du ciel étaient figurées, dans la tente par le chandelier à sept branches. Les moutons et les oiseaux représentaient la multitude des créatures vivantes qui peuplent l’eau, la terre et l’air. Et, comme la terre fut donnée à l’homme, ainsi le sanctuaire fut confié au grand-prêtre, « qui fut oint pour le service de Dieu ». Moïse bénit, oignit et sanctifia la demeure terminée, comme le Seigneur avait béni et sanctifié au septième jour l’œuvre de ses mains. De même que le ciel et la terre témoignent de Dieu, ainsi la tente devait être, sur la terre, un témoignage de Dieu (Dt., XXX, 19).

A la place du Temple de Salomon, le Christ a construit un temple de pierres vivantes : la communion des saints. Il se tient en son milieu comme l’éternel grand-prêtre et, sur l’autel, Il est Lui-même la victime perpétuelle. Et de nouveau les fruits de la terre, offrandes mystérieuses, les fleurs, les chandeliers et les cierges, les tapis et le voile, le prêtre consacré, l’onction et la bénédiction de la maison de Dieu, toute la création est incluse dans la « liturgie», dans l’office divin solennel. Les Chérubins sont eux aussi présents. Les artistes les ont représentés sous des formes sensibles qui veillent aux côtés du Très Saint. Et, tels leurs images vivantes (5), les moines entourent l’autel et veillent à ce que la louange de Dieu continue sur la terre comme dans le ciel. Porte-voix désignés par l’Église, les oraisons solennelles qu’ils récitent encadrent le Saint-Sacrifice, entourent, entrelacent, sanctifient toute l’œuvre journalière, de sorte que, de la prière et du travail, résulte un seul opus Dei, une seule liturgie. Les lectures tirées de l’Écriture Sainte et des Pères, des livres liturgiques, des Encycliques des Souverains Pontifes, sont un grand chant, un chant de louange de jour en jour plus riche, à l’action de la Providence et à l’accomplissement progressif du plan éternel du salut. Les hymnes du matin invitent à nouveau toute la création à s’unir dans la louange du Seigneur : les montagnes et les collines, les rivières et les fleuves, les mers et les terres et tout ce qui les habite, les nuages et les vents, la pluie et la neige, tous les peuples de la terre, toutes les classes et toutes les races humaines, et enfin tous les habitants du ciel, les anges et les saints. Car ceux-ci prennent part à la grande Eucharistie de la Création, ou, mieux encore, c’est à leur éternelle louange que nous nous unissons par notre liturgie.

Nous, c’est-à-dire non pas seulement les religieux dont la vocation est la louange solennelle de Dieu, mais tout le peuple chrétien. Quand, pour les grandes fêtes, les fidèles affluent dans les églises abbatiales ou dans les cathédrales et qu’ils prennent part activement et joyeusement aux formes renouvelées de la vie liturgique, ils témoignent que leur vocation est la louange divine.

L’unité liturgique de l’Église du Ciel et de l’Église de la terre, qui toutes deux rendent grâces à Dieu par « Jésus-Christ », trouve sa plus forte expression dans la Préface et le Sanctus de la sainte messe. La liturgie ne nous permet pas de douter que nous ne sommes pas encore citoyens de la Jérusalem céleste, mais seulement des pèlerins en route vers leur patrie éternelle. Il nous faut encore nous préparer avant de pouvoir oser lever nos regards vers ces sommets de lumière et joindre notre voix au « Sanctus, Sanctus, Sanctus» des chœurs célestes. Toute créature devant servir à l’office sacré doit être retirée de l’usage profane, puis bénie et sanctifiée. Avant de monter à l’autel, le prêtre doit se purifier, et les fidèles avec lui, par la confession de leurs péchés. Au cours du Saint-Sacrifice, il renouvelle sa demande de pardon pour lui, pour tous ceux qui sont présents, et tous ceux qui doivent recevoir les fruits du sacrifice. Le sacrifice même est expiatoire : par les offrandes il transforme les fidèles, leur ouvre le ciel et les rend aptes à une action de grâces agréable à Dieu.

Tout ce dont nous avons besoin pour être accueillis dans la communion des esprits bienheureux est contenu dans les sept demandes du Pater que le Seigneur n’a pas dit en son propre nom, mais qu’il nous a appris. Nous le disons avant la sainte communion, et, si nous le disons sincèrement et de tout notre cœur, si nous communions au Corps du christ avec une intention droite, alors Il nous apporte l’accomplissement de toutes nos demandes : Il nous délivre du mal en nous purifiant du péché et en nous donnant la paix du cœur qui enlève aux autres maux leur aiguillon ; Il nous apporte le pardon de nos péchés (6) et nous fortifie contre les tentations ; Pain de vie dont nous avons besoin tous les jours pour nous enraciner et grandir dans la vie éternelle, Il fait de notre volonté un outil docile à la volonté divine. Ainsi instaure-t-Il en nous le Royaume de Dieu, nous donnant des lèvres et un cœur pur pour chanter la gloire de Son saint nom.

Il apparaît donc de nouveau comment le sacrifice, le repas sacré et la louange de Dieu sont intrinsèquement liés. La participation au sacrifice et au repas transforme l’âme en une pierre vivante de la cité de Dieu, et chacune de ces âmes devient un temple de Dieu.

LA PRIÈRE DE L’ÉGLISE : DIALOGUE SOLITAIRE AVEC DIEU

Chaque âme est un temple de Dieu ; grande et neuve perspective.

La vie d’oraison de Jésus est la clef qui nous introduit dans la prière de l’Église. Le Christ, nous l’avons vu, a participé au culte public de son peuple, que l’on appelle habituellement la « liturgie ». Cet office, Il l’unit de la façon la plus étroite à sa propre offrande de victime, lui donnant alors son sens plein et vrai d’action de grâces au Créateur, et transformant ainsi la liturgie de l’Ancien Testament en celle du Nouveau.

Mais Jésus n’a pas seulement participé au culte divin officiel. Plus souvent encore, les évangiles nous rapportent sa prière solitaire dans le silence de la nuit, au sommet de la montagne, et au désert, loin des hommes. Quarante jours et quarante nuits de prière précédèrent son action publique (Mt, IV, 1-2). Avant de choisir et d’envoyer ses douze apôtres, Il se retire pour prier dans la solitude de la montagne (Lc, VI, 12). Pendant sa prière sur le mont des oliviers, Il se préparait à monter au Calvaire. Et ce qu’Il dit à son père à l’heure la plus grave de sa vie nous a été transmis en quelques brèves paroles qui peuvent nous guider comme la lumière dans la nuit à l’heure de notre propre agonie : « Père, si tu le veux, éloigne de moi ce calice ; cependant que ta volonté soit faite et non la mienne (Lc, XXII, 42) ». Ces mots sont comme un éclair illuminant pour un instant la vie la plus secrète de l’âme de Jésus, le mystère insondable de son être humano-divin, ses dialogues avec le Père. Dialogues qui se poursuivirent tout au long de sa vie sans jamais être interrompus.

Ce n’est pas seulement quand il s’écartait de la foule que le Christ priait intérieurement, mais aussi quand il se trouvait parmi les hommes. En une seule occasion, il nous est permis de jeter longuement et profondément notre regard dans le secret de ces entretiens. C’était peu avant de partir au mont des Oliviers, à la fin de la dernière Cène, dans laquelle nous avons reconnu le vrai moment de la naissance de l’Église. Comme Il avait aimé les siens, il les aima jusqu’à la fin (Jn, XIII, 1). Il savait que cette réunion serait la dernière et Il voulait encore tant leur donner ! Il lui fallait se retenir pour n’en pas dire davantage. Il savait bien en effet que ses disciples ne pouvaient pas tout comprendre, car même le peu qu’ils avaient reçu, ils n’en avaient pas encore l’intelligence. Il fallait que l’Esprit de Vérité descendît pour leur ouvrir les yeux.

Après qu’Il eut dit et fait tout ce qui était possible à cette heure, Il leva les yeux au Ciel et parla au Père en leur présence (Jn, XVII). Nous nommons ces paroles la prière Sacerdotale du Christ. Mais ce dialogue solitaire avec Dieu était préfiguré dans l’Ancienne Alliance. Une fois par an, au jour le plus sacré de l’année, le jour de la Réconciliation, le Grand-Prêtre entrait dans le saint des saints, devant la face du Seigneur, afin de prier pour lui, sa maison et toute la communauté d’Israël (Lv, XVI, 17). Il aspergeait le trône de miséricorde avec le sang d’un jeune taureau et celui d’un bélier qu’il immolait, purifiant ainsi le sanctuaire de ses péchés, de ceux de sa maison, des iniquités, des transgressions et des fautes des fils d’Israël (Lv, XVI, 16). Nul ne devait rester dans la tente (c’est-à-dire dans le Saint qui précédait le Saint des Saints) au moment où le Grand-Prêtre pénétrait dans ce lieu élevé et redoutable, car personne d’autre que lui ne pouvait franchir ce seuil et lui-même n’y entrait qu’à cette heure. Là, il lui fallait encore brûler l’encens afin que « la nuée voilât le trône de la Parole… et qu’il ne meure pas (Lv, XVI, 13) ». Cette rencontre solitaire s’accomplissait dans le plus profond secret.
Ce jour de la Réconciliation dans l’Ancien Testament est l’image du vendredi saint. Le bélier immolé pour les péchés du peuple représente l’Agneau sans tâche, le bouc désigné par le sort pour être chassé dans le désert était, lui aussi, chargé des péchés du peuple. Le Grand-Prêtre de la lignée d’Aaron figurait le Grand-Prêtre éternel.

A la dernière Cène, acceptant d’avance de mourir en victime, le Christ pria comme le Grand-Prêtre du Nouveau Testament. Il n’avait pas à offrir pour Lui un holocauste, car Il était sans péché. Ni à attendre l’heure prescrite par la Loi, ni à se présenter dans le Saint des saints du Temple, car Il est toujours et partout devant la face de Dieu et son âme même est le Saint des Saints, non seulement demeure de Dieu, mais par son essence unie à Dieu. En présence de l’Éternel, le Christ n’avait pas à s’abriter sous la nuée ; Il regarde Dieu face à face, sans voile, n’ayant rien à craindre : le regard de son Père ne saurait l’anéantir. Cette prière nous introduit dans le mystère du plus haut sacerdoce et, l’entendant parler à son Père dans le sanctuaire de son cœur, nous apprenons à parler nous-mêmes avec Dieu (7).

La prière Sacerdotale du sauveur nous livre le secret de la vie intérieure : unité intime des personnes divines et inhabitation de Dieu dans l’âme. C’est dans ces secrètes profondeurs, dans le mystère et dans le silence, que fut préparée et que s’accomplit l’œuvre de la Rédemption ; et c’est ainsi qu’elle se poursuivra jusqu’à la fin des temps, jusqu’au moment où tous seront effectivement un en Dieu.

La Rédemption fut décidée dans l’éternel silence de la vie divine. La force du Saint-Esprit survint en la Vierge alors qu’elle priait solitaire dans l’humble demeure silencieuse de Nazareth, et opéra en son sein l’Incarnation du Rédempteur.

C’est assemblé autour de la Vierge priant en silence que l’Église naissante attendit la nouvelle effusion de l’Esprit qui lui avait été promise pour intensifier sa lumière intérieure et rendre féconde son action.

Dans la nuit de la cécité dont Dieu couvrit ses yeux, Saul attendit, priant dans la solitude (Ac, IX), la réponse du Seigneur à sa demande : « Seigneur, que veux-tu que je fasse ? »

Et c’est alors qu’il priait seul que Pierre fut préparé à sa mission chez les païens (Ac, X).

Ainsi toujours, à travers les siècles, les événements visibles de l’histoire se préparent dans le silencieux dialogue avec leur Maître d’âmes vouées à Dieu. La Vierge, qui gardait en son cœur toute parole que Dieu lui adressait, est le modèle de ces âmes attentives en qui revit la prière de Jésus Grand-Prêtre. Et celles qui, à son exemple, se renoncent dans la contemplation de la vie et de la Passion du Christ, sont choisies de préférence par le Seigneur comme instruments de ses grandes œuvres dans l’Église. Telles une sainte Brigitte, une Catherine de Sienne. Et quand sainte Thérèse, la puissante réformatrice de son Ordre, voulut venir en aide à l’Église, au temps de la grande apostasie, elle en découvrit le moyen dans un renouvellement de l’authentique vie intérieures. Ce qu’elle apprenait de l’hérésie toujours grandissante l’attristait beaucoup : «… Comme si j’eusse pu, ou que j’eusse été quelque chose, je répandais mes larmes aux pieds du seigneur et le suppliais d’apporter un remède à un tel mal. Il me semblait que j’aurais sacrifié volontiers mille vies pour sauver une seule de ces âmes qui s’y perdraient en grand nombre. Mais étant femme et bien imparfaite encore, je me voyais impuissante à réaliser ce que j’aurais voulu pour la gloire de Dieu. Tout mon désir était et est encore que, puisqu’il a tant d’ennemis et si peu d’amis, ceux-ci du moins lui fussent dévoués. Je me déterminai donc à faire le peu qui dépendait de moi, c’est-à-dire à suivre les conseils évangéliques dans toute la perfection possible et à porter au même genre de vie les quelques religieuses de ce monastère. Je me confiai en la bonté infinie de Dieu… Nous nous mettrions toutes en prière pour les défenseurs de l’Église, pour les prédicateurs et les savants qui la soutiennent, et nous aiderions de toute la mesure de nos forces ce Seigneur de mon âme… ces traîtres voudraient, ce semble, le crucifier de nouveau… Ô mes sœurs en Jésus-Christ, aidez-moi à adresser cette supplique au Seigneur. C’est pour cette œuvre qu’Il voua réunies ici ; c’est là votre vocation… (Le Chemin de la Perfection, ch.I) »

Il lui semblait nécessaire de faire « ce qui se pratique en temps de guerre. Lorsque l’ennemi a ravagé entièrement le pays, le Seigneur de la région se retire dans une ville qu’il a fait fortifier avec soin ; de là il fond de temps en temps sur l’ennemi ; ceux qu’il mène au combat étant tous des soldats d’élite, le secondent mieux que des soldats plus nombreux mais lâches. De cette sorte on gagne sûrement la victoire… Pourquoi vous ai-je tenu ce langage… pour que vous compreniez bien, mes sœurs, ce que nous devons demander à Dieu. Conjurons-le pour que, dans cette petite place forte où sont retranchés de vaillants chrétiens, nous n’en voyions pas un seul passer à l’ennemi ; pour qu’il comble de grâces les capitaines de cette ville ou place forte, c’est-à-dire les prédicateurs et les théologiens ; et comme la plupart d’entre appartiennent aux Ordres religieux, qu’il les élève très haut dans la perfection de leur état…  Que deviendraient les soldats sans leur capitaine ? Ceux-ci doivent donc vivre parmi les hommes, converser avec les hommes, et même parfois se faire extérieurement semblables à tous. Pensez-vous, mes filles, qu’il faille peu de vertu pour traiter avec le monde, vivre au milieu du monde, s’occuper des affaires du monde…, et demeurer intérieurement étranger au monde…, enfin pour être vraiment semblable non aux hommes, mais aux anges ? S’ils ne sont pas tels, des capitaines ne méritent pas le nom qu’ils portent ; et alors, que Dieu ne permette pas qu’ils sortent de leur cellule. Ils feraient plus de mal que de bien. Ce n’est pas l’heure, pour ceux qui entraînent les autres, de laisser paraître des imperfections. Avec qui traitent-ils d’ailleurs ? N’est-ce pas avec le monde ? Qu’ils regardent donc comme certain que le monde ne leur pardonnera rien et qu’aucune de leurs imperfections n’échappera à son regard. Les bonnes actions passent surtout inaperçues aux yeux du monde ; peut-être même il ne les jugera pas telles ; quant aux fautes ou aux imperfections, soyez assurées qu’il les remarquera (Le Chemin de la Perfection, ch.III (8) ) »

« Je me demande en ce moment avec stupeur qui a pu donner l’idée de la perfection au monde… Non pour la garder lui-même… mais pour condamner les autres. N’allez donc pas croire que ces hommes dont nous parlons n’aient besoin que d’un faible secours de Dieu, pour soutenir la lutte redoutable dans laquelle ils sont engagés ; une grâce abondante, au contraire, leur est nécessaire… Je vous le demande pour l’amour de Dieu, suppliez Sa Majesté d’exaucer les prières que nous lui adressons… Pour moi, toute misérable que je suis, je l’en conjure. Il s’agit de sa gloire et du bien de son Église ; c’est là que tendent tous mes vœux… Le jour où vos prières, vos désirs, vos disciplines, vos jeûnes ne tendraient pas à la fin dont je viens de parler, sachez que vous n’accomplissez pas le but pour lequel le Seigneur vous a réunies en ce lieu. »

D’où vint à cette religieuse, qui depuis une dizaine d’années vivait dans une cellule de couvent, vouée à la prière, cette soif brûlante d’agir pour le bien de l’Église et qui lui donna cette vue claire des misères et des besoins de son temps ? C’est justement parce qu’elle vécut dans la prière, parce qu’elle se laissât entraîner par le Seigneur dans son « château intérieur » jusqu’à cette demeure cachée où Il lui dit : « qu’il était temps qu’elle fît de Ses intérêts à Lui ses intérêts propres et qu’Il prendrait soin de ce qui la concernerait (Le Château de l’âme, 7e demeure, ch.II) ». Aussi ne pouvait-elle plus faire autrement que de « brûler de zèle pour le Seigneur, le Dieu des armées ».

Celui qui se voue entièrement au Seigneur, celui-ci est choisi comme instrument pour bâtir son royaume. Lui seul sait combien la prière de sainte Thérèse et de ses filles contribua à protéger l’Espagne contre l’hérésie, et quelle force elle déploya dans les luttes ardentes des guerres de religion en France, aux Pays-Bas et dans l’Empire germanique.

L’histoire officielle se tait sue ces forces invisibles et incalculables. Mais la confiance des fidèles et le jugement attentif et vigilant de l’Église les connaissent. Notre époque, souvent mise en échec, se voit de plus en plus forcée d’espérer de ces forces cachées le salut suprême.

LA VIE INTÉRIEURE : SA FORME ET SON ACTION

Dans le secret et le silence s’accomplit l’œuvre de la Rédemption. C’est dans le dialogue silencieux du cœur avec Dieu que sont préparées les pierres vivantes par lesquelles le Royaume de Dieu grandit, et que sont forgés les instruments de choix qui aident à son édification. Le fleuve mystique qui traverse tous les siècles n’est pas un bras égaré qui se sépare de la vie d’oraison de l’Église, il est sa vie la plus intime. S’il brise les formes traditionnelles, il le fait parce que l’Esprit vit en lui, Esprit qui souffle où Il veut. Il a créé toutes les formes anciennes et doit créer toutes les formes nouvelles. Sans Lui il n’y aurait ni liturgie ni Église. Ainsi, l’âme du psalmiste royal n’était-elle pas une harpe dont les cordes chantaient sous le souffle tendre du Saint-Esprit ? Ainsi jaillit du cœur débordant de joie de la Vierge pleine de grâce l’hymne du Magnificat. De même le chant prophétique du Benedictus ouvrit les lèvres muettes du vieux prêtre Zacharie lorsque l’annonce secrète de l’ange se réalisa. Car ce qui jaillit d’un cœur empli de l’Esprit-Saint cherche à s’exprimer en cantiques et en hymnes et se transmet de bouche en bouche ; c’est à l’Office divin qu’il appartient de le faire retentir à travers les générations.

Ce fleuve mystique forme une symphonie de louange à la Sainte Trinité : au Créateur, au Rédempteur et au Consolateur. On ne peut donc pas opposer l’oraison intérieure et libre de toute forme traditionnelle, « piété subjective », à la liturgie, qui est « la prière objective » de l’Église. Toute prière authentique est prière de l’Église : par chaque prière sincère, quelque chose s’opère dans l’Église et c’est l’Église elle-même qui prie, car le Saint-Esprit qui vit en elle est aussi dans chaque âme celui qui « prie pour nous avec des soupirs ineffables (Rm, VIII, 26) ». Telle est la vraie prière : car personne ne peut dire : « Seigneur Jésus », sinon dans l’Esprit-Saint (I Co, XII, 3). Que serait la prière de l’Église si elle n’était le don de ceux qui aiment d’un grand amour au Dieu qui est Amour ? Le don total de notre cœur à Dieu et le don qu’Il nous fait en retour, la pleine et éternelle union, tel est l’état le plus haut qui nous soit accessible, degré suprême de la prière. Les âmes qui l’ont atteint sont véritablement le cœur de l’Église : en elles vit l’amour sacerdotal de Jésus. Avec le Christ, cachées en Dieu, elles ne peuvent que rayonner dans d’autres cœurs l’amour divin qui les possède et contribuer ainsi à la perfection de tous dans l’union à Dieu, ce qui, dans le passé comme dans le présent, est l’unique désir de Jésus.

Marie-Antoinette de Geuser comprit ainsi sa vocation. Elle devait accomplir le plus haut devoir du chrétien dans le monde et sa voie est certainement l’exemple le plus significatif pour ceux qui, aujourd’hui, se sentant poussés à prendre spirituellement en charge les responsabilités de l’Église, ne peuvent répondre à cet appel dans la vie cachée d’un cloître. L’âme parvenue au plus haut degré de la prière mystique, dans l’activité tranquille de la vie divine, ne pense plus qu’à se livrer à l’apostolat auquel dieu l’appelle. « C’est la tranquillité dans l’ordre en même temps que l’activité affranchie de toute entrave. L’âme milite dans la paix, parce qu’elle travaille juste dans le sens des décrets éternels. Elle sait que la volonté de son Dieu s’accomplit parfaitement pour sa plus grande gloire, car, si la volonté humaine limite souvent la toute-puissance divine, cette toute-puissance en triomphe encore et fait une œuvre magnifique avec les matériaux qui lui restent. Cette victoire de la force de Dieu sur la liberté des hommes qu’Il laisse agir cependant est une des choses les plus adorables du plan divin… (9) »

Quand Marie-Antoinette de Geuser écrivit cette lettre, elle était au seuil de l’éternité et seul un voile transparent la séparait encore de cette ultime perfection que nous appelons la vie glorieuse.

Tout est un pour les esprits bienheureux qui sont parvenus à l’unité profonde de la vie divine : le repos et l’action, contempler et agir, se taire et parler, écouter et s’épancher, recevoir en soi, dans l’amour, le don divin et rendre l’amour à flots dans l’action de grâces et la louange.

Aussi longtemps que nous sommes en route et d’autant plus fortement que le but est plus lointain, nous demeurons sous la loi de la vie temporelle et cependant nous sommes assurés que, dans le Corps mystique, par la progression mutuelle et réciproque de ses membres, la vie divine en plénitude deviendra pour nous réalité.

Il nous faut pendant des heures écouter en silence, laisser la parole divine s’épanouir en nous jusqu’à ce qu’elle nous incite à louer Dieu dans la prière et le travail.

Les formes traditionnelles nous sont aussi nécessaires et nous devons participer au culte public, ainsi que l’ordonne l’Église, pour que notre vie intérieure s’éveille, reste dans la voie droite et trouve l’expression qui lui convient. La louange solennelle de Dieu doit avoir ses sanctuaires sur la terre, afin d’être célébrée avec toute la perfection dont les hommes sont capables. De là, au nom de toute l’Église, elle peut monter vers le Ciel, agir sur tous ses membres, éveiller leur vie intérieure et stimuler leur effort fraternel. Mais pour que ce chant de louange soit vivifié de l’intérieur, encore faut-il qu’il y ait dans ces lieux de prière des temps réservés à l’approfondissement spirituel. Sinon, cette louange dégénérerait en un balbutiement des lèvres dépouillé de toute vie (10). C’est grâce à ces foyers de vie intérieure qu’un tel danger est écarté : les âmes peuvent y méditer devant Dieu dans le silence et la solitude, afin d’être au cœur de l’Église les chantres de l’amour qui vivifie.

 Le Christ nous introduit à cette vie spirituelle par laquelle nous rejoignons les chœurs des esprits célestes qui chantent l’éternel Sanctus. Son sang est comme le voile à travers lequel nous entrons dans le Saint des Saints de la vie divine. Dans le baptême et dans le sacrement de pénitence, ce sang nous purifie de nos péchés, ouvre nos yeux à la lumière éternelle, nos oreilles à la parole divine, nos lèvres à la louange, à l’oraison de pénitence, à la prière de demande, à l’action de grâces, qui toutes, sous des formes différentes, sont une seule adoration, c’est-à-dire l’hommage de la créature au Dieu tout-puissant et infiniment bon. Dans le sacrement de Confirmation, ce sang élit et fortifie le soldat du Christ pour qu’il professe loyalement sa foi. Mais, plus que dans tous les autres sacrements, c’est dans celui où le Christ est présent que nous devenons membres de son Corps. Tandis que nous participons au Saint-sacrifice, à la sainte communion, nous nous nourrissons du Corps et du sang de Jésus, nous devenons nous-mêmes son Corps et son Sang. Et c’est seulement dans la mesure où nous sommes membres de son Corps que son esprit peut nous vivifier et régner en nous « … c’est l’Esprit qui vivifie, car c’est l’Esprit qui rend vivants les membres. Il ne rend vivants que ceux qu’a déjà vivifiés le Corps dans lequel l’Esprit agit. La seule crainte du chrétien est d’être séparé du Corps du Christ. Car, s’il est séparé du Corps du Christ, il n’est plus son membre et il ne sera plus vivifié par l’Esprit… ( 11) » Nous devenons membres du Corps du Christ « non seulement par l’amour…, mais en toute vérité par l’union avec sa chair, union qui s’opère par la nourriture qu’Il nous donne pour nous témoigner sa soif de notre amour. C’est pour cela qu’il est Lui-même descendu en nous et qu’IL a rendu son Corps semblable au nôtre, afin que nous soyons un comme le corps fait un avec la tête… (12) »

Membres de son Corps, animés de son Esprit, nous nous offrons en victime « par Lui, avec Lui, en Lui », et nous nous joignons à l’éternelle action de grâces.

Aussi l’Église nous fait-elle dire, après la sainte communion :

Comblés de ces présents magnifiques,
Nous vous en prions, Seigneur,
Faites
Que nous en recevions toutes les grâces
De salut
Et que nous ne cessions jamais
De chanter votre louange (13)


(1) Le judaïsme avait et a encore une riche liturgie pour le culte public et familial, pour les grandes fêtes et pour tous les jours.

(2)  « Sois loué, Toi, Éternel, notre Dieu, Roi du monde entier, qui fais que la terre nous donne du pain, … qui as créé le fruit de la vigne. »

(3)  Par exemple avant la résurrection de Lazare (Jean, XI, 41-42).

(4)  N. Glatzer et L. Strauss. Sendung und Schicksal. Aus dem Schriftum das nachbiblischen Judentums, Berlin, 1931.

(5)  Erik Peterson, dans Le Livre des Anges, démontre d’une manière remarquablement claire l’union de la Jérusalem céleste et de la Jérusalem terrestre dans la célébration de la liturgie.

(6)  Il est sous-entendu que l’on se trouve en état de grâce : autrement on ne peut communier « en vérité ».
(7)   Les dimensions de cet essai m’interdisent de citer intégralement la prière Sacerdotale de Jésus. Je dois prier le lecteur de lire l’Évangile de saint Jean au chapitre XVII.

(8)  Ces deux citations sont lues chaque année au mois de septembre au Carmel.

(9)  Marie de la Trinité, Lettres de Consummata à une Carmélite (Carmel d’Avignon, 1930), lettre du 27 septembre 1917.

(10)                 « Il y a une adoration du dedans…, l’adoration en esprit, celle qui se poursuit dans les profondeurs de l’être, dans son intelligence et dans sa volonté ; c’est l’adoration essentielle, principale, sans laquelle l’extérieure reste sans vie. » O mon Dieu, Trinité que j’adore, prière de Sœur Élisabeth de la Trinité, commentée par Dom Eugène Vandeur, O.S.B., 1931.

(11)                 Saint Augustin (Tract. 27 sur saint Jean, Bréviaire romain, 3e férie dans l’octave de la fête du Corps du Christ, leçons 8 et 9).

(12)                 Saint Jean Chrysostome, Homélie 61 (Ad populum Antiochum, a. a. O., 4eleçon)

(13)                 Missel romain, postcommunion du premier dimanche après la Pentecôte.


Édition : Edith Stein. La Prière de l'Église (Das Gebet der Kirche), traduit par L. et E. Zwiauer, Paris, Éditions de l'Orante, 1955 (Nihil obstat. Pais, le 22 novembre 1955. Jean Daniélou, S. J. ; Imprimatur, Paris, le 1er décembre 1955, Mgr Potevin, v. g.

Bienheureuse ALBERTINA BERKENBROCK, vierge et martyre

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Bienheureuse Albertina Berkenbrock


Martyre brésilienne ( 1931)



A 12 ans, elle fut égorgée en résistant à son agresseur.

Béatifiée le 20 octobre 2007 à Tubarão (Brésil). Homélie du Card. José Saraiva Martins à l'occasion de la béatification de la martyre Albertina Berkenbrock [EspagnolItalienPortugais]

Bl. Albertina Berkenbrock (1919-1931) - Biographie [AnglaisPortugaisEspagnol] - site du Vatican
Elle avait deux repères spirituels: la Vierge Mère de Dieu et Saint Louis de Gonzague. Trois mots recourent particulièrement dans les témoignages de ceux qui ont rencontré Albertina: 'délicate', 'modeste' et 'réservée'. Un autre élément qui ressort avec force des témoignages est son grand sens de la charité, jusqu'à partager son pain avec les pauvres... Albertina est appelée la 'Maria Goretti du Brésil'. (d'après bienheureux brésiliens - Afrique Espoir)




Bse Albertina Berkenbrock

Vierge et martyre 
« Maria Goretti du Brésil »


Albertina Berkenbrock naît le 11 Avril 1919 à São Luís, au nord du Brésil, dans une famille très pieuse originaire de la Westphalie (Allemagne).

Ses parents fréquentaient régulièrement l’église et priaient tous les jours à la maison.


Albertina reçut la confirmation le 9 Mars 1925 et la première Communion le 16 Août 1928. Sa mère a témoigné qu’Albertina était une fille très obéissante, docile et pieuse.

Elle aidait beaucoup dans les travaux ménagers ainsi que dans les champs. A l’école, elle était aimée par ses enseignants comme par ses camarades. Une fille simple, en robe modeste, sereine et délicate.



Elle avait deux repères spirituels: la Vierge Mère de Dieu et Saint-Louis Gonzague. Trois mots recourent particulièrement dans les témoignages de ceux qui ont rencontré Albertina : « délicate », « modeste » et « réservée ».

Un autre élément qui ressort avec force des témoignages est son grand sens de la charité, jusqu’à partager son pain avec les pauvres.



Idanlício Cyprien Martins avait 33 ans et vivait avec sa femme et ses enfants près de la maison des Berkenbrock. Il travaillait à son service.

Le 15 Juin 1931, à quatre heures de l’après-midi, Albertina accompagnait au pâturage le bétail de sa famille quand le père lui demanda d’aller à la recherche d’un bœuf qui s’était éloigné.



Sur le chemin elle rencontra Idanlício, qui s’offrit de l’aider. Avec ruse, il la conduisit jusqu’à un bois tout près et lui proposa d’avoir des rapports sexuels.

Albertina s’opposa fermement.

Idanlício tenta de la violer mais inutilement. L’agresseur, réalisant qu’il ne parviendrait pas à ses fins et craignant d’être ensuite reconnu, sortit un couteau et lui coupa la gorge. Albertina mourut sur place.

Elle avait douze ans et demi.



L’enterrement eut lieu deux jours plus tard. Les habitants de São Luis et de nombreux villages d’alentour y participèrent, choqués par cette mort tragique, mais émus pour l’héroïsme avec lequel la jeune fille avait défendu sa pureté.

Sur le lieu du martyre, on édifia plus tard une chapelle dédiée à Santa Inés, une vierge martyre des premiers siècles du Christianisme, et qui est devenue un lieu de pèlerinage très fréquenté. Des grâces nombreuses furent reçues par son intercession.



Albertina Berkenbrock a été Béatifié, sur la place de la Cathédrale de Tubarão (Brésil), le Samedi 20 Octobre 2007 par le Cardinal José Saraiva Martins, Préfet de la Congrégation pour la cause des Saints, qui représentait le Pape Benoît XVI.


Figure de sainteté au Brésil : Bienheureuse Albertina Berkenbrock


Albertina Berkenbrock est née le 11 Avril 1919 à Saint Louis dans l'état de Santa Caterina. Elle est baptisée le 25 Mai de la même année. Elle reçoit le sacrement de la confirmation le 9 Mars 1925 et fait sa Première Communion le 16 Août 1928.
Albertina grandit fans une famille priante. Elle aide ses parents tant pour les tâches domestiques que pour les travaux des champs. Dès son plus jeune âge, elle apprend à prier avec une grande dévotion et se montre persévérante dans la pratique de la foi. Elle parle de sa Première Communion comme le plus beau jour de sa vie et a une dévotion particulière envers la Sainte Vierge et à Saint Louis de Gonzague, modèle de pureté et patron de sa ville.

A l'école, elle est un modèle pour ses camarades et cause l'admiration des adultes. Ses enseignants soulignent surtout sa spiritualité et son attitude morale, supérieurs à un enfant de son âge. Elle connaît son catéchisme et garde les commandements de Dieu. A la maison, elle ne montre aucun esprit de revanche quand ses frères la chahutent. Avec son esprit droit et habité des plus hautes vertus surnaturelles, même les jeux avec les enfants de son âge reflètent son sens religieux élevé. Elle joue de bon cœur avec les enfants plus pauvres et n'hésitent pas à partager son pain avec eux. A la ferme, elle est très aimée des enfants de l'un des employés de son père, celui-là même qui sera son futur assassin Maneco Palhoca. Albertina offre souvent de la nourriture tant à ses enfants qu'à Maneco.

Un jour, à l'âge de 12 ans, alors qu'elle est à la recherche d'une bête égarée, elle croise Maneco transportant des fèves dans sa voiture. Elle lui demande s'il a croisé la bête perdue, et celui-ci lui indique une fausse direction, pour la mener vers un endroit discret pour pouvoir abuser d'elle. Ne se doutant de rien, Albertina s'engage dans la direction indiquée et arrive dans lieu désert. Entendant un bruit, elle se retourne pensant trouver le veau recherché, et se retrouve pétrifiée face à Maneco. Ce dernier la prévient de ses viles intentions, mais celle-ci refuse fermement, et défend avec force sa vertu. Même mise à terre, elle se défend de son mieux pour se préserver. Furieux d'avoir été moralement vaincue par une jeune fille, Maneco l'attrape par les cheveux et lui tranche la gorge avec son couteau.

Il essaie ensuite de dissimuler son crime, disant qu'il a découvert son corps et accuse un autre homme du meurtre, qui proteste de son innocence en vain. Mais certaines personnes commencent à la soupçonner à cause d(une coïncidence troublante. En effet, à chaque fois qu'il s'approche de la pièce où repose le corps de la jeune fille, du sang se met à couler de la blessure au cou  de la jeune fille.
Deux jours après le drame, le Préfet d'Imarui sen va quérir l'homme injustement accusé. S'emparant d'un crucifix, il arrive dans la chambre d'Albertina et place le crucifix sur la poitrine de la jeune fille. Il ordonne alors à l'homme présumé coupable d'étendre sa main sur le crucifix et de jurer de son innocence. On dit qu'à partir de ce moment précis, la blessure au cou d'Albertina cessa de couler. Maneco essaie de prendre la fuite mais est arrêté. Il confesse son crime ainsi que deux autres meurtres. Il est condamné pour une peine de prison à vie. En prison, il dit aux autres prisonniers qu'il a tué la jeune fille à cause de sa résistance héroïque à ses avances.

Ce témoignage est fondamental pour déterminer qu'Albertina est martyre. Sa réaction a été très claire : elle a préféré mourir plutôt que succomber aux avances de son assassin.

Dès le jour de sa mort, la jeune fille est proclamée martyr par le peuple, chacun connaissant sa vie chrétienne exemplaire, sa bonne conduite, sa piété et sa charité. Très rapidement, le peuple commença à demander des grâces par l'intercession d'Albertina. Elle est enterrée dans le cimetière de São Luis, mais sa renommée et les faveurs obtenues grâce à son intercession étant telles, que son corps fut placée dans l'église paroissiale de São Luis.

Elle a été béatifiée le 20 octobre 2007 à Santa Catarina.


Bl. Albertina Berkenbrock (1919-1931)

Virgin and martyr


Albertina Berkenbrock was born on 11 April 1919 in São Luís, Imaruí, Santa Catarina, Brazil. She was baptized on 25 May 1919 and confirmed on 9 March 1925. She made her First Holy Communion on 16 August 1928.


Albertina grew up in a devout family. She willingly helped her parents at home and on the land. 


At an early age she learned to pray with deep devotion and was strong in the practice of her Catholic faith. She spoke of her First Communion Day as the most beautiful day of her life and had special devotion to Our Lady and to St Aloysius Gonzaga, a model of purity and the Patron Saint of São Luís.


At school Albertina was a model for her peers and a cause of admiration to adults. Her teachers especially praised her spirituality and morals, superior to children of her age. She was a diligent student who knew her Catechism and kept God's Commandments.

At home, when her brothers teased and taunted her, as siblings do, she would not retaliate. With her Christian upbringing, even the childhood games she played reflected her deep religious sense. She played happily with the poorest children and shared her bread with them.

At home, she was especially loving to the children of an employee of her father; while unknown to her, that man would become her future assassin.

His name was Maneco Palhoça but he was also known as Indalício Cipriano Martins or as Manuel Martins da Silva. Albertina often gave food not only to his children but to him as well. Since Maneco was African and racism was still a grave social ill, the young girl's goodness was especially noteworthy.

One day when Albertina was searching for a runaway bullock she came across Maneco loading beans into his cart. When she asked him if he had seen the bullock he pointed in the wrong direction to entice her to a place where he could satisfy his lust without attracting attention.

Innocently, Albertina followed Maneco's directions and came to a wooded area. On hearing twigs cracking she turned, thinking it was the bullock, and found herself face to face with Maneco. She was petrified.

He informed her of his intentions but she firmly refused him. Albertina fought hard for her virtue. Even when he threw her to the ground, she did her best to cover herself. Furious at having been morally defeated by the young girl, Maneco grasped her by the hair and slit her throat with a knife.

Maneco tried to cover up his crime. He said he had discovered her body and accused a man called João Candinho of killing her, who protested his innocence in vain. But people became suspicious because when Maneco passed through the room where Albertina's body was laid out, witnesses said that every time he approached her body, blood would seep from the gash in her neck.

Two days later, the Prefect of Imaruí sent for João Candinho. The official took a crucifix and together with Candinho and others, went to Albertina's home. He placed the crucifix on her chest, ordered João Candinho to lay his hands on the crucifix and swear that he was innocent. It is said that at that very instant the wound in her neck stopped bleeding.

Maneco tried to flee but was arrested. He confessed to his crime as well as two other murders. He was tried, convicted and given a life sentence. In prison he admitted to his fellow prisoners that he murdered Albertina because she resisted his rape attempts.

This testimony from his own lips is fundamental for determining this as a true martyrdom. Albertina's reaction is unequivocal, since she preferred to die rather than to submit.

On the very day of Albertina's death, the young girl was popularly proclaimed a martyr because everyone who knew her could testify to her Christian upbringing, good behaviour, piety and charity.
Her reputation as a martyr was confirmed when the local midwife who had examined her body stated that the attempted rape was not a success.

Shortly thereafter, people began speaking of graces received through Albertina's intercession.

She was buried in the cemetery at São Luís, but due to the fame of her martyrdom and the favours obtained through her intercession, her body was later placed in the Church of São Luís.

Blessed Albertina Berkenbrock


Also known as
  • Albertina Serva de Deus
  • Albertina, Servant of God
Profile

Lay person in the diocese of Tubarão, Brazil. Raised in a pious family who insured that Albertina had a strong foundation in the faithBaptized on 25 May 1919Confirmed on 9 March 1925, and made her First Communion on 16 August 1928. At age 12 she was attacked by one of her father‘s employees, who tried to rape her. She fought back; when he realized he would fail and she would identify him, the attacker killed Albertina; she is considered a martyr in the defense of chastity.

Born

Beata Albertina Berkenbrock Vergine e martire


São Luís, Brasile, 11 aprile 1919 - 15 giugno 1931

Albertina Berkenbrock, figlia di tedeschi emigrati in Brasile, visse nella cittadina di São Luís, educata dai suoi familiari alla fede e al rifiuto di ogni tipo di peccato. Crebbe generosa e gentile, specie verso i più poveri. Nel pomeriggio del 15 giugno 1931, mentre cercava di recuperare un bue della sua piccola mandria, venne inseguita da Indalício Cipriano Martins (noto anche come Manuel Martins da Silva), un uomo povero alle dipendenze di suo zio, con aperte intenzioni di usarle violenza. Albertina gli si oppose, ricordandogli che quello che stava per farle era peccato, ma fu sgozzata con un colpo di taglierino; aveva dodici anni. La sua fama di martirio in difesa della virtù cristiana della castità si diffuse presto e portò all’apertura del suo processo di beatificazione, iniziato negli anni ’50 del secolo scorso, ma ripreso solo nel 2000. È stata beatificata il 20 ottobre 2007 nella cattedrale di Tubarão. I suoi resti mortali sono venerati dal 2001 nella chiesa parrocchiale di São Luís.

Etimologia: Albertina = forma diminutiva di Alberta, illustrissima, dall'antico germanico

Un tentativo di stupro, una bambina sgozzata, una famiglia distrutta: storia di ieri, come tante storie di oggi. Ma quella è stata ritenuta autentico martirio, e la vittima, il 20 ottobre 2007, è stata proclamata beata. Perché lei, che di anni ne aveva appena 12, non si è lasciata uccidere soltanto per difendere la sua dignità, ma perché aveva ben chiaro ciò che è bene e ciò che è male, cos’è il peccato e cosa bisogna fare per evitarlo. 


Il suo cognome, Berkenbrock, tradisce l’origine tedesca della famiglia: a metà Ottocento la bisnonna emigra dalla Westfalia in Brasile con i figli superstiti per sfuggire alla tubercolosi, che le ha già portato via il marito e due figli, e alla miseria che ne è una concausa.

Nasce l’11 aprile 1919 e il 25 maggio successivo viene battezzata con il nome di Albertina. La sua famiglia, come tutti i coloni tedeschi emigrati, conserva gelosamente il patrimonio della fede, quasi come un segno di identità nazionale.

I genitori di Albertina, insieme ai loro sette figli, pregano ogni giorno prima dei pasti: chiedono in particolare che nella loro famiglia non si commettano peccati e si viva da buoni cristiani, come i loro vecchi hanno insegnato.

La comunità di coloni tedeschi in cui Albertina nasce e cresce vive semplicemente del lavoro dei campi e dell’allevamento del bestiame: non tutti hanno fatto fortuna, come speravano, ma perlomeno tutti hanno il pane assicurato. 

L’assistenza religiosa, per mancanza di sacerdoti, è saltuaria, appena una volta al mese o poco più, ma supplisce egregiamente la figura del catechista, un tal Hugo Berndt. Già sottufficiale dell’esercito e di fede protestante, si è convertito al cattolicesimo e vive poveramente per scelta, facendo scuola e insegnando catechismo ai bambini del luogo. Insieme al parroco, il dehoniano padre Gabriel Lux, dalla vita santa ed ascetica, ha una parte fondamentale nella formazione di Albertina. 

Lei, intanto, a 6 anni riceve la Cresima e a 9 anni la Prima Comunione: ricorderà e festeggerà ogni anno la data di quest’ultima come la più bella della sua vita. Cresce con due punti di riferimento ben precisi: la Madonna e san Luigi Gonzaga, il titolare della chiesetta attorno alla quale è raggruppato il suo villaggio e dove i compaesani la vedono sempre più spesso raccolta in preghiera. 

Si sta formando una devozione solida, una fede robusta. A scuola è brava; eccelle nel catechismo, capito ed assimilato più che imparato a memoria; ama dividere la sua merenda con i compagni più poveri di lei. In particolare, per incarico dei genitori, porta spesso il pranzo a un uomo, Manuel Martins da Silva (noto anche come Indalício Cipriano Martins), povero in canna e carico di figli, che lavora alle dipendenze di suo zio. 

È proprio questo tale, da lei tante volte beneficato e con i cui figli era solita giocare, che nel pomeriggio del 15 giugno 1931 la segue nel bosco, mente lei è alla ricerca di un bue, allontanatosi dalla sua piccola mandria. Le intenzioni dell’uomo sono palesi e Albertina reagisce come può, sia alle iniziali lusinghe e sia poi alle aperte minacce. Gli ricorda che quanto le sta chiedendo è peccato, che suo padre non vuole, che a casa sua tutti i giorni si prega perché in famiglia non si commettano peccati. 

Quando la violenza di Manuel si scatena, reagisce anche con calci e pugni al punto che il violentatore, non riuscendo a piegarla, la sgozza con un temperino, recidendole la giugulare. «Io non voglio il peccato», sono le ultihttp://www.santiebeati.it/dettaglio/93276me parole soffocate dal sangue che l’assassino sente pronunciare da quella bambina, che non è riuscito a piegare e che non è riuscito a violentare perché le idee chiare e una volontà d’acciaio le hanno dato un’incredibile forza anche davanti alla morte.



Autore: Gianpiero Pettiti



Note: Per approfondire: www.beataalbertina.net - www.beataalbertina.com


 Per contattare il Postulatore dott. Paolo Vilotta info@postulazionecausesanti.it


RITO DI BEATIFICAZIONE 

DELLA SERVA DI DIO 
ALBERTINA BERBENBROCK


OMELIA DEL CARDINALE JOSÉ SARAIVA MARTINS

Piazza della Cattedrale, Tubarão, Brasile

Sabato, 20 ottobre 2007



1. Fratelli e sorelle carissimi, con gioia piena e letizia perfetta onoriamo oggi la gloria della Beata Albertina Berkenbrock, e la riconosciamo a buon titolo partecipe della gloria del cielo che Cristo ha promesso ai suoi servi fedeli.

Si compie il mistero, si mantiene la promessa, si realizza l'eternità beata, resta a noi la forza e l'eloquenza di una vita formatasi in Cristo e per lui custodita, spesa, offerta, in olocausto di soave odore. È la beatitudine dei piccoli che non ignorano i misteri del Regno: ad essi è svelato quanto sia prezioso! Ad essi, chiamati al lavoro nella mistica vigna fin dalla primavera della propria vita, viene dato di godere dei frutti della Redenzione, quando il sole ancora albeggia all'orizzonte, ma quando la luce di Cristo ha maturato con la sua potenza, fin dal mattino, i frutti della Pasqua eterna!

Cari fratelli, la Beata Albertina consumò nel breve giro di 12 anni la sua vicenda terrena, ma precorse i tempi della maturazione cristiana con una straordinaria corrispondenza alla grazia divina, che ella conobbe nelle vie ordinarie della educazione cristiana e della vita sacramentale e di preghiera.

2. Albertina nacque l'11 aprile del 1919 a São Luís, nel comune di Imaruì, Stato di Santa Caterina, qui nel Brasile. Venne Battezzata il 25 maggio dello stesso anno, cresimata sei anni più tardi, e ricevette la Santa Prima Comunione il 16 agosto del 1928. I suoi cari, gente dalla fede schietta e dalla devozione sincera, la educarono da subito nelle verità della fede e nei principi della morale cristiana, instillando il Albertina il senso vivo della propria adesione a Gesù e della vita virtuosa. I testimoni del processo canonico ci raccontano di lei con quanta semplicità e devozione amasse la preghiera, e come imparò con diligenza le formule ad essa, e diligentemente amava recitarle.

La confessione frequente, l'Eucaristia partecipata costantemente, la Comunione presa con fervore furono le vie "ordinarie" di uno straordinario cammino di santità. Un giorno, appunto, che lei ricordava tra tutti, come il più felice della sua vita, il giorno dell'incontro, del Primo Incontro, con lo Sposo Divino nel sacramento dell'Eucaristia. A questo Sposo ella sarebbe poi stata integralmente fedele e a Lui totalmente offerta. Nell'ambiente semplice e cristiano della sua famiglia, Albertina crebbe aiutando i genitori e formandosi ad una vita piena ed onesta. In questa vita il frutto della santità maturò presto, inatteso, tenerissimo e prezioso.

Ed è proprio questo che ci stupisce tanto nei Santi bambini: essi, come d'altronde la maggior parte di noi, hanno maturato con semplicità il seme posto nella loro vita dal Divino Agricoltore, offrendo a tale scopo un terreno libero da spini, da pietre, profondo: quello di un'innocente fanciullezza. Ma esso è subito germogliato, ed ancor più presto il miracolo del frutto maturo si è offerto al mietitore accorto... Forse poteva sembrare troppo precoce la stagione, forse ancora inattesa la fatica della mietitura, ma non si poteva attendere oltre, qualche invidioso si aggirava per rapire quel frutto.

3. Come abbiamo ascoltato, non temette, come la vedova del Vangelo di oggi: di rivolgersi al giudice giusto, senza stancarsi, chiese per sé giustizia! E giustizia ottenne contro i suoi nemici, a merito della sua insistenza...

Al Signore del cielo chiese per sé il cielo, la Beata Albertina, ed il cielo ebbe, senza attendere oltre, a merito della sua innocenza!

Voleva la difesa dal suo avversario la vedova, ma tardava il giudice della parabola... offriva la difesa della sua purezza la Beata Albertina, e venne presto il Re dei Martiri. Pregava nel bisogno la vedova del vangelo... pregava nella giovinezza la nostra piccola Beata: per la prima vi fu l'insistenza nei giorni di oppressione, per la seconda la costanza nel fiore della giovinezza.

Ad ambedue la stessa preghiera fu via e strumento di salvezza: alla prima per terminare la sua causa, alla seconda per prepararsi alla vittoria.

A noi il monito della fede: quando venne il Figlio dell'uomo, e fu presto per Albertina in questa terra del Brasile, trovò accesa e vivida la fiamma della sua fede, e se ne tornò consolato portando con sé il trofeo della sua vittoria...

E torna oggi a parlarci, il Figlio dell'uomo, ed ad indicarci nella testimonianza della Berkenbrock come nulla valga più della fedeltà a Lui.

Torna ad insegnarci come la purezza del corpo indichi la fedeltà della nostra anima a Dio: essa si deve donare a Lui, senza tradimenti, senza antagonisti e senza rivali.

La nostra esistenza che sia intatta nella fedeltà, pura nelle intenzioni, integra nella lotta, pronta nel sacrificio, assoluta nell'offerta!

4. Senza dubbio di lupi rapaci, oggi come ai tempi del Vangelo, come ai giorni della nostra Martire, ve ne sono ancora! Essi, resi forse ancora più famelici dallo stringere dei tempi, più turpi dalla loro brama insaziabile di strappare a Cristo ciò che è di Dio, girano ancora intorno a noi, desiderosi solo di sbranare l'uomo fatto ad immagine dell'Altissimo, deturpando il volto della sua innocenza e della sua purezza.


Essi hanno il nome di "peccato", il male che l'uomo può fare contro Dio e contro la sua opera, ossia le sue creature. Il peccato ha poi il volto della violenza, della sopraffazione, dello sfruttamento degli ultimi, dell'emarginazione, della ingiustizia... ha il volto della ribellione a Dio ed al suo progetto, il volto dell'abbandono delle istanze più profonde che ci fanno aspirare all'eternità, barattata a poco prezzo per gli effimeri piaceri della terra. 


La nostra innocenza, la nostra appartenenza a Dio, la nostra santità oggi ha bisogno della voce forte e tenace della Beata Albertina che al suo assassino disse: "Io non voglio il peccato!". No! Non voleva perdere il bene più prezioso, non poteva scambiarlo con la ricchezza più grande della sua vita, non poteva tradire Colui che l'aveva chiamata all'esistenza.


Questo Amore divino fu difeso dalla piccola Albertina a prezzo del suo sangue: non cedette alle minacce degli empi! Questo insegna a noi, in particolare ai giovani dove cercare la felicità vera. Sì, perché il peccato non dà nessuna felicità. La Beata Albertina con il suo esempio di vita radicale lancia un forte messaggio ai tanti ragazzi e giovani d'oggi che, facilmente, possono cercare la felicità nei tanto fatui, quanto distruttivi paradisi artificiali della droga o dei divertimenti fini a se stessi, se non addirittura al di là di ogni regola morale e rispetto della dignità della persona umana. Tali generi di vita non possono dare vera gioia:"La verità è che le cose finite possono dare barlumi di gioia, ma solo l'Infinito può riempire il cuore" (Benedetto XVI, Incontro con i giovani, Assisi 17.6.2007).

5. Alla fragilità delle sue forze sovvenne la potenza del vigore divino: i miracoli dei primordi della Chiesa, quando Agnese fu custodita dall'Angelo del Signore nella sua integrità, quando fu risparmiata, nel suo pudore, dalla vergogna della piazza, oggi sembrano tornare attuali e presenti nella Vergine Albertina, quando con forza sovrumana, inspiegabile in una fanciulla, contrastò il violentatore, e resistette vincitrice alla proposta di peccato che il carnefice, accecato dal furore ferino della sua sconfitta, ha reciso con la lama la gola della vittima, affinché l'ultimo grido, emesso nel sangue, gridasse dalla terra ed avesse la forza di raggiungere direttamente il cielo, perché a quel grido lo Sposo accorresse subito: ecco lo Sposo che viene!

Fratelli, siamo resi uno spettacolo al mondo, ci ricorda San Paolo (1 Cor 4, 9): al mondo la Chiesa oggi offre la testimonianza fedele della Beata Albertina Berkenbrock, perché il mondo impari come anche oggi, per acquistare il tesoro del Regno, siamo chiamati a dare tutto, compreso, se necessario il bene più grande, quello della nostra stessa vita. Questo aspetto ci offre lo spunto per una prima riflessione. Se oggi possiamo venerare Albertina come Beata, dobbiamo pensare all'eroismo della sua fedeltà alla grazia battesimale. La sua santità, infatti, è ascrivibile al dono del Battesimo e la piena risposta che darà, con l'intrepida forza che neppure una persona adulta avrebbe, forse, potuta manifestare, non fu che la maturazione del germe di santità ricevuto con il primo dei Sacramenti.

È importante che nella nostra vita e nello svolgere la pastorale prendiamo "sempre più viva coscienza della dimensione battesimale della santità - come ricorda Benedetto XVI -. Essa è dono e compito per tutti i battezzati". Fu proprio a questa dimensione che fece riferimento il Servo di Dio Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica Novo Millennio ineunte, dove con suggestiva immagine affermava: "Chiedere a un catecumeno: "Vuoi ricevere il Battesimo?" significa al tempo stesso chiedergli: "Vuoi diventare Santo?" (n. 31) (Benedetto XVI, Discorso ai sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, 17 giugno 2007).

A noi, cui non sarà dato probabilmente il martirio del sangue, ma certamente quello della perseveranza nella fedeltà cristiana, resta l'esempio della virtù cristiana della Beata Albertina, della sua forza e della sua assolutezza: resta l'esempio della sua preghiera, esempio che vogliamo far nostro, preghiera che vogliamo e possiamo da oggi rivolgere anche a lei, alla sua intercessione, perché la grazia di Dio in noi non sia vana, perché il Regno dei cieli per noi non sia perduto, perché la violenza che esso subisce ogni giorno, in noi germogli in conquista... perché quella casa del Padre, che ci appartiene come eredità ricevuta in Cristo, ci veda un giorno occupare tutti il nostro posto, nella gloria dei Santi, ove in eterno canteremo la gloria del Signore! Intercedi per noi, Beata Albertina Berkenbrock, perché siano resi a Cristo l'onore e la gloria nei secoli! Amen!


ALBERTINA BERKENBROCK, LEIGA (1919-1931)

Albertina Berkenbrock nasceu a 11 de Abril de 1919, em São Luís, Imaruí (Brasil), numa família de origem alemã, simples e profundamente cristã. Há uma singular concordância entre os testemunhos dados nos vários processos canónicos por parte das testemunhas que a tinham conhecido e convivido com a Serva de Deus, ao descrevê-la como uma menina bondosa no mais amplo sentido do termo. A natural mansidão e bondade de Albertina conjugavam-se bem com uma vida cristã compreendida e vivida completamente. Da prática cristã derivava a sua inclinação à bondade, às práticas religiosas e às virtudes, na medida em que uma criança da sua idade podia entendê-las e vivê-las.

Sabia ajudar os pais no trabalho dos campos e especialmente em casa. Sempre dócil, obediente, incansável, com espírito de sacrifício, paciente, até quando os irmãos a mortificavam ou lhe batiam ela sofria em silêncio, unindo-se aos sofrimentos de Jesus, que amava sinceramente.

A frequência aos sacramentos e a profunda compenetração que mostrava ter na participação da mesa eucarística é um índice de maturidade espiritual que a menina tinha alcançado; distinguia-se pela piedade e recolhimento.

O cenário no qual foi consumado o delito é terrivelmente simples, quanto atroz e violenta foi a morte da Serva de Deus. No dia 15 de Junho de 1931, Albertina estava apascentando os animais de propriedade da família quando o pai lhe disse para ir procurar um bovino que se tinha distanciado. Ela obedeceu. Num campo vizinho encontrou Idanlício e perguntou-lhe se tinha visto o animal passar por ali.

Idanlício Cipriano Martins, conhecido com o nome de Manuel Martins da Silva, era chamado pelo apelido de Maneco. Tinha 33 anos, vivia com a mulher próximo da casa de Albertina e trabalhava para um tio dela. Embora já tivesse matado uma pessoa, era considerado por todos um homem recto e um trabalhador honesto. Albertina muitas vezes levava-lhe comida e brincava com os seus filhos; portanto, era uma pessoa do seu conhecimento. Quando Albertina lhe perguntou se tinha visto o boi, Maneco responde que sim, acrescentando que o tinha visto ir para o bosque próximo dali e ofereceu-se para a acompanhar e ajudar na busca. Mas, ao chegarem perto do bosque, convidou-a para deitar com ele. Seguiu-a com intenção de lhe fazer mal. Albertina não consentiu e Maneco então a pegou pelos cabelos, jogou-a ao chão e, visto que não conseguia obter o que queria porque ela reagia, pegou um canivete e cortou o seu pescoço. A jovem morreu imediatamente. Dos testemunhos dos companheiros de prisão de Maneco revelou-se que a menina declarou a sua indisponibilidade pois aquele acto era pecado. A intenção de Maneco era clara, a posição de Albertina também:  não queria pecar.

Durante o velório, Maneco controlava a situação fingindo velar a vítima e ficando por perto da casa. Porém, antes que descobrissem quem era o assassino, algumas pessoas notaram um fenómeno particular:  todas as vezes que ele se aproximava do cadáver da Serva de Deus, a grande ferida do pescoço começava a sangrar.

No funeral de Albertina participou um elevado número de pessoas e todos diziam já que era uma "pequena mártir", pois dado o seu temperamento, a sua piedade e delicadeza, eram convictos de que tinha preferido a morte ao pecado. Albertina sacrificou a vida somente pela virtude.


Albertina Berkenbrock (1919-1931)

Albertina Berkenbrock nació el 11 de abril de 1919 en Saõ Luís, municipio de Imaruí, al norte de Brasil, y fue bautizada el 25 de mayo sucesivo. Recibió la Confirmación el 9 de marzo de 1925 y la primera Comunión el 16 de agosto de 1928. Su familia, profundamente católica, provenía de Westfalia (Alemania). Frecuentaban regularmente la iglesia y rezaban todos los días en el hogar. La sierva de Dios vivió en este ambiente propicio, donde sus padres pusieron los cimientos de su fe sencilla y pura. Su formación religiosa prosiguió con la catequesis de preparación para los sacramentos.

Su madre recordaba que Albertina fue siempre muy obediente, dócil y piadosa. Ayudaba mucho en los quehaceres del hogar así como en las labores del campo; en la escuela era amada tanto por sus maestros como por sus compañeros. Fue siempre muy sencilla, modesta en el vestir, serena y delicada. De su sentido cristiano de la vida nacía su inclinación a la bondad, a la piedad y a la virtud, en la medida en que una niña de 12 años podía comprenderlas y vivirlas.

La sierva de Dios tenía dos puntos de referencia espirituales:  la Virgen Madre de Dios y san Luis Gonzaga. Su ambiente familiar, su sensibilidad de niña, su formación religiosa y su profunda devoción a san Luis constituyen los presupuestos para identificar en el alma de la sierva de Dios no sólo una honestidad natural, sino también la plena conciencia del sentido de pecado y de la custodia de su pureza.

Tres palabras son particularmente recurrentes en los testimonios de quienes conocieron a Albertina:  "delicada", "modesta" y "reservada". Otro elemento que emerge con fuerza de los testimonios es su gran sentido de caridad, que manifestaba acompañando a las niñas más pobres, jugando y compartiendo con ellas su pan. Lo hacía, en particular, con los hijos de Idanlício, su asesino, que trabajaba para su familia; esto tenía un mérito especial porque eran de raza negra y en esa región, de colonización germánica e italiana, existía un fuerte sentimiento racista.

Idanlício Cipriano Martins tenía 33 años y vivía con su mujer y sus hijos cerca de la casa de los Berkenbrock. El 15 de junio de 1931, hacia las cuatro de la tarde, Albertina estaba apacentando el ganado de su familia cuando el padre le pidió que fuera a buscar un buey que se había alejado. En el camino encontró a Idanlício, que se ofreció a ayudarle. Con engaño, la condujo a un bosque cercano pidiéndole tener una relación sexual. Albertina se opuso con firmeza para salvaguardar su pureza, e Idanlício intentó violarla. Al no lograrlo, el hombre extrajo una navaja y le cortó la garganta, causándole la muerte en el acto. Albertina tenía doce años y medio.

Dos días después se celebró su funeral. Los habitantes de Saõ Luís y de muchas aldeas vecinas participaron con gran conmoción, no sólo por el modo trágico como había muerto, sino sobre todo por el heroísmo con el que había defendido su pureza. En el lugar del martirio se construyó posteriormente una capilla dedicada a santa Inés —otra virgen mártir de los primeros siglos del cristianismo—, a la que acudían sin cesar multitudes de peregrinos para pedir gracias a través de la sierva de Dios.

En 1952, en la misma capilla en la que Albertina había recibido la primera Comunión, se reunió el tribunal eclesiástico de la archidiócesis de Florianópolis para incoar el proceso de beatificación y canonización. Con la división de la archidiócesis y la creación de la diócesis de Tubarão, los pastores de esta nueva circunscripción eclesiástica se encargaron de promover la causa. El 16 de diciembre de 2006 Su Santidad Benedicto XVI firmó el decreto sobre el martirio de la sierva de Dios Albertina Berkenbrock.


HOMILÍA DEL CARDENAL JOSÉ SARAIVA MARTINS 

EN LA SANTA MISA DE BEATIFICACIÓN DE LA SIERVA DE DIOS ALBERTINA BERKENBROCK

Catedral de Tubarão, Brasil
Sábado 20 de octubre de 2007



Queridos hermanos y hermanas:


1. Con gran alegría y profundo gozo honramos hoy la gloria de la beata Albertina Berkenbrock, y reconocemos que participa de la gloria del cielo, que Cristo prometió a sus servidores fieles. 


Se cumple el misterio, se mantiene la promesa, se realiza la eternidad feliz, y a nosotros nos queda la fuerza y la elocuencia de una vida centrada en Cristo y a él reservada y ofrecida en holocausto de suave aroma.


Es la bienaventuranza de los pequeños que conocen los misterios del Reino: a ellos ha sido revelado su gran valor. A ellos, llamados a trabajar en la viña mística desde la primavera de su vida, se les ha concedido gozar de los frutos de la Redención, no sólo cuando el sol está despuntando en el horizonte, sino también cuando la luz de Cristo ha hecho madurar con su poder, desde el amanecer, los frutos de la Pascua eterna.

Queridos hermanos, la beata Albertina consumó, en el breve período de 12 años, su existencia terrena, pero alcanzó los tiempos de una maduración cristiana con una extraordinaria correspondencia a la gracia divina, que conoció en los caminos ordinarios de la educación cristiana y de la vida sacramental y de oración.

2. Albertina nació el 11 de abril de 1919 en São Luís, en el municipio de Imaruí, Estado de Santa Catarina, aquí en Brasil. Fue bautizada el 25 de mayo del mismo año; confirmada seis años más tarde, recibió la primera Comunión el 16 de agosto de 1928.

Sus familiares, personas de profunda fe y sincera devoción, la educaron desde el inicio en las verdades de la fe y en los principios de la moral cristiana, infundiendo en ella un vivo sentido de adhesión a Jesús y a la vida virtuosa.

Los testigos del proceso canónico nos narran con cuánta sencillez y devoción amaba la oración y cómo aprendía con diligencia sus fórmulas y las rezaba con fervor.

La confesión frecuente, la participación asidua en la Eucaristía, la Comunión recibida con fervor, fueron los pasos "ordinarios" de un extraordinario camino de santidad.

De hecho, consideraba que el día de su primer encuentro con el Esposo divino en el sacramento de la Eucaristía había sido el más feliz de su vida. A este Esposo le sería después íntegramente fiel, y se entregaría totalmente a él.

En el ambiente sencillo y cristiano de su familia, Albertina creció ayudando a sus padres y formándose en una vida plena y honesta. En esta vida el fruto de la santidad maduró pronto, inesperado, dulcísimo y precioso.

Y es esto precisamente lo que admiramos en los niños santos: al contrario de la mayor parte de nosotros, maduraron con sencillez la semilla puesta en ellos por el divino Agricultor, ofreciéndole para ello un terreno sin espinas, sin piedras, profundo: el de una infancia inocente. Pero esa semilla germinó rápidamente, y entonces el milagro del fruto maduro se ofreció al sembrador atento... Tal vez la estación podía parecer demasiado precoz; tal vez no era de esperar aún la hora de la cosecha, pero no se podía esperar más, para evitar que algún envidioso se moviera para robar ese fruto.

3. Albertina, como la viuda del evangelio que acabamos de escuchar, no temió dirigirse sin desfallecer al juez justo, pidiendo para sí justicia. Y obtuvo justicia contra sus enemigos gracias a su insistencia.

La beata Albertina pidió para sí el cielo al Señor del cielo, y le fue concedido el cielo sin esperar más, por el mérito de su inocencia.

La viuda quería ser defendida de su adversario, pero el juez de la parábola tardaba... La beata Albertina ofrecía la defensa de su pureza, y pronto llegó el Rey de los mártires.

La viuda del Evangelio oraba en su necesidad... Nuestra pequeña beata oraba en su juventud. Para la primera fue la insistencia en los días de la opresión; para la segunda, la constancia en la flor de la juventud.
Para ambas la misma oración fue el camino y el instrumento de salvación: a la primera para concluir su causa; a la segunda para prepararse a la victoria.

A nosotros se dirige la exhortación de la fe: cuando vino el Hijo del hombre, y para Albertina llegó pronto en esta tierra de Brasil, encontró encendida y viva la llama de su fe, y se volvió consolado llevando consigo el trofeo de su victoria.

Y hoy el Hijo del hombre vuelve a hablarnos, indicándonos con el testimonio de la beata Albertina Brekenbrock que nada vale tanto como la fidelidad a él.

Vuelve a enseñarnos que la pureza del cuerpo indica la fidelidad de nuestra alma a Dios: se debe entregar a él, sin traiciones, sin antagonismos y sin rivales.

Nuestra vida ha de ser intacta en la fidelidad, pura en las intenciones, íntegra en la lucha, pronta en el sacrificio, absoluta en la entrega.

4. No cabe duda de que hoy, como en los tiempos del Evangelio, como en los días de nuestra mártir, también hay lobos rapaces. Tal vez están más hambrientos aún a causa del tiempo cada vez más acelerado, son más torpes en su voluntad insaciable de arrebatar a Cristo lo que es de Dios, andan todavía en torno a nosotros, deseosos sólo de corromper al hombre creado a imagen del Altísimo, desfigurando el rostro de su inocencia y de su pureza.

Esos lobos tienen el nombre de "pecado", el mal que el hombre puede hacer contra Dios y contra su obra, es decir, contra sus criaturas.

El pecado tiene también el rostro de la violencia, del abuso, de la explotación de los últimos, de la marginación, de la injusticia...; tiene el rostro de la rebelión frente a Dios y a su proyecto, el rostro del abandono de las aspiraciones más profundas que nos hacen anhelar la eternidad, vendida por el escaso precio de los placeres efímeros de la tierra.

Nuestra inocencia, nuestra pertenencia a Dios, nuestra santidad, hoy necesita la voz fuerte y tenaz de la beata Albertina, que dijo a su asesino: "Yo no quiero el pecado". No quería perder su bien más precioso; no lo podía cambiar por la riqueza mayor de su vida; no podía traicionar a Aquel que la había llamado a la existencia.

La pequeña Albertina defendió este amor divino al precio de su sangre: no cedió a las amenazas de los impíos.

La beata Albertina nos enseña a nosotros, y de modo especial a los jóvenes, cómo alcanzar la felicidad verdadera. Sí, porque el pecado no da la felicidad. Con su ejemplo radical de vida, lanza un fuerte mensaje a los numerosos muchachos y jóvenes de hoy que, fácilmente, pueden buscar la felicidad en los paraísos artificiales, tan vacíos como perjudiciales, de la droga y de las diversiones, finitos en sí mismos, o incluso fuera de toda regla moral y del respeto de la dignidad de la persona humana. Esos estilos de vida no pueden dar la verdadera alegría: "La verdad es que las cosas finitas pueden dar briznas de alegría, pero sólo lo Infinito puede llenar el corazón" (Benedicto XVI, Discurso durante el encuentro con los jóvenes en Asísdomingo 17 de junio de 2007: L'Osservatore Romano, edición en lengua española, 29 de junio de 2007, p. 7).

5. El poder divino vino en socorro de la fragilidad de sus fuerzas: los milagros de los inicios de la Iglesia, cuando santa Inés fue protegida en su integridad por el ángel del Señor, cuando para salvar su pudor se le evitó la vergüenza de la plaza pública, hoy parecen volverse actuales y presentes en la virgen Albertina, cuando con fuerza sobrehumana, inexplicable en una niña, se enfrentó al violador y resistió a la propuesta de pecado, saliendo vencedora. Entonces el verdugo, cegado por el orgullo herido por su derrota, cortó con una navaja el cuello de la víctima, hasta que el último grito, que brotó juntamente con la sangre, se elevó desde la tierra y tuvo la fuerza de llegar directamente hasta el cielo, para que ante aquel grito el Esposo acudiera inmediatamente: "He aquí que viene el Esposo".

Hermanos, como nos recuerda san Pablo (cf. 1 Co 4, 9), somos un espectáculo para el mundo. La Iglesia ofrece al mundo de hoy el testimonio fiel de la beata Albertina Berkenbrock, para que el mundo aprenda cómo se puede conquistar también hoy el tesoro del reino; estamos llamados a darlo todo, incluido el bien mayor, nuestra propia vida, si fuera necesario.

Este aspecto nos brinda la ocasión para una reflexión. Si hoy podemos venerar a Albertina como beata, debemos pensar en el heroísmo de su fidelidad a la gracia bautismal. De hecho, su santidad va unida al don del bautismo y la plena respuesta que dio con fortaleza intrépida, que tal vez ni siquiera una persona adulta habría podido testimoniar; no fue más que la maduración de la semilla de santidad recibida con el primero de los sacramentos.

Como recuerda el Santo Padre Benedicto XVI, "es importante que en nuestra vida y en la propuesta pastoral tomemos cada vez mayor conciencia de la dimensión bautismal de la santidad. Es don y tarea para todos los bautizados. A esta dimensión hacía referencia mi venerado y amado predecesor en la carta apostólica Novo millennio ineunte cuando escribió: "Preguntar a un catecúmeno, ¿quieres recibir el bautismo?, significa al mismo tiempo preguntarle: ¿quieres ser santo?" (n. 31)" (Discurso a los sacerdotes, los diáconos, los religiosos y las religiosas en Asís, 17 de junio de 2007: L'Osservatore Romano, edición en lengua española, 29 de junio de 2007, p. 6

A nosotros, que probablemente no se nos concederá el martirio del derramamiento de la sangre, pero sí el de la perseverancia en la fidelidad cristiana, nos queda el ejemplo de la virtud cristiana de la beata Albertina, de su fuerza y su radicalismo; nos queda el ejemplo de su oración, un ejemplo que queremos imitar, una oración que desde hoy queremos y podemos dirigir también a ella, a su intercesión, para que la gracia de Dios no sea estéril en nosotros, para que no perdamos el reino de los cielos, para que la violencia que ese reino sufre cada día brote en nosotros como conquista..., para que la casa del Padre, que nos pertenece como herencia recibida en Cristo, nos vea un día ocupar a todos nuestro lugar en la gloria de los santos, donde eternamente cantaremos la gloria del Señor.

¡Intercede por nosotros, beata Albertina Berkenbrock, para que sean dadas a Cristo la honra y la gloria por los siglos! Amén.


Saint CALOGERO, ermite

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Statua di San Calogero ad Agrigento. 
Photographie de Riccardo Spoto at Italian Wikipedia, 2007

Saint Caloger

Anachorète en Sicile (Ve siècle)


Grec, il reçut l'habit monastique à Rome, des mains du pape. Après avoir évangélisé les îles Eoliennes, il vécut pendant trente-cinq ans comme reclus près d'Agrigente, en Sicile.

Au mont Chronios, près des Thermes de Sélinonte en Sicile, vers le Ve siècle, saint Caloger, ermite.
Martyrologe romain


Buste en argent du XVIIIe s. de San Calogero, 
Cathédrale de Lipari (îles Eoliennes, Sicile) 
patron du diocèse et de la ville de Lipari. 
A l'arrière-plan, tableau représentant San Calogero, ermite. 
Photographie de Ji-Elle, 2011

Saint Calogerus the Anchorite


Also known as
  • Calogero the Anchorite
  • Calogerus the Anchoret
Profile

Fifth century evangelist on the island of Lipari, Italy. Lived his last 35 years as a hermit near Girgenti, Sicily. Noted exorcist.

Born
  • c.486 of natural causes


 Buste en argent du XVIIIe s. de San Calogero, 
Cathédrale de Lipari (îles Eoliennes, Sicile) :
patron du diocèse et de la ville de Lipari. 
A l'arrière-plan, tableau représentant San Calogero, ermite. 
Photographie de Ji-Elle, 2011


San Calogero Eremita in Sicilia


Calcedonia (Tracia), 466 ca. – Monte Cronios (Sciacca), 561 ca.

Le notizie sulla sua vita sono così confuse tanto che si è pensato che potessero riferirsi a più santi con lo stesso nome. Con il nome Calogero che etimologicamente significa " bel vecchio " venivano infatti designate quelle persone che vivevano da eremiti. E Calogero è venerato in Sicilia presso Sciacca, nel monastero di Fregalà presso Messina, e in altre città. L'unica cosa sicura su di lui è l'esistenza in Sicilia di un santo eremita, con poteri taumaturgici. A Fragalà è stata scoperta alla testimonianza più antica legata al suo culto, alcune odi scritte nel IX secolo da un monaco di nome Sergio, da cui risulterebbe che Calogero proveniva da Cartagine e morì nei pressi di Lilibeo. le lezioni dell'Uffizio, stampate nel 1610, lo dicono invece proveniente da Costantinopoli ed eremita sul monte Gemmariano.

Etimologia: Calogero = di bella vecchiaia, dal greco

Martirologio Romano: Sul monte Gemmariaro presso Sciacca in Sicilia occidentale, san Calogero, eremita. 

Il termine Calogero, di origine greca, significa “bel vecchio”; nell’ideale greco della bellezza, ciò che è bello, è anche giusto e buono, basti pensare che nel Vangelo di Giovanni, l’originale greco definisce Gesù il “bel pastore”, che poi è stato tradotto in il “buon Pastore”.

L’uso di questo termine venne applicato in Oriente e nel Sud Italia ai monaci eremiti, che vennero chiamati così ‘calogeri’, pertanto alcuni studiosi pensano che il nome del santo eremita Calogero non fosse questo, ma bensì l’appellativo con cui veniva riconosciuto; altri studiosi comunque sono convinti che fosse proprio il suo nome.

Secondo la tradizione, giacché mancano documentazioni certe, Calogero nacque verso il 466 a Calcedonia sul Bosforo, una cittadina dell’antica Tracia, che nel 46 d.C. divenne provincia romana e che poi seguì le sorti dell’impero bizantino; fin da bambino digiunava, pregava e studiava la Sacra Scrittura e secondo gli ‘Atti’ presi dall’antico Breviario siculo-gallicano, in uso in Sicilia dal IX secolo fino al XVI, egli giunse a Roma in pellegrinaggio, ricevendo dal papa Felice III (483-492), il permesso di vivere in solitudine in un luogo imprecisato.

Qui egli ebbe una visione angelica o un’ispirazione celeste, che gli indicava di evangelizzare la Sicilia; tornato dal papa ottenne l’autorizzazione di recarsi nell’isola, con i compagni Filippo, Onofrio e Archileone, per liberare quel popolo dai demoni e dall’adorazione degli dei pagani.

Mentre Filippo si recò ad Agira e Onofrio e Archileone si diressero a Paternò, Calogero si fermò durante il viaggio a Lipari, nelle Isole Eolie, dove su invito degli abitanti si trattenne per qualche anno, predicando il Vangelo ed insegnando loro come ricevere i benefici per i loro malanni, utilizzando le acque termali e stufe vaporose; ancora oggi un’importante sorgente termale porta il suo nome, come pure le grotte dai vapori benefici.

Durante la sua permanenza nell’isola di Lipari, ebbe anche la visione della morte del re Teodorico († 526) che negli ultimi anni aveva preso a perseguitare quei latini che riteneva un pericolo per il suo regno, fra i quali furono vittime il filosofo Boezio (480-524) suo consigliere, il patrizio romano capo del Senato, Simmaco († 524) e il papa Giovanni I († 526).

Ciò è riportato nei ‘Dialoghi’ del papa s. Gregorio I Magno, la visione si era avverata nell’esatto giorno ed ora della morte del re, e Calogero vide la sua anima scaraventata nel cratere del vicino Vulcano.

In seguito ad altra visione, Calogero lasciò Lipari per sbarcare in Sicilia a Syac (Sciacca), chiamata dai romani ‘Thermae’ per i bagni termali, presso i quali sorgeva; convertì gli abitanti e poi decise di cacciare per sempre “le potenze infernali” che regnavano sul vicino monte Kronios, consacrato al dio greco Kronos, che per i romani era il dio Saturno.

Sul monte Giummariaro, altro nome derivante dagli arabi che lo chiamarono monte “delle Giummare”, dalle palme nane che crescevano sui suoi fianchi e che poi prese il nome di Monte San Calogero, come oggi è conosciuto insieme al nome Cronio, il santo eremita prese ad abitare in grotte e spelonche e intimò ai demoni di lasciare quei luoghi.

Gli ‘Atti’ dicono che il monte sussultò fra il fragore di urla e poi tutto si quietò in una pace di paradiso; Calogero si sistemò in una grotta adiacente a quelle vaporose, che come a Lipari, anche qui esistono abbondanti.

In detta grotta vi è murata sulla roccia, l’immagine in maiolica di s. Calogero, posta sopra un rustico altare, che si dice costruito da lui stesso; l’immagine è del 1545 e rappresenta l’eremita con la barba che tiene nella mano destra un libro e un ramo-bastone, ai suoi piedi vi è un fedele inginocchiato e una cerbiatta accasciata e ferita da una freccia.

L’immagine si rifà ad un episodio degli ultimi suoi giorni, essendo ormai ultranovantenne, egli non riusciva più a cibarsi, per cui Dio gli mandò una cerva, che con il suo delicato latte lo alimentava; un giorno un cacciatore di nome Siero, scorgendo l’animale, prese l’arco e trafisse con una freccia la cerva, la quale riuscì a trascinarsi all’interno della grotta di Calogero, morendo fra le sue braccia.

Il cacciatore pentito e piangente, riconobbe nel vegliardo colui che l’aveva battezzato anni prima, chiese perdono e Calogero lo portò nella vicina grotta vaporosa, dandogli istruzioni per le proprietà curative di quel vapore e delle acque che sgorgavano da quel monte. Il cacciatore Siero, divenuto suo discepolo, salì spesso sul monte a visitarlo, ma 40 giorni dopo l’uccisione della cerva, trovò il vecchio eremita morto, ancora in ginocchio davanti all’altare; secondo la tradizione era morto nella grotta fra il 17 e il 18 giugno 561 ed era vissuto in quel luogo per 35 anni.

Diffusasi la notizia accorsero gli abitanti delle cittadine vicine, che lo seppellirono nella grotta stessa, poi trasferito in altra caverna di cui si è persa la memoria lungo i secoli. 

Nel IX secolo un monaco che si firmava Sergio Cronista, cioè abitante del monte Cronios o Kronios, compose in lingua greca alcuni inni in suo onore, in cui veniva citato che s. Calogero non era approdato a Sciacca come si riteneva, ma a Lilybeo, l’odierna Marsala, senza indicare dove fosse morto, ma sollecitando a visitare e onorare la grotta in cui il santo era vissuto, scacciando i demoni e operando tante guarigioni di ammalati.

Uno studioso contemporaneo Francesco Terrizzi, sostiene che s. Calogero, perduti i compagni martirizzati dai Vandali, si recò dapprima a Palermo passando poi per Salemi, Termini Imerese, Fragalà, Lipari, Lentini, Agrigento, Naro e infine Sciacca; si spiegherebbe così le tante tradizioni e le diverse grotte abitate e attribuite ad un unico e medesimo santo. 

C’è da aggiungere che le reliquie del santo, secondo un’altra tradizione, erano state successivamente trasferite in un monastero a tre km dalla grotta, nel 1490 furono traslate a Fragalà (Messina) dal monaco basiliano Urbano da Naso e poi nell’800 a Frazzanò (Messina), nella chiesa parrocchiale; qualche sua reliquia è custodita anche nel santuario di San Calogero, sorto vicino alla sua grotta sull’omonimo monte di Sciacca nel XVII secolo e che è meta di pellegrinaggi. 

Ad ogni modo s. Calogero è veneratissimo in tutta la Sicilia e in tutte le città sopra citate è onorato con suggestive processioni e celebrazioni, tipiche della religiosità intensa dei siciliani, quasi tutte si svolgono nel giorno della sua festa il 18 giugno.



Autore: Antonio Borrelli



Maiolica di San Calojru du 1545 na Grutta abitata du Santu supra u Munti Croniu, Xacca ( AG ), 1545



Nome: San Calogero

Titolo: Eremita in Sicilia

Ricorrenza: 18 giugno

Le informazioni sulla vita di San Calogero provengono da varie leggende tramandate da scritti e inni in suo onore. Uno dei racconti più accreditati tratto da breviario siculo-gallicano narra che sia nativo di Costantinopoli intorno al I secolo.

Spinto a convertire gli abitanti della Sicilia andò in pellegrinaggio a Roma dove incontrò San Pietro apostolo da cui ottenne il permesso di vivere da eremita in un luogo imprecisato. 
Qui ebbe l'ispirazione di evangelizzare la Sicilia.

Tornato da Pietro, ottenne il premesso di recarsi nell'isola assieme ai compagni, Filippo, Onofrio e Archileone. Filippo si recò a Agira, Onofrio e Archileone si recarono nel deserto di Sutera e il nostro Calogero si fermò a Lipari. Da qui, dopo diversi anni, si spostò nei pressi di Sciacca dove visse per trentacinque anni.

Un'altra versione della sua vita racconta che San Calogero per scampare alla persecuzione dei cristiani nell'Africa settentrionale approdò in Sicilia insieme a San Gregorio e al diacono Demetrio. La sua provenienza dal continente nero si presume gli abbia dato proprio l'appellativo di "Santo Nero" nonché il colore della pelle
quasi sempre nero impresso nei dipinti e nelle molteplici statue in suo onore.

Successivamente raggiunse le zone più interne dell'isola evangelizzando con grande coraggio la fede cristiana. In tal modo, però, si attirò l'odio dei nemici del Vangelo. Demetrio e Gregorio vennero catturati, mentre Calogero, si rifugiò sul monte Kronio a Sciacca, dove usando le acque delle terme minerali guarì miracolosamente alcuni infermi. Per tale motivo a Sciacca sorge oggi uno dei maggiori santuari dedicati al Santo taumaturgo.

Presto l'ammirazione dei fedeli di San Calogero crebbe e si diffuse in tutta l'isola. San Calogero raggiunse poi Agrigento, dove, secondo la tradizione, si fermò presso una grotta nella quale oggi sorge il Santuario a lui dedicato.

Negli ultimi anni della sua vita il Santo rimase sul monte Kronio perchè a causa delle sue precarie condizioni di salute.

La storia narra che una cerva che gli forniva il latte, dopo essere stata ferita da un cacciatore, lo condusse nella grotta. Questi si rese conto, con immenso dolore, di avere procurato al povero vecchio eremita un danno irrimediabile. L'uomo decise allora di restare accanto a San Calogero per curarlo e quando il Santo spirò, venne sepolto presso la grotta dove fu edificata una chiesetta che è divenuta meta di pellegrinaggio da parte di fedeli.

Ogni anno il vescovo di Agrigento apre i festeggiamenti benedicendo l'abito dei frati a lui devoti: una tunica bianca che reca sul petto "la pazienza", cioè lo stemma nero del Santo

San Calogero a Naro

Il culto del "Santo nero"è molto sentito a Naro città della provincia di Agrigento di cui è patrono. Dal 15 giugno, giorno in cui la statua del Santo viene portata dalla cripta sottostante la chiesa all'interno del Santuario stesso, al 25 di giugno, denominato ottava, culminando il 18 giugno, giorno vero e proprio della festa, che vede il Santo messo su una grande slitta in legno denominata straula o "carro dei Miracoli" e trascinato dai fedeli con una corda, legata a due capi della slitta e lunga più di 100 metri, dal Santuario di San Calogero fino alla chiesa Madre della città.

Tutta la processione è scandita dalle urla dei fedeli che trascinano la straula col Santo al grido di "Viva Diu e San Calò". Particolare è la tradizione del pane benedetto che viene modellato in diverse forme a rappresentare le parti del corpo miracolate da San Calogero e viene portato al Santuario per essere benedetto, i proprietari poi ne tengono una parte per loro per condividerla con amici e parenti ed il resto lo lasciano al Santuario affinché sia distribuito ai fedeli.

SOURCE : https://www.santodelgiorno.it/san-calogero/


Naro, 11 gennaio: la statua di San Calogero viene portata in processione per le vie della città.


18 GIUGNO

SAN CALOGERO

Calcedonia (Tracia), 466 ca. – Monte Cronios (Sciacca), 561 ca.

Nacque in Calcedonia (Turchia) nella seconda parte del V C secolo da ricchi e pii genitori. Giovinetto ancora sentì il fascino della vita di solitudine ne! deserto della Tebaide per dedicarsi a Dio nella vita contemplativa. Quando, per obbedienza, ricevette l’ordine sacerdotale donò se stesso alla vita missionaria per l’evangelizzazione della Sicilia. L’isola di Lipari e Lilibeo (Marsala) divennero così il campo delle sue fatiche apostoliche. Tutta la fascia della Sicilia occidentale, Agrigento, Naro, Licata etc, conobbero il suo zelo e la sua santità nel calore della carità inesauribile verso i poveri e gli ammalati. Morì quasi centenario nei giugno del 667 sui Monte Cronios (Sciacca) dove sono conservate le sue reliquie e dove sorge il celebre Santuario con le grotte curative che portano il suo nome


PREGHIERA A SAN CALOGERO

O glorioso santo 
che nella solitudine della tebaide 
porgeste al mondo l'esempio 
della più grande austerità e penitenza 
e con le vostre preghiere 
otteneste la conversione di tanti peccatori, 
impetrateci da Dio lo spirito 
della mortificazione dei nostri sensi 
e il disprezzo del mondo, 
affinchè meritiamo di conseguire 
la beatitudine eterna.


PREGHIERA A SAN CALOGERO

Glorioso San Calogero,
volgi lo sguardo a noi e
ascolta la nostra preghiera.
Tu sei stato mandato da Dio
a irradiare nella Sicilia
la luce del Vangelo.
ai cercato il Signore
nella solitudine;
l'hai servito con la penitenza;
hai insegnato la via
della salvezza e della virtù.
Tutti t'invocano taumaturgo,
perché con la tua intercessione
Dio ha dato la parola ai muti,
la salute ai malati, l'udito ai sordi
e la vista ai ciechi.
Hai preservato più volte
le terre, a te devote, dal colera,
dal terremoto e da altre disgrazie.
Salvaci dai pericoli e concedici
le grazie che ti chiediamo.


PREGHIERA

Composta da Sua Ecc. Rev.Mons. Ignazio Zambito Vescovo di Patti

O Dio per mezzo di Gesù Tuo Figlio e nostro Signore,

nello Spirito Santo Dio che hai mostrato a tutti che è Signore e da la vita,
Ti ringraziamo dei Tuoi innumerevoli doni.
In particolare Ti lodiamo per averci dato,
 modello e protettore, San Calogero che per amore a Te,
nelle nostre contrade,
a servito i fratelli guarendoli nell'anima e nel corpo.
Per sua intercessione proteggici
sul suo esempio donaci di cercare Te
sopra ogni cosa e di trovarti nell'attenzione alla Tua parola,
nella preghiera, in un ordinato uso delle cose,
nel servizio ai fratelli.
Amen.


PREGHIERA


O glorioso San Calogero,
sono venuto in questi luoghi santificati dalla tua presenza
e all'ombra del tuo santuario,
mi e destata una grande fiducia in te,
più che nei rimedi che possono prestare l'arte e la natura.
Grande benefattore degli uomini, dal ricordati dell'esimia carità
con cui in vita guarivi innumerevoli infermi.
Non ti chiedo miracoli,
Perché la mia indegnità non li merita:
ma ti prego di aiutarmi in questa cura,
onde possa naturalmente guarire.
Prega per me il Signore,
perché purificato nell'animo,
possa goderlo con te in paradiso.
Amen.




INNO A SAN CALOGERO

O Calogero dal cielo pietoso
Come il sole che splende al mattino
Tu ci guidi nell'aspro cammino
Che conduce all'eterno splendore,
tu ci guidi nell'aspro cammino
Che conduce all'eterno splendore.

Ritornello
O Calogero eremita prega
Prega per noi Gesù.

Sorgi o San Salvator, dell'alba novella.
Già la luce sorride sul monte,
Fanciullini venite alla fonte
Manifesti la gioia del cuor.
Fanciullini venite alla fonte
Manifesti la gioia del cuor.

Ritornello
O Calogero Eremita prega
prega per noi Gesù.

SOURCE : https://www.preghiereperlafamiglia.it/san-calogero.htm


Il monte San Calogero è una collina situata a circa 7 km da Sciacca, in provincia di Agrigento. 
Vi si trovano il santuario di San Calogero (mostrato in questa foto), del XVI secolo, 
e diverse grotte naturali dalle quali si sprigiona vapore. 
Archivio privato della famiglia Riggio. 
Foto amatoriale non firmata, ma trovata nella collezione 
del fotografo dilettante Giuseppe Riggio di Sciacca. 
Upload effettuato dai suoi eredi.


Racconta una leggenda che un cacciatore di Naro, in Sicilia, inseguendo una cerva ferita, capitò in una grotta dove viveva un vecchio nero come la pece. L'eremita disse di essere Calogero, fratello di Diego e Gerlando, due santi venerati rispettivamente a Canicattì e ad Agrigento. Per desiderio espresso di Calogero (il nome nella etimologia greca vuol dire semplicemente "bel vecchio", e con questo appellativo venivano indicati gli eremiti), il cacciatore tacque per alcuni anni la notizia; poi quando gli abitanti di Naro si recarono in processione alla grotta, del santo eremita trovarono soltanto le ossa. Ma ad Agrigento, smentendo in parte la leggenda di Naro, si parla addirittura di quattro santi eremiti col nome di Calogero, patroni di Naro, di Agrigento, di Licata e di Sciacca. Al dire di un antico ritornello, i quattro non sarebbero ugualmente ben disposti a concedere grazie ai devoti, giacché " S. Caloiru di Girgenti, li grazii li fa pri nienti; - S. Caloiru di Naru, li fa sempri pri dinaru ", il patrono di Agrigento le grazie le fa per niente, mentre quello di Naro le fa sempre per denaro! Il santuario più rinomato e più popolare per il culto di S. Calogero è quello di Gemmariaro, o Cronio, un monte a ridosso della cittadina termale di Sciacca. A Fragalà, in provincia di Messina, è stata scoperta la testimonianza più antica del culto di S. Calogero: alcune odi, scritte da un monaco di nome Sergio, del IX secolo, nelle quali si parla di un vecchio eremita, vissuto in una spelonca e dotato di eccezionali poteri taumaturgici contro gli spiriti maligni. S. Calogero sarebbe arrivato in Sicilia da Cartagine e spinto dal desiderio di appartarsi si sarebbe celato dentro una spelonca nei pressi di Lilibeo. Un altro testo, utilizzato anche dalle lezioni dell'Uftìcio, e concordante sostanzialmente col precedente, dice che S. Calogero, nativo di Costantinopoli, dopo una giovinezza trascorsa nello studio della Scrittura e negli esercizi ascetici, venne a Roma a far visita al papa e da questi ottenne il permesso di vivere da eremita, in Sicilia, dove si recò in compagnia di Onofrio, Filippo e Archileone. Lasciando proseguire i compagni per Paternò e Agira, Calogero sostò nell'isola di Lipari. Più tardi, rispondendo al richiamo di una angelica visione, dalle Eolie avrebbe fatto vela per Sciacca, dove scelse a dimora una grotta sul monte Gemmariaro. Visse per altri trentacinque anni, in solitaria meditazione, interrotta di tanto in tanto per scendere a predicare la parola di Dio in mezzo al popolo, operandovi prodigi di ogni genere. 



Il bacio di un devoto alla statua del santo. 
Photographie de Riccardo Spoto at Italian Wikipedia, 2007

18 GIUGNO

SAN CALOGERO EREMITA IN SICILIA

PREGHIERE:

Glorioso San Calogero, costretto dalle miserie e dai miei
affanni con tutto il cuore piangendo, a voi ricorro per aiuto. Io non sono degno di ricevere alcuna grazia da Dio, ma confido che mercé i vostri meriti e la vostra potente intercessione. Iddio mi faccia la grazia di.…….(ognuno domandi la grazia che desidera.) Deh! o San Calogero questa grazia da voi la desidero, da voi la voglio; fate ancora che come voi nell'eremitaggio amaste Dio, così io lo ami per poi venire con voi a goderlo nel Paradiso. Così sia.
Pater

Glorioso San Calogero, volgi lo sguardo a noi e ascolta la nostra preghiera.
Tu sei stato mandato da Dio a irradiare nella Sicilia la luce del Vangelo. Hai cercato il Signore nella solitudine; l'hai servito con la penitenza; hai insegnato la via della salvezza e della virtù. Tutti t'invocano taumaturgo, perché con la tua intercessione Dio ha dato la parola ai muti, la salute ai malati l'udito al sordi e la vista ai ciechi. Ha preservato più volte le terre, a te devote, dal colera, dal terremoto e da altre disgrazie. Salvaci dai pericoli e concedici le grazie che ti chiediamo. Amen.

O Dio per mezzo di Gesù Tuo Figlio e nostro Signore, nello Spirito Santo Dio che hai mostrato a tutti che è Signore e da la vita, Ti ringraziamo dei Tuoi innumerevoli doni. In particolare Ti lodiamo per averci dato, modello e protettore, San Calogero che per amore a Te, nelle nostre contrade, a servito i fratelli guarendoli nell'anima e nel corpo. Per sua intercessione proteggici e sul suo esempio donaci di cercare Te sopra ogni cosa e di trovarti nella preghiera, in un ordinato uso delle cose, nella solitudine. Così sia.

Glorioso San Calogero, noi ci rallegriamo della gloria che godi in cielo e in terra, in premio per le tue virtù e delle grazie di cui ti arricchiva il Signore, operando per intercessione grandi miracoli, nel dare la vista ai ciechi, l'udito ai sordi, la loquela ai muti, la salute ad ogni sorta di ammalati. Accetta le preghiere e gli umili ossequi che con vero affetto ti porgiamo. Tu, o nostro protettore, sei nostra guida e difesa; accoglici sotto il tuo patrocinio, e come nel mondo schiacciasti il demonio da tanti corpi, scaccia il peccato dai nostri cuori. Come ascoltasti tanti meschini che a te ricorrevano ascolta le nostre preghiere. Accendi in noi sentimenti di viva fede, ferma speranza ed ardente carità simile alla tua affinché otteniamo la salute del corpo, ma principalmente quella dell'anima. E così nell'imitazione della tua virtù possedere il santo timore di Dio, la pace e la tranquillità dello spirito, il tuo conforto in questo pellegrinaggio, la tua assistenza nell'ora della morte e finalmente la grazia di venire a lodare con te la divina misericordia in Paradiso per tutta l'eternità.

Prega per noi San Calogero.

Affinché siamo degni delle promesse di Cristo.

AMICO PELLEGRINO

Amico pellegrino,vieni al Santuario,
"Cammina verso lo splendore,il Signore cammina con te".
Prepara il tuo cuore e parti con gioia, solo o in compagnia dei tuoi fratelli, ma vieni.
Segui le orme dei tuoi Padri.
Chiunque tu sia, ricordati che hai un posto nella Casa di Dio,
tu hai dei fratelli da incontrare, dei Santi da imitare,
San Calogero da ascoltare e il mistero della Chiesa da vivere.
Se sei assetato di gioia, di pace, di giustizia,
d'amore e di perdono,
vieni a bere l'acqua viva alla sorgente della salvezza.
Giovane pieno d'entusiasmo, o malato disperato per la sofferenza,
tu che ti senti emarginato,o tu che vivi la serenità della vita familiare,
vieni ad illuminarti alla luce del Vangelo.
Va e torna riconciliato, confortato e rinnovato.
Annuncia la Lieta Notizia ai tuoi fratelli:
Dio ci ama e ci attende.
Cammina verso lo splendore:
il Signore cammina con te.

CREDIMI SIGNORE

Signore, Padre Onnipotente, luce nelle tenebre;
misericordia infinita; maestro e compagno;
volontà suprema e creatore di ogni volontà.
Mi hai dato gli occhi per vedere.
Il cuore per sentire, amare e credere.
Mi hai dato il cervello per pensare.
Ed io, mio Signore, sento, amo, credo e penso.
Signore dimmi, dove sei?
Io ti cerco, desidero incontrarti, parlare con te,
ascoltarti, ma Tu. Nella mia pochezza,
di sicuro sbaglio, pure quando ti cerco, ti respingo:
tu sei dentro di me ed io voglio trovarti fuori.
Ma Signore, Onnipotente Creatore che ci lasci liberi e
sempre liberi ci hai lasciato. Tu permetti noi di sbagliare,
tu ci consenti di peccare.
La tua volontà, Signore, è suprema, nel bene ed anche nel male!
Padre Nostro misericordioso che mai il tuo perdono fai mancare,
tu hai fatto un disegno, un mosaico immenso, perfetto e noi siamo i tasselli:
sempre suprema è la tua volontà.
Non meravigliarti Signore, non sorprenderti e non offenderti
se la mia fede vola come una carta al vento e poi,
ritorna come un'onda del mare, calmo.
Ma tu sei il Signore, il mio Signore, l'Onnipotente Padre Creatore
ed ogni cosa conosci. Tutto è da te, tutto è per te, tutto ti appartiene.
Tu vuoi la mia fede come una carta al vento.
Io imploro il tuo aiuto,sempre di te ho bisogno: non togliermi la tua misericordia.
Solo tu sai quant'è difficile credere in te,credimi, Signore!


INNO

Da ogni piaga ognor, o San Calogero,
muovon le turbe pellegrinanti a te
stanche e provate dal lungo penare
ai tuoi pie' vengono ad implorar mercé.
Rit. 

Tu dei fedeli i voti
accogli e le preghiere,
tu alle stanche schiere largisci
i tuoi favor; in Dio dei tribolati
la fede e la speranza
conferma e la costanza
lenisci ogni dolor! (bis)

Freme la guerra intorno a noi del male
e non v'è pace in fondo ai nostri cuor
onde dimessi, stretti al tuo altar,
tregua imploriamo, o Santo Protettore.
Rit.

Su questo colle ove di grazie
il trono fissar volesti del tuo santo amor il voto adempi del popolo che l'implora
stendi il tuo manto sopra San Salvator.....
Rit.

INNO

O Calogero dal ciel pietoso
Come il sole che splende al mattino
Tu ci guidi nell'aspro cammino
Che conduce all'eterno splendor,
Tu ci guidi nell'aspro cammino
Che conduce all'eterno splendor.

Rit. O Calogero Eremita prega
prega per noi Gesù.

Sorgi o San Salvator, dell'alba novella.
Già la luce sorride sul monte
Fanciullini venite alla fonte
Manifesti la gioia del cuor.
Fanciullini venite alla fonte
Manifesti la gioia del cuor.

Rit.

Martirologio Romano: Sul monte Gemmariaro presso Sciacca in Sicilia occidentale, san Calogero, eremita. 



Statue de Saint Calogero. 
Santuario di San Calogero, Naro (Sicily)


Calógero el anacoreta, Santo

Eremita, 18 de junio

Por: Cristina Huete García | Fuente: hagiopedia.blogspot.com 

Martirologio Romano: En el monte Cronio (hoy Gemmariario), cerca de las termas de Selinunte, en Sicilia occidental, Italia, san Calógero, eremita. ( c. 561).

Nació en Calcedonia, junto al Bósforo, en un pueblo de la antigua Tracia. Desde niño fue muy devoto y, ya joven, peregrinó de Constantinopla a Roma, donde lo recibió el papa san Félix III y le dio permiso para vivir en soledad en un lugar impreciso.

En este lugar tuvo una visión angélica o una inspiración celestial, que le indicó que debía evangelizar Sicilia; se entrevistó con el Papa del que obtuvo la autorización para partir hacia la isla, con sus compañeros san Felipe, Onofrio y Arquileon, para liberar aquel pueblo de los demonios y de la adoración de los dioses paganos. Mientras san Felipe se dirigió a Agira y Onofrio y Arquileon se fueron a Paternò, Calógero, durante el viaje a Lípari, en las islas Eolias, fue invitado por los habitantes para que se quedara con ellos durante algún tiempo, predicando el Evangelio y enseñándoles cómo utilizar las aguas termales en los momentos de necesidad.

Durante su permanencia en la isla de Lípari, tuvo la visión de la muerte y condena del rey Teodorico, rey de los lombardos. Después de otra visión, se dirigió a Sicialia y vivió en Sciacca (Sicilia). Convirtió a sus habitantes y curó a los poseídos. En el monte donde vivió hoy se le llama: monte San Calógero. Es recordado por su soledad, por la felicidad con la que gozó la vida, y por sus exorcismos. Su vida está plagada de leyendas piadosas. Patrón de Agrigento.   




Saint GIOVANNI (SCALCIONE) da MATERA (de PULSANO), abbé

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Saint Jean de Matera

Abbé ( 1139)

Giovanni Scalcione, né vers 1070 à Matera, appelé également Jean de Pulsano.

Moine qui, entre spiritualité individuelle et pratiques institutionnelles, fut fidèle à l'Ordre bénédictin. Emprisonné en Sicile, il s'échappa vers Capoue et n'abandonna pas la vie religieuse malgré les problèmes affrontés.

Après sa rencontre avec saint Guillaume de Vercelli, il fonda un monastère à Pulsano dans la région du Mont Gargan, il était réputé pour son austérité, ses prédications, ses prophéties et ses miracles. Il est souvent représenté en abbé chassant les démons avec un bâton.

Du peu qui est connu de sa vie on sait qu'il n'était pas un homme ordinaire mais un moine dévoué.
(d'après Joël Chow - Tomorrow Newspaper, Nov 2008, St Mary of the Angels - en anglais)

Au monastère de Saint-Jacques dans les Pouilles, en 1139, saint Jean de Matera, abbé. Remarquable par son austérité et sa prédication au peuple, il fonda, dans la région du Mont Gargan, la Congrégation bénédictine de Pulsano.
Martyrologe romain


John of Matera, OSB Abbot (AC)

(also known as John of Mathera or Pulsano)


Born at Matera in the Basilicata; died at Pulsano, Italy, 1139. Early in his life John entered a Benedictine monastery, where he earned a reputation for austerity. For a while he joined Saint William at Monte Vergine, but left him to become a popular preacher at Bari. Later founded a community at Pulsano near Monte Gargano, the first of a series of foundations that coalesced into a new Benedictine congregation (Benedictines, Encyclopedia). In art, Saint John is an abbot driving away the devil with a rod (Roeder).



Urna di san Giovanni da Matera

Saint John of Pulsano


Also known as
  • Giovanni di Matera
  • Giovanni Scalcione
  • John of Matera
  • John of Mathera
Profile

Benedictine monk. Lived with such austerity that it brought on the enmity of his brothers who felt he was setting a standard that they could not meet, making them look bad, and drawing attention to himself. Monk at Montevergine Abbey under the spiritual direction of his friend Saint William of Vercelli, its founder. Popular preacher in BariItaly. Founded the Saint Mary of Pulsano Abbey at PulsanoItaly where he served as abbot, and from which grew a new congregation.

Born
  • abbot driving away the devil with a rod


La chiesa rupestre del Purgatorio Vecchio, casa natale del santo

JOHN OF MATERA, ST.

Also known as John of Pulsano, Benedictine, founder and abbot; b. Matera, Kingdom of Naples, 1070; d. Pulsano, June 20, 1139. Following what he considered divine commands, John spent much of his life journeying from one religious house to another seeking an environment conducive to his severe mortifications. Having lived some years as a hermit, he founded a small monastery at Ginosa (not far from Matera), which was dispersed by the normans. He then joined william of vercelli, but he left that community when fire destroyed its buildings. When preaching in Bari, he narrowly escaped being burned as a heretic. Finally he settled at Pulsano near Monte Gargano in Apulia (c. 1130), where he attracted a small group of followers (the now extinct Benedictine Congregation of Pulsano), whom he governed, until his death, according to a strict interpretation of the benedic tine rule.
Feast: June 20.
Bibliography: Acta Sanctorum June 5:33–50. gG J. Giordano, Croniche de Monte Vergine (Naples 1649) 520–527. A. F. Pecci, Vita S. Iohannis a Mathera abbatis, Pulsanensis Congregationis fundatoris(Putineani 1938); rev. B. de Gaiffer, Analecta Bollandiana 57 (1939) 174–176.
[E. J. Kealey]

San Giovanni (Scalcione) da Matera Abate


Matera, 1070 (1080) - Foggia, 20 giugno 1139

Nacque nel 1070 a Matera da una famiglia di nobili. Da giovane si trasferì a Taranto dove chiese ospitalità e lavoro ai monaci basiliani dell'Isola di San Pietro. Ispirato da una visione si recò in Calabria e poi in Sicilia continuando a condurre un'esistenza nel segno della penitenza e della rinuncia. Ritornato in Puglia, a Ginosa, si fece conoscere come predicatore nella zona e attirando l'ammirazione di molti. Imprigionato a causa di false calunnie fu liberato miracolosamente. Allontanatosi dalla terra natia, vi fece ritorno in seguito a una visione. Dopo un incontro e un periodo di permanenza con l'eremita san Guglielmo da Vercelli decise di andare in Palestina. Tuttavia passando per Bari comprese che la sua missione doveva svolgersi in quella città. Dopo un periodo di predicazione si fermò vicino a Pulsano, dove fondò una comunità che in sei mesi vide l'adesione di 50 monaci. La Congregazione monastica fu detta degli «Scalzi». Morì nel monastero di Foggia nel 1139. (Avvenire)

Patronato: Matera

Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall'ebraico

Martirologio Romano: Nel monastero di San Giacomo di Foggia in Puglia, san Giovanni da Matera, abate, che, insigne per austerità di vita e per la predicazione al popolo, fondò sul Gargano la Congregazione di Pulsano di osservanza benedettina. 

E’ detto anche da Pulsano, dal luogo ove fondò la sua ultima opera monastica. Nacque verso il 1070 in Matera da una ricca e nobile famiglia, ma ancora giovanetto, animato da uno straordinario spirito di pietà, abbandonò la casa paterna e si diresse a Taranto dove chiese ospitalità e lavoro ai monaci basiliani dell’Isola di S. Pietro, qui gli fu affidata la custodia delle pecore. 

Quando aveva lasciato i fasti della sua casa, aveva scambiato i suoi lussuosi abiti con quelli di un povero, certo il gesto di s. Francesco che si spoglia dei suoi abiti per indossare un saio, era già stato fatto tante volte nei secoli precedenti da questi iniziali eremiti e monaci. 

Giovanni fu molto provato da questo lavoro e quando stava per cedere, sentì una voce interna “Dio è con te” che lo rianimò; alla vista di una barca credette di vedere un volere di Dio e quindi si fece trasportare in Calabria, dove fece una vita di solitudine e mortificazione, da lì passò in Sicilia standoci due anni e proseguendo la sua vita di penitente. 

Ritornò in Puglia a Ginosa che era vicino Taranto e Matera e lì continuò la sua consueta vita, ospitato dai parenti che nel frattempo si erano trasferiti per motivi politici, ma ridotto quasi ad un scheletro, riuscì a non farsi riconoscere. 

Prese a girare fra il popolo di vari paesi predicando ed esortando ad una vita di preghiera, attirando la benevolenza di molti ed anche l’accodarsi di alcuni discepoli, subì anche delle calunnie per cui finì in prigione per ordine del conte Roberto di Chiaromonte. Fu liberato miracolosamente e dovette allontanarsi da tutti, continuando a predicare in altre zone, giunto a Capua, sentì di nuovo la sua voce guida che gli disse di ritornare in Puglia; sui monti dell’Irpinia a Bagnoli incontrò s. Guglielmo da Vercelli che con alcuni discepoli conduceva vita eremitica, si fermò con loro finché ebbe una visione che indicava per entrambi le loro strade, opposte ma sempre nell’Italia Meridionale, infatti Giovanni operò in Puglia mentre Guglielmo avrebbe poi fondato il monastero e santuario di Montevergine. 

Decise di andare in Palestina passando per Bari, la città in quel periodo godeva di importante vivacità, da poco erano arrivate le reliquie di s. Nicola (1087) e celebrato un Concilio presieduto dal papa Urbano II con eminenti vescovi cattolici, ma tutto ciò non impediva il proliferare di disordini morali e politici, allora Giovanni comprese che la sua Palestina era lì, in Puglia. 

Riprese le sue peregrinazioni, attirando tanta ammirazione dal popolo ma anche tanti nemici al punto che corse il pericolo di essere bruciato vivo. Visitò i suoi discepoli a Ginosa e proseguì per il Gargano, già celebre per il santuario dell’Arcangelo Michele e lì vicino a Pulsano si fermò in una valle solitaria insieme a sei discepoli. 

Iniziò così una nuova comunità che in capo a sei mesi raggiunse l’aggregazione di 50 monaci e acquistando gran fama. La Congregazione monastica detta degli “Scalzi” si ingrandì ricevendo lasciti e terreni per cui fu aperta un’altra casa presso la chiesa di s. Giacomo a Foggia e poi un monastero a Meleda in Dalmazia di fronte alle coste del Gargano, lì fu inviato a reggerlo il monaco Giovanni Bono, morto in concetto di santità. 

Dopo dieci anni di conduzione e dopo aver guadagnato la stima del re Ruggero II e del papa Innocenzo II morì nel monastero di Foggia il 20 giugno 1139 e lì sepolto. 

E’ stato il precursore, insieme ad altri movimenti religiosi sorti fra il X e l’XI secolo, della vita penitenziale, povera ed associata che porterà al sorgere degli Ordini mendicanti più organizzati e vasti. 
La Congregazione di Pulsano, nel sec. XV era quasi estinta, ma restano i molti frutti di santità prodotti dai suoi monasteri. Il corpo di s. Giovanni, da Foggia fu poi trasportato a Pulsano e nel 1830 traslato nella cattedrale di Matera di cui è compatrono e la cui festa si commemora il 23 giugno.

Le sacre reliquie del Santo Abate fondatore di S. Maria di Pulsano sono custodite nella Cattedrale di Matera in una artistica urna dal 1830.


Autore: Antonio Borrelli



GIOVANNI da Matera, santo. - Nacque intorno al 1080 a Matera; i nomi dei genitori non sono noti: è priva di fondamento una tradizione locale che lo vuole membro della famiglia materana De Scalcionibus; nulla di preciso sappiamo anche riguardo la loro estrazione sociale ("non gregalibus", Vita, p. 2). Ancora ragazzo G. si allontanò in segreto dalla famiglia per essere ospitato in un monastero di rito greco situato su una delle isole prospicienti Taranto (probabilmente S. Pietro de Insula, o Ss. Pietro e Andrea), ma qui il rigore della sua vita - ispirata a una rigida ascesi eremitica - lo portò ad avere incomprensioni con i monaci tarantini, sino alla decisione di fuggire nuovamente. Condusse, quindi, per oltre due anni una vita di solitudine e penitenza in alcune località isolate di Calabria e Sicilia, delle quali però non conosciamo i nomi. Dopo questa esperienza di rigida privazione G. tornò in Lucania, presso Ginosa, dove pure i suoi genitori si erano trasferiti, ma senza farsi da loro riconoscere; qui portò alle estreme conseguenze la sua ascesi penitente, privandosi per due anni e mezzo quasi completamente del cibo, delle bevande e dell'uso della parola. Solo a partire da questo momento (da collocare intorno al 1100-10) iniziò l'attività di predicazione e proselitismo di G., che si protrasse sino alla sua morte.
Nell'agro ginosino, presso una chiesa intitolata a S. Pietro, fondò infatti una comunità di tipo monastico, di cui però non conosciamo la regola seguita. Per il restauro della chiesetta diruta G. avrebbe fatto ricorso a un tesoro rinvenuto nei pressi dell'edificio, stuzzicando l'avidità e le ire del conte locale, un Roberto non meglio noto. Questi lo fece imprigionare facendo probabilmente riferimento per le accuse anche alla legislazione in materia di ritrovamento di tesori. Comunque G. riuscì a liberarsi miracolosamente dalle catene e ad allontanarsi dalla cittadina lucana.
Le notizie biografiche su G. si desumono quasi esclusivamente da un testo agiografico redatto da un anonimo monaco della comunità di Pulsano, scritto qualche decennio dopo la morte del santo fondatore e comunque prima del 1177 (cfr. Bibliotheca hagiographica Latina, I, n. 4411). Le informazioni fornite sono nel complesso molto sommarie per la nascita e l'infanzia, mentre diventano più dettagliate per gli anni della giovinezza e della maturità. L'intera narrazione non sfugge comunque a una precisa organizzazione e selezione del materiale narrato, secondo un intento celebrativo del modello di vita monastico imposto da G. ai suoi monaci. Di qui anche il peso preponderante che hanno nella economia del racconto i numerosi miracoli compiuti da G. dopo la fondazione di Pulsano, nonché l'aggiunta di notizie preziose riguardanti le vicende della comunità sotto l'abbaziato dei due primi successori, Giordano e Gioele.
Oltre qualche rada e sintetica menzione in fonti commemorative e liturgiche, alcuni precisi riferimenti alla figura di G. si rinvengono comunque in un altro testo agiografico, la Legenda s. Guillelmi (cfr. Bibliotheca hagiographica Latina. Novum supplementum, n. 8924) relativa a Guglielmo da Vercelli (m. 1142), il fondatore di S. Maria di Montevergine e S. Salvatore al Goleto. Questo testo risulta composito e opera di diversi autori, ma la sezione in cui compare G. venne redatta nel decennio successivo alla morte di Guglielmo, nel monastero di S. Salvatore al Goleto e quindi in tempi ancora molto vicini agli avvenimenti narrati e riguardanti anche Giovanni da Matera. Sostanzialmente comunque questa fonte conferma e arricchisce, senza contraddirlo, il quadro desumibile dall'anonima Vita.
Solo la Legenda parla di una apposita deviazione da parte di Guglielmo da Vercelli, in transito alla volta di Gerusalemme, verso Ginosa per conoscere G.; sarebbe stato lo stesso G. a invitare poi Guglielmo a fermarsi stabilmente nel Mezzogiorno, senza insistere nei piani di pellegrinaggio Oltremare. Il tono della narrazione lascia intendere un rapporto quasi da discepolo di Guglielmo nei confronti di G. (definito "magni meriti magnique nominis vir" nella Legenda, p. 89), che si mantenne saldo anche negli anni seguenti.
Non bisogna però dimenticare che, da parte sua, G. subiva il fascino della itineranza eremitica, tanto che anche lui si allontanò da Ginosa e dai suoi primi discepoli e per un anno ancora vagò nel Mezzogiorno, giungendo sino a Capua; qui una rivelazione divina lo indusse a tornare in Puglia perché suo compito era quello di guidare sulla retta via "multum populum utriusque sexus" (Vita, p. 11). La prima tappa in questo ritrovato percorso fu sul monte Laceno, presso Bagnoli Irpino e Nusco, dove G. incontrò ancora una volta Guglielmo da Vercelli. Qui vi fu la tentazione manifesta di insediarsi stabilmente, ma in entrambe le fonti agiografiche si pone in risalto l'intervento di G. per convincere il gruppetto di eremiti ad abbandonare quel luogo e volgersi verso terre più densamente abitate. In questa prospettiva non poteva essere soddisfacente per G. il nuovo sito prescelto, sul massiccio della Serra Cognata nei pressi di Tricarico, nel versante nord della valle del Basento; infatti qui G. si fermò solo il tempo necessario per aiutare Guglielmo e i suoi compagni a costruirsi un primo ricetto, optando subito dopo per una attività di predicazione che avesse un pubblico più ampio rispetto a quello delle sparute comunità montane.
La meta di G. fu la città di Bari, già capoluogo del Catapanato bizantino e ancora il centro urbano più importante della Puglia normanna; qui fu attivo intorno al 1127-28.
Sebbene la sua predicazione pare aver avuto solo carattere parenetico, con l'invito alla sobrietà, alla castità e alla carità, in realtà essa dovette toccare qualche nervo scoperto nel clero barese, che si sentì direttamente attaccato. Pare piuttosto improbabile che G. abbia ricevuto una qualche licenza di predicazione, sul modello di contemporanei predicatori itineranti attivi Oltralpe; a ogni modo l'agiografo riporta con certezza la notizia di un processo intentato contro di lui dai chierici baresi per blasfemia e sospetto di eresia, senza fare riferimento alla liceità della sua predicazione. Il processo venne alla fine presieduto però da un laico, il principe Grimoaldo Alfaranite, che in quegli anni (1119-30) stava cercando di imporre la sua autorità all'interno del gruppo dirigente barese al fine di liberarsi del residuo controllo dei duchi normanni di Salerno. L'esito del processo fu favorevole, con la prevedibile e piena assoluzione di G., che preferì tuttavia allontanarsi prudentemente dalla città.
In un primo momento egli si recò a far visita ai suoi primi discepoli che erano rimasti nella comunità di S. Pietro di Ginosa, ma poi si fermò nei pressi di Monte Sant'Angelo, scegliendo ancora una volta un centro urbano ad alta frequentazione; la cittadina garganica infatti si sviluppava in funzione della celebre grotta micaelica, uno dei santuari più frequentati in Europa, che proprio in quei decenni cominciava a subire, in terra di Puglia, la concorrenza di S. Nicola di Bari, dove già G. si era pure fermato. Anche a Monte Sant'Angelo il comportamento di G. non pare essere stato molto difforme rispetto a quello tenuto a Bari, in quanto egli si dedicò alla predicazione, sino al compimento del suo primo miracolo: riunita una larga parte della popolazione fuori della città, tenne una predica in cui spiegò che la siccità che stava affliggendo la regione era causata dal peccato commesso da un canonico impenitente. Dietro la minaccia di G. di procedere egli stesso alla punizione, il canonico avrebbe fatto pubblica penitenza abbandonando la città. Ma anche G., che pure aveva miracolosamente risolto il problema della siccità, preferì allontanarsi dal Gargano, facendovi ritorno solo dopo un anno, per fondarvi la sua nuova e più importante comunità monastica.
La scelta del sito per la fondazione venne indicato da due figure soprannaturali apparse a G. e nelle quali è facile riconoscere la Vergine e s. Michele, elevati quindi a santi patroni del nuovo insediamento. Il luogo prescelto, denominato Pulsano, era un piccolo pianoro terminante a strapiombo sul golfo di Manfredonia; al suo limite vi era una grotta, che forse già ospitava una piccola chiesa rupestre dedicata a Maria, trasformata da G. nella prima chiesa della nuova comunità.
È priva di fondamento la notizia riguardante l'esistenza nello stesso luogo nei secoli precedenti di altre comunità monastiche, di cui una risalirebbe all'epoca e alla cerchia di papa Gregorio I, e l'altra dipendenza cluniacense. Tutto lascia invece supporre che fu G. a introdurre per primo la vita monastica intorno alla grotta di Pulsano.
La fondazione di G. incontrò gli immediati favori della popolazione locale, nonché di coloro che erano desiderosi di condurre vita monastica: nel giro di sei mesi i suoi compagni crebbero dagli originari sei fino a cinquanta. Oltre alla fama di santità che circondava la figura del fondatore, anche la vicinanza del santuario micaelico ebbe sicuramente un suo rilievo nel determinare il rapido accrescersi della notorietà della nuova fondazione. Molti sono i miracoli compiuti da G., e riportati nella Vita, che hanno come destinatari in primo luogo i suoi discepoli. G. guarì un giovane colpito da macerie durante la costruzione degli edifici monastici, e convinse i genitori di un altro a non opporsi alla vocazione monastica del loro figlio; molto probabilmente quest'ultimo è il Gioele più tardi attestato come terzo abate di Pulsano.
Sin dagli esordi G. scelse per i monaci di Pulsano la regola benedettina, ma insistette soprattutto nel restituire valore al lavoro manuale, alla stretta osservanza della povertà individuale, alla necessità di prestare obbedienza assoluta all'abate. Certamente G. dovette mantenere viva una preferenza per la vita eremitica, sia pure inquadrata all'interno di un cammino di formazione e perfezione che nella vita cenobitica trovava il suo solido fondamento. In questo recupero della vocazione eremitica ebbe probabilmente un certo influsso anche l'esperienza fatta in gioventù in comunità monastiche greche e in territori calabro-siculi di netta tradizione greca; l'anonimo agiografo - fonte pressoché unica sugli esordi della comunità di Pulsano - tende a tacere, se non sminuire, questi possibili rapporti. Non abbiamo comunque frammenti di "consuetudini" monastiche fatte redigere da G. per i suoi monaci, anche se nella documentazione posteriore si fa allusione a una loro esistenza.
La comunità di discepoli - maschi e femmine - si allargò molto rapidamente e per questo G. fondò ben presto delle comunità separate da quella centrale di Pulsano. Si crearono così i primi priorati dipendenti dalla casa madre di Pulsano, con la quale intrattenevano uno stretto rapporto di dipendenza, secondo un modello di congregazione a forte impronta centralizzante di tipo cluniacense-cavense. L'urgenza di dare un qualche sbocco alla crescente ondata di vocazioni femminili era particolarmente sentita dai riformatori monastici dell'XI-XII secolo e G., come pure il suo compagno Guglielmo da Vercelli, si mossero in questa direzione, provvedendo entrambi a fondare monasteri femminili. In particolare G. fondò una prima comunità sul Gargano, presso una chiesa precedentemente tenuta da un laico che vi conviveva con una monaca; è probabile che qui fosse ospitata la comunità di S. Barnaba, attestata come ancora fiorente nella Vita, ma non documentata altrimenti. Altre comunità femminili dipendenti da Pulsano - la più importante è quella di S. Cecilia presso Foggia - sono attestate in fonti posteriori alla morte di Giovanni da Matera.
Non ci sono giunti documenti riguardanti i rapporti del nuovo monastero con l'arcivescovo di Siponto, dalla cui diocesi il monastero dipendeva, anche se ben presto le comunità pulsanesi ottennero l'esenzione. Un primo privilegio pontificio, perduto, venne concesso da Innocenzo II alla comunità, ma non sappiamo se direttamente allo stesso Giovanni. Nuovi privilegi vennero in seguito concessi da Eugenio III e da Alessandro III; solo quest'ultimo privilegio, datato al 9 febbr. 1177, ci è giunto e fornisce alcuni elementi per conoscere indirettamente i rapporti intercorsi all'epoca di Giovanni. Nel privilegio il papa - sull'esempio dei predecessori - prende sotto la sua protezione la comunità di Pulsano, elencandone le dipendenze e confermando il diritto di correzione da parte dell'abate di Pulsano nei confronti di tutte le altre comunità elencate; stabilisce inoltre la libertà di scelta del vescovo per consacrazione e olio santo, nonché l'esenzione dal pagamento della decima per i proventi del lavoro diretto dei monaci; in riconoscimento della protezione della Sede apostolica Pulsano si impegna al versamento del censo di due bisanti.
Più ambigue sono le notizie riguardanti i rapporti con la monarchia normanna. Non è infatti chiaro se vi fossero rapporti di dipendenza determinati da una originaria proprietà demaniale dell'area su cui sorse il monastero, né se il re Ruggero II avesse operato cospicue donazioni in favore della comunità. Da alcuni episodi narrati nella sezione finale della Vita si desume che vi fu un tentativo da parte di Ruggero II di estendere il proprio controllo anche su questo monastero, a partire dal controllo delle elezioni abbaziali, secondo una prassi ben attestata per altri istituti ecclesiastici del Regno. Anche se la Vitasostiene che il re rinunciò alle sue pretese, sappiamo che comunque Pulsano, insieme con l'Honor Montis Sancti Angeli, entrò a far parte del dovario delle consorti regie a partire dal 1177, con Giovanna d'Inghilterra moglie di Guglielmo II.
Nel suo ruolo di abate di tutte le comunità pulsanesi G. dovette spesso spostarsi nei diversi priorati per esercitare concretamente le sue funzioni; proprio durante uno di questi spostamenti lo colse la morte il 20 giugno 1139 presso la dipendenza di S. Giacomo nei pressi di Foggia.
Questo priorato era situato fuori dell'abitato di Foggia, lungo la strada che portava verso Siponto e San Michele al Gargano, tanto che da fonti posteriori sappiamo che esso comprendeva anche un ospizio per pellegrini. Proprio in virtù di questa fortunata dislocazione sulla via di San Michele si preferì forse lasciare che il corpo di G. restasse in questo priorato, invece di essere subito traslato nella più decentrata e non ancora famosa casa madre di Pulsano. Una tradizione di età moderna vuole che il corpo sia stato infine trasportato a Pulsano nel gennaio del 1177, in occasione del passaggio per le terre garganiche di papa Alessandro III. I resti di G. restarono dunque dopo il XIII secolo nel monastero di Pulsano, anche se qualche particola del corpo venne ceduta ad altri istituti ecclesiastici. Solo il 28 ott. 1830 i canonici materani riuscirono a ottenere il consenso per la traslazione del corpo di G. dall'ormai abbandonato monastero di Pulsano nella cattedrale di Matera, dove tuttora le reliquie sono sistemate sotto l'altare a lui dedicato.
Lo sviluppo della famiglia monastica pulsanese venne coordinato dai due successori di Giovanni. Il primo, Giordano (1139-45), nativo di Monteverde (nell'attuale provincia di Avellino), era entrato sin da ragazzo tra i discepoli di G. e si collocava quindi in linea di stretta continuità con il fondatore. Alla sua iniziativa si devono gli insediamenti in Dalmazia e a Piacenza, con l'assunzione di precisi riferimenti al sistema organizzativo proprio dell'Ordine cistercense. Più lungo e intenso fu l'abbaziato del suo successore, Gioele (1145-77), anch'egli legato da rapporti di discepolato diretto con G., secondo quanto affermato dalla Vita, di cui peraltro fu verosimilmente il committente. Al momento della morte di Gioele Pulsano contava dodici dipendenze nell'area pugliese, insieme con altre due dipendenze più lontane, S. Pietro di Cellaria a Calvello e S. Pietro di Vallebona presso Manoppello in Abruzzo. Fuori dei confini del Regno di Sicilia vi erano altre sei dipendenze, tutte con il rango di abbazie: S. Maria nell'isola di Meleta presso Dubrovnik, S. Salvatore sulla Trebbia presso Piacenza, S. Michele degli Scalzi presso Pisa, S. Michele a Guamo presso Lucca, S. Maria di Fabroro presso Firenze, S. Pancrazio sulla via Aurelia. Dopo il 1177 e per gran parte del XIII secolo scarseggiano le notizie relative alle comunità meridionali pulsanesi; mentre dalla fine del secolo emerse un ruolo più decisamente predominante delle comunità toscane, specie quella di Pisa, che divenne una sorta di centro alternativo per la congregazione. Nel XIV secolo la crisi divenne comune a tutti gli insediamenti, sino a che pressoché tutte le comunità furono cedute in commenda o comunque abbandonate dai monaci.
Fonti e Bibl.: Acta sanctorumIunii, V, Parisiis-Romae 1867, pp. 33-50; Vita s. Ioannis a Mathera abbatis Pulsanensis Congregationis fundatoris ex perantiquo ms. codice Matherano, a cura di A. Pecci - L. Mattei Cerasoli, Putignano 1938; Legenda de vita et obitu s. Guilielmi confessoris et heremite, a cura di G. Mongelli, Montevergine 1979, pp. 89, 96-98; M. Villani, Il Necrologio e il Libro del capitolo di S. Cecilia di Foggia (erroneamente attribuiti a S. Lorenzo di Benevento), in La Specola, 1992-93, pp. 9-84; P. Sarnelli, Cronologia de' vescovi e arcivescovi sipontini, Manfredonia 1680, pp. 75, 100, 214; F.P. Volpe, Memorie storiche, profane e religiose su la città di Matera, Napoli 1818, pp. 42-45; Id., Vita di s. G. da M., Potenza 1831; L. Mattei Cerasoli, La Congregazione benedettina degli eremiti pulsanesi, Badia di Cava 1939; B. Vetere, Il filone monastico eremitico e l'Ordine pulsanese, in L'esperienza monastica benedettina e la Puglia, I, Galatina 1983, pp. 197-244; A. Vuolo, Monachesimo riformato e predicazione: la "Vita di s. G. da M." (sec. XII), in Studi medievali, XXVII (1986), pp. 69-121; D. Osheim, A Tuscan monastery and its social world, Roma 1989, ad indicem; F. Panarelli, Dal Gargano alla Toscana: il monachesimo riformato latino dei pulsanesi (secoli XII-XIV), Roma 1997; Bibliotheca hagiographica Latina, I, nn. 4411 s.; Bibliotheca hagiographica Latina. Novum supplementum, p. 489; Bibliotheca sanctorum, VI, coll. 825-828.



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